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Il chiacchierone più veloce del mondo
09 ago 2024
09 ago 2024
Con le parole e con la velocità, Noah Lyles riesce sempre a spostare tutto su di sé.
(copertina)
IMAGO / Insidefoto
(copertina) IMAGO / Insidefoto
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Noah Lyles sembra confondere la fine con l’inizio. Entra in pista come se fosse stato sparato da un cannone, senza restare fermo neanche un secondo davanti alla telecamera - non serve, tutti sanno chi è, ormai - corre metà pista gratuitamente, senza motivo, saltando e incitando il pubblico. Quando entra in pista, Noah Lyles sembra aver già corso. Scambia la linea di partenza con quella del traguardo, cento o duecento metri più in là. Quando lo inquadrano di nuovo, nella carrellata che scivola davanti ai blocchi di partenza, si lecca le labbra e si passa la mano in faccia in modo al tempo stesso sensuale e disgustoso. Poi fa quel suo salto verticale, sul posto, come per sgranchirsi le gambe un’ultima volta, ma lo fa altissimo, oltre la testa di quelli che gli stanno affianco. È tutto eccessivo. E, non ci sarebbe bisogno di dirlo, dura molto di più dei dieci-venti secondi della gara in sé.

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Non che sia l’unico. Forse è una cosa che esisteva già prima di Bolt ma che con Bolt si è ampliata diventando una moda, fatto sta che ormai la maggior parte degli atleti ha una propria gestualità: chi mostra il proprio nome, chi muove le mani in un certo modo, chi sorride e lancia sguardi rimorchioni agli spettatori. D’altra parte, non c’è un modo migliore di un altro per avvicinarsi ai blocchi di partenza prima di correre una finale olimpica - un’esperienza riservata a un numero ristrettissimo di esseri umani, in cui chiunque altro, però, non può fare a meno di identificarsi. Come mi comporterei, io, se fossi tra gli otto esseri umani più veloci del pianeta?

Prima di correre la finale dei cento metri - domenica 4 agosto 2024, a Parigi, sulla pista viola dello Stade de France, perfettamente in sincrono con il tramonto rosa-arancione alle spalle dei blocchi di partenza - l’americano Kenny Bednarek, il primo a essere chiamato dallo speaker, è apparso in anticipo davanti allo schermo col suo nome. Richiamato dal personale dell’organizzazione si è fermato sulla soglia come un taccheggiatore, in attesa impaziente del permesso per andare ai blocchi. Anche quattro giorni dopo, prima della finale dei duecento, sempre con la fascetta in testa come Rambo (che è anche il nome che Kenny Bednarek ha dato al suo husky), sembrava avere fretta di arrivare alla sua postazione, neanche fosse potuto partire prima degli altri: nei cento metri sarebbe arrivato settimo; nei duecento, invece, è arrivato secondo.

Si può essere eccezionalmente nervosi, oppure eccezionalmente freddi. Kishane Thompson, uno dei favoriti della vigilia, con il miglior tempo stagionale nei cento (9.77, corso lo scorso 17 luglio nella sua Kingston) è entrato con la faccia seria, minacciosa e un po’ triste, gridando con la testa all’indietro, ma gli è uscito fuori un grido un po’ in falsetto, più da animale ferito che da predatore spaventoso. Fred Kerley invece - uno di quegli strong, silent type che piacevano a Tony Soprano, medaglia d’argento nei cento tre anni fa a Tokyo - si è portato le dita sulla bocca con la stessa aria indifferente di sempre, ritenendo forse tutta quella faccenda vagamente puerile rispetto alle occupazioni pratiche del suo ranch in Texas. Letslie Tebogo, che il giorno dei cento è arrivato dietro a Jacobs, in sesta posizione, diventerà il primo africano nella storia a vincere i duecento, il primo oro in assoluto per il Botswana: è entrato in pista accarezzandosi le braccia come se avesse freddo, come se dentro le sue vene scorresse il ghiaccio. «Non posso essere la faccia dell’atletica perché non sono arrogante o rumoroso come Noah», ha detto Tebogo dopo aver vinto i duecento con un’aria arrabbiata che si spiega col fatto che lo scorso maggio ha perso la madre.

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Domenica scorsa, prima dei cento metri, un tentativo di invasione di pista ha costretto gli atleti a un’attesa supplementare. Dopo lo show introduttivo con la musica di Kavinsky (un DJ francese per cui la musica è connessa alla velocità: il brano con cui è diventato famoso si chiamava Testarossa Autodrive e poi ha fatto la colonna sonora di Drive), gli otto corridori hanno dovuto aspettare in piedi più minuti, ascoltando i Daft Punk (la colonna sonora di Tron Legacy, il tema di Rinzler) mentre intorno a loro tutto tornava la normalità. Marcell Jacobs ha conservato ogni energia possibile restando immobile, con l’apparente pigrizia di chi al mare passa mezz’ora con l’acqua alle caviglie prima di trovare il coraggio di tuffarsi.

Lui è uno di quelli che pensano che bisogna tenersi tutto dentro, per poi tirare tutto fuori quando serve. La sua prestazione - un quinto posto con il suo miglior tempo stagionale - è stata sorprendente in positivo: è stato uno dei tre a correre anche questa finale a tre anni di distanza da quella di Tokyo e con il suo 9.85 di Parigi, tre anni fa a Tokyo avrebbe avuto il bronzo (Akani Simbane, quarto con 9.82, nuovo record sudafricano, avrebbe vinto una medaglia in qualsiasi finale olimpica, o dei campionati del mondo, passata, eccetto a Londra 2012). Prima di correre sembrava aspettare come un condannato a morte senza appetito, invece si stava caricando come una molla.

Forse proprio perché è la competizione più corta di tutte che i momenti che la precedono sono così significativi. Cerchiamo indizi, segni premonitori, nell’atteggiamento degli uni e degli altri, ci illudiamo che cambi davvero qualcosa. In quei lunghi minuti di attesa prima dei cento metri, di cui all’inizio non abbiamo capito la ragione, pensando a un guasto o a un ritardo organizzativo, in cui probabilmente anche gli atleti non sapevano cosa stavano aspettando esattamente, persino Noah Lyles non sapeva bene che fare. Senza niente da fare, con il repertorio di mosse già sfoggiato, si è lasciato risucchiare in quel vuoto, ha perso qualcosa di quel sé che ha costruito con fatica in questi anni, e infatti quando è partito, è stato quello con la reazione allo sparo peggiore. Ci ha messo 0.178 secondi a imprimere sui blocchi i 25kg necessari a far scattare il sensore, quando normalmente il suo tempo di reazione è vicino a 0.13, a 0.14 - non un granché, ma sempre meglio di quello della gara più importante della sua vita. A quaranta metri dall’inizio, a sessanta dalla fine, Noah Lyles era ancora ultimo. Non solo confonde la fine con l’inizio, ma preferisce correre in salita che in discesa.

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Quando gli hanno chiesto, dopo la vittoria dei cento metri, cosa cambiava rispetto a tre anni prima, quando Lyles non si era qualificato per correre i cento e nei duecento era arrivato terzo, lui ha risposto: «La felicità che provo e che mi rende più forte, non depresso…». Poi ha cambiato voce, come se avesse cambiato personaggio, quando gli hanno parlato della rivalità con la Giamaica: «Io sono a disposizione di chiunque voglia prendermi la corona: questo è quello che mi interessa, la competizione, contro competitori d’élite». Noah Lyles ha avuto difficoltà a vivere il periodo pandemico, non lo ha mai nascosto anzi: lui è uno di quelli che trasformano le proprie debolezze nella propria forza. La sua origin story da supereroe Marvel, l’asma che da piccolo gli impediva di correre, sembra finta per quanto è perfetta.

Nella serie Sprint, promossa dal CIO per attirare nuove pubblico sull’atletica, di cui Lyles è protagonista insieme a Sha’Carri Richardson, arriva drippato dalla testa ai piedi prima di ogni meeting, un attore sul red carpet in mezzo ad atleti in tuta, tutt’al più in camicia. Noah Lyles si siede con la schiena appoggiata a un muretto per avere uno sfondo bianco, Maya Bruney, la fotografa che lo segue si complimenta con lui: «Sei stato amazing». Persino Usain Bolt rispetto a lui era un tipo semplice, uno che si sentiva bene vestito col completo - «Penso che mi donino, soprattutto quelli slim» - e che ha usato la fama di uomo più veloce dell’umanità per realizzare il proprio sogno di bambino e giocare a calcio, male, in mezzo a calciatori veri. Bruney ha detto al Telegraph che da quando Lyles ha cominciato a fare questi “walk-ins”, ha più che raddoppiato i propri follower: «Ha elevato il suo personal brand». Ma a che serve un personal brand se poi un corridore non arriva primo?

Molte delle cose che riguardano Noah Lyles sembrano finte. Il finale dei duecento metri, dopo essere arrivato terzo (con un tempo, 19.7, due centesimi più lento del suo migliore stagionale: dal 2018 il suo miglior tempo è anche il tempo migliore in assoluto), in cui boccheggiante riusciva solo a scuotere la testa o ad annuire allo staff medico che - troppo zelante, oppure anche loro con un senso dello spettacolo innato - lo ha legato a una piccola sedie a rotelle arancione e portato fuori dallo stadio come una statua, una reliquia di Noah Lyles. Come mettere insieme questo finale anticlimatico, il possibile malessere dovuto al covid, che gli ha tolto l’accelerazione che di solito aveva dopo sessanta-settanta metri, con quei saltelli all’inizio? Sulla BBC è stato interpretato come un tentativo “isterico” di convincere se stesso: solo due lettere, nella lingua inglese, variano tra la parola historical e, appunto, hysterical.

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Alla fine Noah Lyles ha perso nella distanza in cui è dominatore - ma in cui anche in semifinale era arrivato dietro a Tebogo - e in cui, due anni fa, ai Mondiali di Eugene, ha battuto il record americano di Michael Johnson con un 19.31: il quarto tempo migliore di sempre, dietro a due tempi di Bolt (tra cui il record 19.19) e uno del giamaicano Yohan Blake. In Sprint, Lyles non fa che ripetere che i cento metri sono la sua “amante”, mentre sua “moglie” sono i duecento: una metafora maschilista che la realtà ha ribaltato, a Parigi la moglie lo ha tradito, mentre l’amante gli ha dato una gioia inaspettata: il 9.79 con cui ha vinto è stato il suo tempo personale migliore, ed è appena nei primi 40 migliori tempi di sempre.

È stata la finale dei cento metri più competitiva della storia. Mai sette atleti avevano corso sotto il tempo di 9.9, mai i primi due erano arrivati così vicini. Thompson ha superato la linea per primo, ma col piede, Lyles è arrivato primo con il busto. Cinque millesimi di secondo sono un lasso di tempo venti volte superiore al battito di un paio di ciglia: dov’è il limite? A fine gara hanno chiesto a Thompson se non ritenesse più giusto assegnare l’oro a entrambi: «Questo sport è troppo competitivo per condividere le medaglie». Lyles è stato ottavo fino ai quaranta metri, a cinquanta era settimo, a sessanta era terzo, a novanta era ancora secondo. Il momento immediatamente successivo all’arrivo, Lyles sembrava e pensava di aver perso: difficile capire se stesse seguendo Thompson per congratularsi con lui - «Credo abbia vinto tu big dog», come ha detto dopo - o per seguire le telecamere che seguivano Thompson.

Thompson si è sottratto al contatto tra la loro pelle e infastidito dall’attesa ha gridato allo schermo (neanche alla telecamera): «Oh, come on man». Ancora una volta, quando è uscito il risultato, Lyles è tornato nel personaggio: ha irrigidito i muscoli facciali, messo su lo sguardo da Casanova senza sentimenti e ha detto (lui sì, alla telecamera): «America, te l’avevo detto». Ma Lyles ha detto talmente tante cose all’America e al resto del mondo che è difficile tenere conto di tutto. Aveva anche detto, ad esempio, che nei duecento metri nessuno avrebbe potuto batterlo e che quando sarebbe toccato a lui gli altri «si deprimeranno». Una scelta di parole piuttosto strana, per uno che sa cosa sia davvero la depressione.

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Il rapporto tra parole e fatti è sempre ambiguo e misterioso. Il rischio che le prime non coincidano con i secondi c’è sempre, anche quando si aspetta di vedere cosa succede e si cerca poi di descriverlo nel modo più oggettivo possibile, figuriamoci parlando prima. È un rapporto in cui anche quando c’è l’amore - come nella poesia - non è detto ci sia fedeltà. Viviamo cercando le parole giuste per comunicare fatti importanti e a volte falliamo, diciamo cose imprecise, o false, veniamo corretti da chi ci sta intorno, smentiti, ma d’altra parte i fatti da soli non ci bastano. L’opacità della realtà ci nasconde qualcosa a cui cerchiamo di arrivare con le parole, come pescatori che di notte lanciano l’amo nelle acque scure, sperando di pescare un pesce che non sappiamo neanche se esiste.

Quando Muhammad Ali, nel 1963, aveva predetto di battere l’inglese Henry Cooper in cinque riprese, immortalato in più foto col palmo della mano aperta, non poteva sapere che alla fine della quarta sarebbe stato lui ad andare al tappeto, andando vicino a perdere il suo primo incontro e finendo la ripresa rintronato. Tanto che, si dice, il suo allenatore, Angelo Dundee, abbia simulato un taglio accidentale nei guantoni per lasciargli qualche secondo in più per tornare in sé prima. Poi, nella quinta, Ali ha vinto per KO. Quindi, forse, sapeva quel che stava dicendo dall’inizio, o no? Quando oggi guardiamo i video di quel ragazzo imberbe, buffo e scultoreo, bellissimo, gridare «I am the greatest!», le sue parole hanno un altro senso rispetto a quelle che avevano allora. Certo che era il più grande: oggi lo sappiamo. Ma lui, lui lo sapeva anche allora o stava tirando a indovinare? Che differenza c’è tra una previsione e una preghiera?

Noah Lyles dice di voler trascendere il suo sport da prima ancora di vincere una medaglia olimpica importante come quella dei cento metri - una cosa in cui sono riusciti in pochissimi prima di lui, a cominciare forse proprio da Ali. Adesso quell’oro cambia leggermente il senso delle sue parole. Marcus Thompson II, sul New York Times, ha scritto che “Lyles ha il cuore grande quanto la bocca”. Jonathan Liew, sul Guardian, ha scritto che “forse il miglior complimento che si possa fare a Noah Lyles è che è veramente bravo quanto dice di esserlo”. Vale per tutti, non solo per lui. Parlando di Sha’Carri Richardson, Haniuf Abdurraqib sul New Yorker ha detto che è facile da tifare non tanto per orgoglio patriottico quanto perché “parla ma poi fa anche i fatti”.

Noah Lyles riesce a spostare tutto su di lui. Anche nella notte di Tebogo - che è stata anche la notte del nuovo record di Sydney McLaughin-Levrone nei 400 ostacoli (una donna che in ogni finale che ha fatto dal 2021 a oggi ha stabilito un nuovo record); la notte di LeBron e Curry («World champions of what?»); la notte del pakistano Arshad Nadeem (che ha tirato il giavellotto a 92,97 metri di distanza, record olimpico) - la sua uscita di scena è stata la notizia più commentata della serata. In un post di saluti di poche ora fa, Noah Lyles ha ringraziato quelli che tifavano per lui ma anche quelli che tifavano contro di lui: “In ogni caso dovete ammettere di aver guardato, o no?”.

Fosse riuscito a vincere anche i duecento, diventando il primo a riuscirci dopo Bolt nel 2016, avrebbe legittimato ulteriormente le sue ambizioni. Il bronzo nei duecento, e la rinuncia alla staffetta, ridimensionano un minimo la portata dell’evento. Chissà se adesso avrà la scarpa che tanto desidera - la sua Stan Smith, la sua Jordan. Chissà se, a ventisette anni, riuscirà a far durare il suo momento trascendente.

Ma non è a questo che serve lo sport? Mia figlia di cinque anni, quando perde in qualche piccola gara che facciamo (non capita spesso, che perda, ma a volte capita), ripete sempre: «Non è giusto!». Ma lo sport non è giusto, come nessun altra faccenda umana è intrinsecamente giusta, o sbagliata. Lo sport, se serve a qualcosa, serve a questo: a mostrarti il tuo posto nel mondo. Sarà anche questione di millimetri, di centesimi e millesimi di secondo, a volte, ma sono quei millimetri e quei millesimi che aspettiamo per dare un senso alle parole che sono state dette.

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