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Incomprensibile Anelka
01 set 2020
Nessuno lo ha mai davvero capito.
(articolo)
7 min
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Che giocatore era Anelka? Impossibile rispondere in un solo modo. Di cosa dovremmo parlare, dell’adolescente dinoccolato con le spalle larghe che esordisce con la maglia del PSG e attira le attenzioni di mezza Europa? Del ventenne freddo sotto porta che esplode – definitivamente, sembrerebbe, ma non c’è niente di definitivo nel calcio – all’Arsenal; oppure di quello rasato, il coatto ombroso che non voleva allenarsi con il Real Madrid e che un anno dopo torna al PSG con un maglione di lana smanicato? Per “capire” Anelka dovremmo ricordare quello trentenne capocannoniere della Premier League, con la maglia blu del Chelsea, o quello che, con la maglia sempre blu ma della Francia, scatena una sommossa durante il Mondiale sudafricano litigando per l’ennesima volta in carriera con il proprio allenatore?

Nicolas Anelka ha cambiato 14 volte squadra in 20 anni. Ha giocato in Francia, Inghilterra, Spagna, Turchia, Cina, Italia, India. È partito dal cemento di Trappes, alla periferia dell’oro di Parigi, e tra tutti i posti che ha visitato si è scelto come casa il vetro dei grattacieli di Dubai e la sabbia del Deserto Arabico. Ha contribuito a un documentario sulla sua carriera intitolato Anelka Misunderstood, l’incompreso, ma lui stesso non sembra avere le idee chiare su quale tipo di lezione vada tratta alla fine. Non sembra rimpiangere nessuna scelta sbagliata, in fondo aveva le sue ragioni. «Non è stato il migliore dei percorsi, e non lo consiglio a nessuno. Ma è stato il mio percorso», dice alla fine del documentario, ma non suona come una vera e propria consolazione. Più che incompreso, quindi, incomprensibile.

C’è un momento però, in quei venti anni, di liberazione. In cui sembra quasi che sia possibile capirlo. Un momento in cui Anelka, a trent’anni compiuti, sembra assolto dalle sue pene, tranquillo come quando di anni ne aveva diciannove e niente da perdere a parte una mousse di capelli spessa qualche centimetro in testa. Un momento in cui – sto cercando un’espressione che intenda l’esatto contrario di tutti i nodi vengono al pettine: nel senso che il vento contrario ad Anelka che non gli ha permesso di avere una carriera all’altezza delle aspettative, che lo tormentava e lo sabotava, in quel momento aveva smesso di soffiare.

Lo so che è un cliché, ma nel caso di Anelka è vero come per pochi altri. Thierry Henry, all’inizio di Misunderstood, lo definisce «uno dei più grandi attaccanti della storia del calcio». Quasi nessuno, dopo Anelka, è riuscito a portare così avanti la narrativa del talento autolesionista, addirittura dopo la fine della stessa. Nessuno ha deluso così tante volte e al tempo stesso ha mantenuto intatta la propria capacità di far sperare, l’illusione che, sotto tutti quegli strati di errori, litigi, capricci, ci fosse un giocatore nuovo, ancora da scoprire. Un attaccante agile e potente, del tutto imprevedibile ma sempre calmo e composto. Un serpente che ti entra in casa in una sera d’estate schivando i colpi di scopa.

Il momento di cui parlo è arrivato all’ultima giornata della Premier League 2008/09, quella in cui con il Chelsea è diventato capocannoniere del campionato con 19 gol (25 stagionali). Dopo essere stato un anno e mezzo in Turchia, al Fenerbahce; dopo due stagioni al Bolton; dopo aver sbagliato l’ultimo rigore in finale di Champions League contro il Manchester United alla fine della stagione prima.

Contro il Sunderland, Anelka doveva segnare per superare Cristiano Ronaldo nella classifica marcatori, entrambi fermi a 18 ma con Ronaldo che non avrebbe giocato in quell’ultima partita. E il gol che segna, al quarantaseiesimo minuto di gioco, racchiude così bene il meglio delle sue qualità che sembra uscito direttamente dalla sua fantasia.

Qualche tempo prima, Anelka aveva risposto a Scolari, che voleva trovare un modo per farlo giocare insieme a Drogba, «Io gioco solo in un ruolo». Qualche tempo dopo, a Domenech che gli chiederà di non abbassarsi troppo a prendere palla, risponderà: «Falla tu la tua squadra di merda». Questo per dire della sua rigidità non solo umana ma anche tattica, il suo rifiuto per qualsiasi compromesso. Quel giorno, il 24 maggio 2009, Anelka riceve palla dentro la propria metà campo (una palla spazzata da Ballack) con l’uomo addosso, e dopo averla controllata e protetta divinamente, si ritrova davanti il centrocampista centrale avversario e l’intera difesa. Troppo basso, troppo lontano, con troppi avversari davanti per fare tutto da solo. Proprio dove a lui piaceva ricevere palla e i suoi allenatori non volevano farlo giocare.

Anche se era letale nei movimenti alle spalle della difesa, Anelka amava venire incontro e puntare l’intera squadra avversaria. Oppure, eventualmente, mettere in porta il compagno d’attacco. Contro il Sunderland è fantastico come spezza in due il duello con il centrocampista a protezione della difesa avversaria, accelerando verso sinistra e sterzando improvvisamente verso destra, quasi all’indietro, per rallentare e puntarlo nuovamente, stavolta per saltarlo a destra. Forse aveva già in mente la conclusione da fuori area, un tiro incredibile di collo esterno, dritto sotto il sette più lontano, troppo forte e improvviso perché il portiere ci potesse arrivare.

https://twitter.com/90sfootball/status/1240020080974389248

Un altro bel momento è arrivato quando ha segnato due gol a Wembley indossando dei guanti da portiere (immagino per il freddo).

In un’intervista a Le Parisien, dopo l’uscita del documentario, ha detto che «il vero Anelka è quello che ride in campo, l’altro non esiste». Questo perché in Inghilterra lo avevano soprannominato “Le Sulk”, cioè “il broncio” - con l’articolo in francese però, come fosse stato un nobile. Gli episodi in cui è sembrato solo un rompicoglioni arrogante sono molti (compreso il rifiuto per una convocazione in Nazionale; o l'esultanza con un gesto, la quenelle, un saluto nazista invertito, dei cui significati antisemiti a quanto pare lui era all'oscuro) ma c’è un altro modo per vedere le cose. Volendo si può vedere Anelka come un borgataro timido e diffidente, spesso a ragione. Forse, un insicuro. È famosa la storia di Wenger che, quando Anelka si lamentava che Overmars non gli passasse abbastanza la palla e che con Bergkamp parlasse in olandese in campo, ha convocato tutti e due nel suo ufficio. Overmars ha detto che non sapeva di cosa stesse parlando, ma Wenger ha tradotto ad Anelka che si sarebbe sforzato di passargliela più spesso.

Al Real Madrid, però, è stato accolto sul serio male dallo spogliatoio e dalla stampa, spinto ai margini e poi rigettato. Al Liverpool, dopo che aveva fatto bene per sei mesi e il pubblico stava cominciando ad amarlo, senza che avesse creato nessun tipo di problema, Gerard Houllier non lo ha confermato perché non si fidava di chi gli stava intorno. Nel 1998, quando è stato tagliato dai convocati per il Mondiale che la Francia avrebbe vinto, Aimé Jacquet, l’allenatore, non gli ha dato una vera ragione, scusandosi con tutti gli altri e liquidando lui dicendogli semplicemente: «Nel tuo caso è normale». Nel documentario Anelka torna su quel momento dicendo che se davanti a Jacquet ci fosse stato un ragazzo più vulnerabile magari lo avrebbe distrutto. Ma la sensazione è che anche su di lui non abbia avuto un buon effetto.

«Sorrido quando c’è una ragione per sorridere», diceva lui, ma ha anche raccontato di aver avuto problemi a dormire: «Mi sembrava di combattere con i fantasmi, non capivo se erano sogni o incubi». Vicente del Bosque ha detto che gli sembrava un ragazzo «confuso, che viveva in un mondo suo». «Misunderstood» non aiuta a chiarirsi le idee, ma Anelka acquista maggiore profondità, ne viene fuori come un personaggio più complesso, persino sensibile.

Anelka è stato un alieno nel calcio di venti anni fa, troppo avanti tecnicamente, con un’idea di sé (mi viene da dire di individuo) troppo alta, del tutto senza filtri, privo di qualsiasi capacità mediatica. Con gli occhi lunghi e diagonali e la faccia lunga da re egizio. Ed è un momento interessante in cui far uscire un documentario del genere, se non altro perché il mondo di inizio Duemila sembra totalmente diverso a quello di adesso per i calciatori. Non sono solo più preparati ad affrontare una carriera che non duri solo un paio di stagioni, come dice Anelka a un certo punto di Misunderstood, ma sono anche accolti meglio, preparati meglio alla vita che li attende. Sono anche, dall’altra parte, persone ancora meno accessibili di lui, chiuse verso l’esterno per proteggersi, solo in modo meno conflittuale. Sono più sorridenti, magari.

Nessuno di loro, però, potrà produrre l’equivalente del gol di Anelka al Sunderland, un momento di pace in una vita di guerre. Un gol che restituisce la complessità di un essere umano vero, intero, in lotta contro se stesso e contro l’umanità intera (come dargli torto), capace di creare un pezzo di assoluta armonia in una carriera votata ai disastri, allo spreco, al rifiuto.

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