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Nessuno poteva fermare Niki Lauda
23 mag 2019
La carriera di Niki Lauda, che non si è fermata quel giorno al Nürburgring.
(articolo)
16 min
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"La macchina è una merda"

(Niki Lauda, Fiorano, 1974, primo test con la Ferrari)

Non è facile intuire quali sfumature portano due persone dai caratteri sostanzialmente simili ad essere percepiti in modo molto diverso. Oggi è impossibile che un pilota di F1 commenti senza giri di parole “La macchina è una merda”, forse solo Fernando Alonso è stato tanto schietto, e per questo motivo è ormai finito nella black list dei tifosi Ferrari dopo aver perseverato a sparare a zero sulla Rossa. Niki Lauda, però, pur essendo stato sempre duro, è rimasto un idolo dei tifosi Ferrari. Forse perché in fondo contano i trofei: Lauda alla fine due titoli mondiali a Maranello li ha portati, e in fondo il tifoso del Cavallino è stato sempre portato a perdonare chi lo ha fatto gioire.

Non bastano però i trofei a raccontare l’amore che ha ispirato Lauda

Nella sua legacy c'entra anche una fortissima dose di umanità che ha portato il campione austriaco ad essere amato e ammirato ben più di quanto il suo palmares possa raccontare. La narrativa ricorrente su Lauda è quella di una persona coerente fino a diventare ruvida. In quella frase, pronunciata in faccia a Enzo Ferrari quando non aveva vinto ancora sostanzialmente nulla in Formula 1, c'è gran parte di questa sua spontanea rigidità. «Io avevo capito subito che tutti i tecnici che stavano intorno non si azzardavano a dire niente, ma nonostante ciò criticai la macchina da subito. E questo ci permise poi di migliorarla. Se fossi stato zitto magari non sarebbe andata così. Invece decisi di dire tutto subito a Enzo Ferrari, e da quel momento mi portò rispetto», dirà Lauda ad Autosprint nel 2013.

Allsport UK /Allsport

Ma nella narrazione di Lauda e dell’amore per lui è impossibile non parlare della tragedia sfiorata al Nürburgring, nel 1976, che ha portato sulla sua pelle come testimonianza perpetua del suo sacrificio. La vicinanza alla morte è una componente sempre presente nell’immaginario automobilistico, anche se negli ultimi anni sembra essersi allontanata. E la vicinanza alla morte è ciò che più facilmente lascia empatizzare i tifosi verso un pilota.

In questo pezzo il grande giornalista tecnico Giorgio Piola ricorda come la tragedia abbia in un certo senso aumentato l’umanità di Lauda: «Considero Lauda un uomo nato due volte. La prima quando è venuto al mondo come noi tutti: quello era un pilota freddo, un po' troppo robot, forse ancora più di Schumacher», scrive Piola. «Dopo l'incidente invece, per un po' di tempo, ero rimasto al primo Niki e mi rivolgevo a lui a monosillabi come era solito rispondere lui prima. Quando lo incontravo spesso non lo salutavo perché lo vedevo immerso nei suoi pensieri. Un giorno mi venne incontro Sante Ghedini, ex ferrarista che gli faceva da addetto stampa, che mi disse: "Niki quando mi parla di te dice che sei bravo ma stronzo perché non saluti mai". Non avevo inteso quanto fosse cambiato il secondo Lauda, che è diventato un gigante dal punto di vista umano».

Niki Lauda era riuscito a sfondare quelle barriere che solitamente separano il pubblico dagli sportivi più freddi e razionali. Soprattutto ci è riuscito forse nel periodo di massimo splendore della Formula 1, nella sua epoca eroica a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, quando il mezzo televisivo aveva iniziato a diffondere le gesta di piloti considerati alla stregua degli antichi eroi di guerra. È forse proprio in quei decenni che ha avuto maggiore risalto la figura stereotipata dell'animale da corsa a cui, almeno fino al rogo del Nüburgring, Lauda sembrava non appartenere in virtù della sua freddezza.

In fondo la sua parabola e il sincero cordoglio comune che si è stretto attorno a lui dopo la sua morte ci ricordano che, alla fine, i personaggi più amati nel profondo non sono necessariamente i più estroversi e più "televisivi", ma sempre quelli che mostrano senza paura i propri lati più spontanei.

La fuga dalla famiglia

Alle spalle della cavalcata di Niki Lauda in Formula 1 c'è un'altra storia di umanità profonda, perfetto riflesso della sua coerenza e della sua perseveranza. Lauda nacque in una famiglia dell'alta società austriaca che non accettava le sue aspirazioni: «A quei tempi», disse in un'intervista di qualche tempo fa, «la filosofia era che i bambini, dal momento in cui ne sarebbero stati capaci, avrebbero dovuto seguire gli interessi della famiglia». Lauda aveva sempre nutrito passione per le corse automobilistiche, ottenendo il dissenso soprattutto di suo nonno, che definì «la figura dominante della famiglia».

Forse la storia della sua adolescenza è la meno conosciuta al grande pubblico, eppure rappresenta il messaggio più profondo che una persona dal temperamento così ruvido e onesto con se stesso possa trasmettere alle generazioni future. In essa non c'è la componente del riscatto sociale: Lauda è fuggito da una famiglia benestante per sfidare le morte, per soddisfare fino in fondo una passione che stava per costargli la vita, ma al tempo stesso anche la sua ambizione a diventare il migliore al mondo in un settore lavorativo diverso da quello che i suoi familiari avevano pensato per lui.

«Il comportamento di mio nonno, che ostacolava la mia volontà di correre, mi diede una spinta extra per combatterlo rivendicando le mie idee, nonostante fosse un uomo forte», spiegò Lauda. «Volevo correre in Formula Vee e una banca mi ha fatto da sponsor, dandomi molti soldi. La banca fu soddisfatta dell'esposizione che ebbe sui giornali. Quando volevo entrare nel giro della Formula 1, avevo bisogno di circa 180 mila dollari per pagarmi un posto in March e mi dissero che me li avrebbero dati, per avere ancora più visibilità. Tre giorni più tardi, tuttavia, la banca disse che mio nonno aveva bloccato l'operazione. Andai da lui e gli chiesi perché lo avesse fatto, mi rispose: "Non voglio che corri. Voglio leggere il nome Lauda nella sezione economica dei giornali e non in quella sportiva". Questo fu l'episodio che sancì la fine del rapporto con mio nonno. Andai da un'altra banca dove ottenni un prestito da restituire in cinque anni, senza interessi ma con un'assicurazione sulla vita in caso di incidente».

Ma l'essenza più profonda del carattere di Lauda, oltre alla durezza della sua pervicacia, sta nel modo in cui in seguito ha descritto proprio suo nonno: «Era un uomo vecchio stile, molto intelligente, ma non entrava proprio dentro il concetto delle corse automobilistiche», disse Lauda sempre nella stessa intervista. «Alla fine io sono andato per la mia strada e lui per la sua, e nessuno voleva fare un passo indietro. Capita. Purtroppo è morto prima che io iniziassi la mia ascesa al successo».

Nonostante la sua famiglia abbia fatto in modo da creargli più ostacoli possibili nella sua carriera automobilistica, Lauda è riuscito comunque a trovare il modo per comprendere e quasi giustificare il comportamento di chi stava per precludere la realizzazione del suo sogno. In un certo senso, Lauda è riuscito a risolvere positivamente un paradosso: la ruvidezza e l'individualismo che ha dovuto affrontare fin dall'adolescenza, gli ha permesso di rapportarsi meglio con l'egoismo e i punti di vista degli altri, soprattutto in un mondo da sempre spietato come quello della Formula 1, frequentato a lungo anche dopo il suo abbandono dalle corse. La sua rigidità, per paradosso, lo ha fatto diventare una persona estremamente umana e sensibile, comprensiva. La sua coerenza e la sua inflessibilità lo hanno allontanato irrimediabilmente dalla diplomazia, ma non gli hanno impedito di riuscire comunque a comunicare e a far apprezzare la sua forte spontaneità.

La fermezza

Qualità che gli hanno permesso di apprezzare fin da subito Enzo Ferrari, nel quale trovò una vera e propria figura di ispirazione: «Non ho mai conosciuto una persona altrettanto carismatica e interessante come era Enzo Ferrari», disse Lauda ad Autosprint nel 2013. «Non era facile trattare con lui perché era una persona estremamente complicata. Ma questo è il rovescio della medaglia. Gli italiani sono fatti così: hanno un grandissimo cuore che a volte si riflette in una sorta di egoismo senza fine. Ma proprio da questo suo modo di essere ho imparato tante cose che mi sono servite per la vita».

Lauda sottolineò che «l'insegnamento che ho tratto da lui si può riassumere in questa frase: arrivare il più presto possibile all'obiettivo che ti sei prefissato. E Ferrari quando voleva essere duro, arrivare dritto al punto, sapeva farlo. Ma al tempo stesso, quando voleva, poteva trasformarsi in un mama-mensch, in una persona piena di sensibilità e attenzione». Lauda concluse dicendo che «la sua particolarità era proprio questa: essere riuscito a creare questa combinazione che da una parte teneva il carattere e dall'altra anche i sentimenti».

Forse il cambiamento di Lauda, descritto da Giorgio Piola, non deriva unicamente da quell'inevitabile momento spartiacque rappresentato dal rogo del Nürburgring. Il carattere di Lauda potrebbe essere stato influenzato dai suoi quattro intensi anni di lavoro alla Ferrari, perfino completato dalla vicinanza con la figura carismatica e condizionante di Enzo Ferrari. Sotto certi aspetti la maturazione di Lauda verso una maggiore umanità ricalca la contaminazione tra due stereotipi tra loro complementari: la sua originaria fermezza austriaca mescolata al maggiore calore e alla maggiore ambivalenza del sangue italiano, proprio come descritto da Lauda stesso.

I contrasti tra i due furono inevitabili a causa dell'inflessibilità di entrambi, ovviamente. Già prima della separazione, come riportato in questo bel pezzo-ricordo di Roberto Boccafogli, vi fu una feroce lite per il rinnovo del contratto, con Ferrari in escandescenze per le esose richieste del suo pilota austriaco. «È il mio valore di mercato», disse in modo inflessibile Lauda, che ricevette una risposta anche piuttosto offensiva: «Allora va bene! Se questo è l'unico motivo che ti lega alla Ferrari, avrai quanto chiedi. Ma sei un ebreo!».

Ferrari sostanzialmente non tollerava quando un suo pilota si sentiva più importante della macchina e soprattutto del marchio. La sua politica era totalmente differente da quella di adesso - dove lo sponsor Philip Morris impone alla Ferrari di avere almeno un Campione del Mondo in squadra - e più orientata a scoprire e lanciare giovani emergenti, abituati a pretese decisamente inferiori dal punto di vista economico e soprattutto alla sudditanza nei suoi confronti. Il divorzio si consumò durante la stagione 1977, nella quale Lauda vinse il suo secondo titolo con la Ferrari al completo rientro dopo il terribile incidente dell'anno prima. «Ferrari disse che ero andato via per un mediatore di salumi», raccontò più avanti Lauda sempre ad Autosprint, riferendosi all'intolleranza di Ferrari di fronte a un'offerta superiore della Brabham-Alfa Romeo, finanziata dallo sponsor Parmalat e da Calisto Tanzi.

Nel suo addio alla Brabham, due anni più tardi, Lauda tirò invece fuori la parte più negativa del suo individualismo. Abbandonò improvvisamente la squadra dopo pochi giri nelle prove libere del Gran Premio del Canada, lasciando il capo del team Bernie Ecclestone in balia di acrobazie da compiere per trovare un sostituto, in mancanza di preavviso.

Come nell'addio alla Ferrari, che si sarebbe laureata Campione del Mondo con Jody Scheckter nel 1979, anche in quello alla Brabham - titolata successivamente con Nelson Piquet nel 1981 e nel 1983 - Lauda ha mostrato molta insofferenza e poca lungimiranza, poca disponibilità a trattare diplomaticamente con il team per superare il momento difficile in attesa di tempi migliori. Ma a differenza di un pilota moderno diventato proverbiale in questo tipo di situazioni - Fernando Alonso - Lauda non è mai sembrato turbato dalle occasioni perse, consapevole di aver lasciato un segno indelebile che va ben oltre i suoi numeri e, soprattutto, di non aver tradito se stesso e il suo temperamento nelle scelte.

Il 1976

L'immagine o il periodo circoscritto che definisce in modo più marcato la sua legacy è però senza dubbio la stagione 1976, il momento in cui si concentra maggiormente il celebre film Rush. La rivalità con il guascone dongiovanni James Hunt, suo alter ego profondamente rispettato, l'incidente e il rogo del Nürburgring, il suo ritorno a Monza dopo soli 42 giorni - in un lago di sangue dentro al casco - e il grande rifiuto del Fuji sono gli episodi più celebri, trattati in modo anche piuttosto romanzato dalla famosa pellicola.

In una lunga intervista ad Autosprint nel 2017 Daniele Audetto, direttore sportivo della Ferrari in quegli anni, si è lasciato andare alla rivelazione di numerosi retroscena estremamente significativi su quella stagione. Partendo dal dramma del Nürburgring, ha spiegato come sostanzialmente si sia trattato di un errore di guida di Lauda: «La pista era umida ma andava asciugandosi, partimmo tutti con le gomme da bagnato ad eccezione di Jochen Mass, che prese facilmente il comando della corsa. Ben presto tutti dovevano fermarsi per montare le gomme da asciutto e l'operazione del cambio di Niki procedette a rilento. Lui era furibondo e ripartì rabbioso, con i primi già lontani. Appena prima della curva di Bergwerk», prosegue Audetto, «Niki ha tagliato la piega a sinistra. Era un tratto bagnato, il cordolo era alto e le gomme erano fredde, così affrontando la scordolata la vettura perse aderenza».

Un filmato che analizza in modo meticoloso la possibile dinamica dell'incidente e conferma la tesi di Audetto, soprattutto dal minuto 4:20 in poi.

Un altro retroscena, che definisce ulteriormente il cerchio sul carattere ferreo e intransigente di Lauda, riguarda la faccenda del suo sostituto: secondo Audetto la situazione fu gestita in modo rigido da Lauda e gli si ritorse contro: «Eravamo pronti a pagare la penale alla March per liberare Ronnie Peterson, ma appena Niki venne a sapere che stavamo preparando la vettura per lui divenne matto. Niki non lo tollerava proprio e fece le telefonate giuste, fino alla Fiat e a Gianni Agnelli, venendo ascoltato e rallentando le operazioni di acquisizione dello svedese».

Audetto sostiene che uno dei motivi per cui Lauda perse il Mondiale quell'anno è infatti che «sbagliammo a saltare il Gran Premio di Austria per protestare contro la Federazione che aveva tolto la squalifica a Hunt del Gran Premio di Spagna, e sbagliammo anche ad andare in Olanda con la sola vettura di Regazzoni. Difesi la scelta immediata di Peterson al posto di Lauda ma Ferrari si arrabbiò molto e rimase sulla sua linea. Due anni dopo venni a sapere perché fece così: anche lui voleva Peterson ma ebbe ordini superiori da Torino su pressione di Lauda. Se ci fossimo presentati con due macchine sia in Austria che in Olanda forse Niki non avrebbe perso il Mondiale per un punto, perché avremmo tolto qualche posizione a Hunt».

E per concludere c'è l'altro episodio celebre, la rinuncia di Lauda a correre sotto il diluvio del Fuji in Giappone, nell'ultimo Gran Premio della stagione. Il film Rush, come del resto tutta la letteratura ufficiale passata alla storia, parlarono di gesto coraggioso e umano di fronte ai rischi e alla tragedia già sfiorata solo qualche mese prima. La Ferrari avrebbe anche chiesto a Lauda di trovare un alibi meccanico, ottenendo un rifiuto del pilota austriaco che voleva far sapere pubblicamente la sua volontà di abbandonare volutamente dopo due giri. Un bel dialogo finale in Rush prova a dare un senso ancora più profondo alla questione: Lauda dice a Hunt che «i rischi erano totalmente inaccettabili. Tu eri pronto a morire e questo non è vincere, ma perdere». L'inglese invece risponde: «Sì è vero, lo ammetto, ero pronto a morire pur di batterti. È questo l'effetto che hai su di me. Sei stato tu a spingermi fin lì ed è stato stupendo».

La realtà come al solito è decisamente più prosaica. Daniele Audetto, sempre nella stessa intervista, racconta che «in realtà c'era un accordo preciso nel pre-gara, anche se non unanime, promosso da me e garantito da Ecclestone. Si parte per fare contenta la tv e dopo pochi giri tutti si fermano, Hunt e Lauda compresi. Non ci stavano Regazzoni, che ormai andava per conto suo, e Peterson, che voleva far pagare a Niki lo sgarro precedente». Anche Mauro Forghieri, sempre ad Autosprint, sostenne la teoria dell'inganno da parte dei piloti delle squadre inglesi che non avrebbero mantenuto la promessa di smettere di correre, visto che all'epoca la guerra politica nella Formula 1 era proprio tra Enzo Ferrari e i team inglesi.

«La colpa fu mia - è sempre Audetto a parlare - perché quando lui si presentò al box avrei dovuto ordinargli di tornare in pista e fermarsi solo dopo che ai box sarebbe rientrato Hunt. Lui non avrebbe potuto dirmi di no davanti al mondo perché ero il suo superiore. Hunt invece era pressato dal suo sponsor Marlboro e soprattutto dal suo boss Teddy Mayer, che gli avrebbe spaccato la testa se avesse abbandonato prima di Lauda. Ma non ebbi cuore di infierire su Niki», conclude malinconicamente, «appena lo vidi fermo mi rivenne in mente il suo volto distrutto nell'infermeria del Nürburgring. Se lo avessi rispedito in pista, dopo cinque giri avrebbe trovato condizioni ideali perché stava smettendo di piovere. Ma ho fatto una scelta umana e non spietata. Non me ne sono mai pentito, ma a ripensarci adesso dico che è stata una grande lezione di vita: se al posto mio ci fosse stato un uomo più freddo e spietato, Lauda avrebbe vinto il suo secondo Mondiale consecutivo».

Il finale di carriera

Niki Lauda vinse il titolo l'anno successivo e si ripeté nel 1984, dopo il suo ritorno in Formula 1 avvenuto nel 1982 dopo due anni di inattività. Il destino e la pioggia gli restituirono quello che gli avevano tolto nel 1976: nel Gran Premio di Montecarlo 1984 la corsa fu fermata un po' frettolosamente, si disse per timore che il debuttante Ayrton Senna potesse concludere la sua splendida rimonta infilando anche Alain Prost - mai troppo ostacolato dalla FIA negli anni Ottanta - e vincendo la gara. Ma la bandiera rossa prematura fece dimezzare i punteggi e Prost, ottenendo "mezza" vittoria, mise a referto 4,5 punti contro i 6 che avrebbe portato a casa con un secondo posto in gara piena. Lauda poté così vincere il Mondiale per mezzo punto, distacco più risicato mai registrato nella lotta per un Mondiale.

Anche dopo il suo ritiro Niki Lauda ebbe modo di farsi apprezzare per la sua schietta intransigenza, soprattutto nel suo ultimo periodo alla guida Mercedes. Convinse Lewis Hamilton a lasciare la McLaren e ad arrivare in Mercedes nel 2013, avviando il glorioso ciclo attuale, e lo catechizzò: «Hai un gran piede ma il tuo cervello a volte è piccolo così», gli disse, e non si può dire che Hamilton non sia poi davvero maturato molto nelle ultime stagioni. Disse la sua anche sulle regole interne del team, che imponevano l'armonia di fronte alla stampa, sul feroce duello in casa tra Hamilton e Rosberg: «Questi due piloti sono dei bastardi egocentrici. Questo è ciò che serve per vincere il Campionato, è una regola vecchia come il mondo».

Foto di GERARD FOUET/AFP/Getty Images

Il temperamento di Lauda ha sempre generato un tipo di amore meno incline all'adorazione e più all'ammirazione. Il richiamo ai tempi eroici dell'automobilismo ha alimentato la leggenda attorno alla sua figura, ma in un certo senso Lauda è sempre stato capace di muoversi tra la razionalità del pilota e la coerente umanità di una persona eccezionale.

Nel corso della sua vita, Niki Lauda ha sconfitto tutti i suoi avversari, dalla sua famiglia a tutti i migliori piloti rivali. L'incidente aveva lasciato danni indelebili ai polmoni e ai reni, e nel corso degli anni ha subito trapianti ad entrambi. Ma sopravvivendo per altri 43 anni dopo quel rogo, vincendo altri due titoli mondiali e dedicandosi con successo a molte altre attività, costruendo la sua leggenda ben oltre i suoi trionfi, si può dire che Niki Lauda quel pomeriggio al Nürburgring abbia sconfitto anche la morte.

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