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Lasciate in pace Nicola Pietrangeli
22 nov 2024
C'è davvero bisogno di contattarlo a ogni vittoria di Sinner?
(articolo)
11 min
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IMAGO / Marco Canoniero
(copertina) IMAGO / Marco Canoniero
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Dopo le partite di Jannik Sinner qualcuno telefona a Nicola Pietrangeli. È lecito immaginarsi Nicola, coi suoi impeccabili gilet da merceria di Corso Francia, nel suo bellissimo salotto. Una stanza col parquet a spina di pesce; Nicola seduto sul divano, gli occhiali da sole Persol marroni indossati anche all’interno, coppe, medaglie, cimeli vari e un arredamento che rivela la sua appartenenza a una borghesia reale e non posticcia. Una borghesia che si muove con leggerezza aerea tra aperitivi, cene e situazioni. Nessuna piccola cosa di pessimo gusto. Mobili di design un po’ datati, ma risalenti a un’epoca in cui le cose si facevano per bene; paesaggi inglesi, una caccia alla volpe, il poster di una ballerina di Flamenco, una tigre di ceramica alta un metro.

Squilla il telefono. “Sì, Pronto, Pietrangeli”. È un giornale, vogliono sapere cosa ne pensa dell’ultima di Sinner: un trofeo alzato, una squalifica per doping, una convocazione mancata, una residenza a Montecarlo. “Nicola, cosa ne pensi, tu che sei stato un grande campione?”. E Nicola parte a commentare, non si ferma più, parla, parla. Magari si sente un po’ solo, e poi è bello sentirsi ancora importante. Il telefono che squilla, i giornalisti che vogliono parlare. Certe cose non smetteranno mai di piacergli. Apparire, mostrarsi, ha sempre fatto parte di una certa routine, di un modo di stare al mondo.

La funzione di Nicola Pietrangeli rispetto a Jannik Sinner è quella del coro greco: un commento alle gesta dell’eroe, una spiegazione per il pubblico di come dovrebbe interpretare la sua parabola. Pietrangeli leggermente distaccato da questa realtà, su un piedistallo fra cielo e terra, intoccabile, irraggiungibile; protetto dai suoi trofei, dal suo status, dalla sua eleganza. Pietrangeli arbiter elegantiae, arbiter vitae.

E così Nicola, in questa fase tarda della sua vita, si è ritrovato in un ruolo che non si sarebbe mai aspettato, quello di grande nemico di Jannik Sinner. Più nello specifico, che lo voglia oppure no, Pietrangeli è inquadrato dai giornali italiani nella figura del vecchio rosicone; dell’uomo che ormai ha fatto il suo tempo ma che non ci sta, che non sopporta sia arrivato uno più talentuoso di lui, uno più di successo. Un giovane fortissimo e con tutta la carriera davanti, in grado di strapparlo dal trono del più grande tennista italiano di sempre, mentre lui è nel suo salone circondato dal proprio passato.

È un abito triste, questo che deve indossare Nicola Pietrangeli, della vecchia leggenda che non accetta di essere superata. Lui non fa niente per sottrarsi. Già nel 2021, quando le sue parole facevano meno rumore, diceva cose come: «Servizi mostruosi, violenza inaudita. Bravissimi, per carità. Ma noi giocavamo anche per il pubblico, ai campioni moderni non gliene frega niente» - parlando di Sinner e Berrettini. Conosciamo il tipo, abbiamo presente. Abbiamo tutti sostenuto una conversazione con qualcuno di una certa età che dice che quello di oggi, bene o male, non è tennis; che i tennisti di oggi usano la clava mentre una volta impugnavano il fioretto; che il tennis era uno sport da signori e oggi è uno da trogloditi. Gente che non sa giocare una volée. Lo sport dei gesti bianchi, come si è ridotto. Al massimo Federer, ma dopo lui, cosa ci sarebbe di bello?

Pietrangeli, poi, sembra avere in effetti un ego smisurato. Principe della mondanità, tesserato di tutti i circoli del Tevere, Dongiovanni irredimibile. Pietrangeli con gli occhi azzurri, le labbra carnose i capelli ricci corti da adone appena uscito dall’acqua. Pietrangeli che ha rimorchiato più di tutti. Pietrangeli bello a vent’anni, ma anche a trenta, quaranta, sessanta e pure oggi a ottanta. Pietrangeli con la polo del circolo Parioli, al telefonino con qualcuno, la collana d’oro che si intravede sul petto abbronzato. Parla con un giornalista che gli chiede del suo stile di gioco, e lui risponde: «Perdonatemi l’immodestia, mi vedo come il Federer della mia epoca».

Pietrangeli col completo spezzato, o con un tweed di alta fattura, o col vestito blu chiuso da un solo bottone. Una sensibilità molecolare per capire quando ci va la cravatta e quando non ci va; Pietrangeli con l’occhialata sempre pazzesca: Ray Ban a goccia fumè, Persol massicci, rettangolari specchiati, montature argento o con dettagli in oro, persino guizzi di una rosa shocking (“mi servono per vedere il mondo un po’ più rosa”), o di capricci più tecnici e sciistici. Pietrangeli che non ce la fa proprio, a starsene in disparte, che in mezzo al narcisismo della squadra di Davis è sempre il più narcisista di tutti.

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«Nicola, noi non proviamo per te quello che provavamo prima» gli dicono quelli della Davis, tutti tesi come di fronte a un amante dispotico, di cui si teme la reazione. «Ma andatevene a fanculo» risponde lui. Pietrangeli che alla fine è tutto merito suo, che si giocò a Santiago, e una volta rientrato aveva la coppa in mano e il miglior sorriso per i fotografi. Pietrangeli che poi partecipa alla festa del Circolo Canottieri alla presenza del Divo Giulio e a fine serata la coppa non può rientrare nel caveau della banca. E ora che si fa? “La prendo, se a voi non dispiace” si fa avanti Nicola. Tornato a casa spegne le luci e si infila sotto il lenzuolo, accanto a lui la coppa è fredda e la abbraccia. «A letto, a dire la verità, eravamo tre: io, la Davis e il gatto» racconterà poi.

Uno così come può apparire modesto e riservato nelle interviste? I giornalisti lo chiamano per sentirgli fare l’elogio del nuovo, ma Pietrangeli non può limitarsi a questo, chiunque lo conosce lo sa. Quindi i giornalisti lo chiamano per altro, lo sappiamo, e cioè per la polemica, e quindi per le interazioni, l’engagement, chiamatelo come volete.

Da un paio d’anni, per i media nostrani, Pietrangeli, una delle più grandi icone sportive italiane, è diventato una macchina che produce interazioni per i social. C’entra un po’ il suo narcisismo, ma qui lui è soprattutto la vittima di un meccanismo più grande, che tocca tante pieghe problematiche della comunicazione in Italia.

14 mesi fa la Gazzetta dello Sport dedicava la sua copertina di Sportweek a Jannik Sinner, criticandolo per non essere andato con la squadra italiana in Coppa Davis. Sinner veniva presentato come un caso nazionale. Da quel momento sono successe due cose: Sinner ha iniziato a vincere tutte le partite e l’opinione pubblica intorno a lui è diventata più isterica. Ne ho scritto già in estate. L’amore nei suoi confronti è cresciuto insieme ai trofei, la sensazione di trovarsi di fronte a un campione sportivo che non pensavamo forse che potesse mai nascere in Italia, ed era vivo il ricordo e lo scandalo della prima pagina della Gazzetta.

E così l’opinione pubblica si è spaccata tra una santificazione a priori e altri che cercano di montare delle polemiche. Sulla sua residenza fiscale, sul malanno che gli ha fatto saltare i Giochi Olimpici, sulla squalifica per doping. Non è chiaro se queste polemiche siano autentiche o alimentate velenosamente dai media e dalla pagine social per creare interazioni. È la stessa logica della prima pagina della Gazzetta: non importa quanta pubblicità negativa può attrarre, non esiste danno d’immagine che non valga la pena avere in cambio delle interazioni.

È in questo tritacarne che è finito Nicola Pietrangeli, che viene contattato con puntualità sinistra e logica estrattiva. Le dichiarazioni di Pietrangeli possono essere divise fra due livelli. Ci sono i discorsi generali di Pietrangeli, e poi ci sono i titoli che vengono tratti da queste dichiarazioni. Tra un livello e l’altro il rapporto è ambiguo.

A volte Pietrangeli ha menato duro su Sinner, è inutile negarlo. Quando non andò in Coppa Davis e Gazzetta fece la prima pagina, lui parlò di “squalificare chi rifiuta la convocazione”. Da quel momento si è costruito una reputazione che i giornali hanno voluto mantenere, a volte anche forzando le cose.

Prendiamo per esempio la sua più famosa rosicata, quella del “Non gli basteranno due vite”. Nell’intervista Pietrangeli comincia riempendo Sinner di elogi. Non ha punti deboli, dice; sono gli altri che ora che devono batterlo, e magari sarà più difficile, dice. I record suoi? Li batterà quasi tutti, tranne uno. Quello delle 164 partite in Coppa Davis: un primato mondiale. Per battere quello gli ci vogliono due vite, dice. «Perché hanno cambiato i regolamenti». È vero: prima la Davis era la principale occupazione dei giocatori di tennis, mentre oggi si giocano pochissime partite. A Sinner non ne basterebbero 6 di vite, probabilmente, se consideriamo pure i vari forfait.

E come viene riportata la notizia? Facciamo un po’ di esempi: «Pietrangeli, frecciatina a Sinner: "Gli ci vogliono due vite!”» (Rai); «Sinner bravo ragazzo, ma per superare anche me non gli basteranno due vite» (Repubblica); «Sinner non mi può superare in Coppa Davis» (Tuttosport); «Pietrangeli mette in chiaro le cose su Sinner: “non gli basteranno due vite”» (Fanpage). La sua situazione a quel punto diventa critica; Pietrangeli è la persona più odiata dai sinneristi.

A un certo punto Pietrangeli giustamente sbotta: «Secondo voi non ho altro cui pensare che parlare male di Sinner? Ma cosa me ne frega. Sarei un cretino a parlare male di Sinner (…). Molti giornalisti stravolgono le mie parole, ma non sanno che forma abbia una racchetta». Più chiaro di così. Ma anche una dichiarazione del genere, con selettività crudele, si può rigirare. «Jannik Sinner. Clamoroso sfogo di Pietrangeli “ma cosa me ne frega”» (Libero).

Guardate questo servizio del Tg1. Pietrangeli riempie Sinner di elogi totali e sperticati, non un’ombra. Si definisce un suo ammiratore. Eppure la storia è raccontata in un altro modo, come se Pietrangeli ora si rimangiasse le critiche precedenti, e cioè “quando aveva detto che a Sinner non sarebbero bastate due vite per superare lui e quelli della sua generazione”. Cioè si parte da una dichiarazione distorta per creare una storia di pentimento, di redenzione.

In un collegamento a Un giorno da pecora lui è un po’ ambiguo. Dice di aver vinto 48 tornei e Sinner 4 o 5. Dice vedremo, anche se ammette che molti tornei da lui vinti non erano così importanti. C’è un po’ della sua mitomania, è chiaro, ma la domanda era strampalata - “chi è più forte tra lei, Panatta e Sinner?” - e posta solo per mettere alla prova il suo ego. «Non si può rispondere» esordisce peraltro Pietrangeli, che poi si presta al gioco. Del resto in tutto l’intervento aveva fatto un elogio spassionato di Sinner. Però la sponda è troppo invitante: "Complimenti a Sinner, ma lui ha vinto quattro o cinque tornei e io 48…” viene riportata dappertutto. La trasmissione lo ha chiamato solo per sottoporgli quella domanda strampalata

“Dovrà stare attento agli infortuni” dice Pietrangeli. Una considerazione normale, visto che Sinner sembra molto paranoico su questo aspetto, che del resto è cruciale nella carriera di uno sportivo. E allora i giornali gli si dà del gufo, del “castoro”. Ormai il suo destino è segnato: ogni nuova vittoria di Sinner i suoi tifosi la vorrebbero sbattere sulla faccia di Pietrangeli.

Pochi giorni fa Pietrangeli dice: «Per carità, è bellissima questa esplosione di popolarità del tennis, eh? Sia chiaro: altrimenti poi dicono che sono un rosicone, un invidioso. Ma vi pare? È bellissimo ed è merito di Sinner. In gran parte almeno, via. Anche se ogni tanto io e Panatta scherzando ci diciamo: oh, ha anche un po' rotto le balle…». Una battuta bonaria, e poi ci ha costruito un discorso più generale. «Non sono geloso di Sinner, tutt’altro. Mi fa solo arrabbiare la mancanza di riconoscenza. Si parla come se il tennis lo avessero inventato oggi. Qualcuno ha giocato, e bene, e ha vinto, e tanto, e ha posto le basi perché oggi questo sport muova certe cifre».

Un discorso che può passare per rosicone, ma che in fondo non ha niente di sbagliato. Dico davvero. Il tutto però viene riportato come: “Nicola Pietrangeli, stoccata a Sinner”. È chiaro che in nessun passaggio del discorso Pietrangeli ha fatto riferimento negativo a Sinner. Passa di nuovo per un rosicone. Le pagine social buttano fuori il titolo, oppure il virgolettato incastrato in una card Instagram col conto sparato, e gli utenti non vanno oltre a quello. La responsabilità, però, è sempre di chi fa il post, non di chi lo legge.

Pietrangeli fa grandi discorsi, e in mezzo ci infila di tutto: racconti, aneddoti, battute leggere, critiche violentissime e grandi elogi. Per i social è come andare a pesca con le bombe a mano: un titolo urlato si può sempre ricavare, anche se non era intenzione di Pietrangeli sparlare. A lui piace chiacchierare, e magari parlare bene di sé stesso, sedurre come ha sempre fatto nella vita. Non gli interessa più di tanto di una parola fuori posto, non può rendersi conto del meccanismo tossico che scatta.

All’inizio di questa storia devo dire che anch’io ero curioso delle dichiarazioni invidiose di Pietrangeli; man mano però questa dinamica mi ha messo in crescente disagio ed è per questo che ne sto scrivendo.

Sono passati tanti anni e diverse ere tennistiche, ma non dovremmo dimenticarci l’importanza che Pietrangeli ha rivestito nella storia dello sport italiano: due volte vincitore del Roland Garros, quattro volte finalista; vincitore del torneo di Roma, di Montecarlo, primatista di presenze di Coppa Davis, doppista formidabile, giocatore dall’eleganza insuperabile. E dopo: capitano della prima Coppa Davis italiana. Unico giocatore italiano a essere inserito nella International Tennis Hall of Fame.

Pietrangeli è un’icona e merita un rispetto diverso dalla sufficienza divertita, dal sarcasmo con cui i giornali, le radio e le televisioni lo contattano, solleticando il suo narcisismo, con domande tendenziose che lui è troppo poco furbo per aggirare. Un rispetto diverso dal cinismo con cui le pagine social riportano maliziosamente le sue parole; dall’indignazione superficiale con cui poi si commentano le sue dichiarazioni mal riportate.

A 91 anni, dopo una carriera leggendaria, forse Nicola Pietrangeli andrebbe lasciato in pace.

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