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Non ci sarà mai più uno come Bob Knight
03 nov 2023
La pesante eredità di uno dei più grandi allenatori universitari di sempre.
(articolo)
10 min
(copertina)
IMAGO / ZUMA Press
(copertina) IMAGO / ZUMA Press
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«Lo prenderemo mai un altro pesce?». Bob Knight era un pescatore. E come tutti i pescatori, viveva nella paranoia. Paralizzato da una folle certezza: le cose buone durano poco; quelle brutte restano per sempre. Knight ripeteva quella frase ossessivamente, dopo ogni sconfitta, rinchiuso nel suo ufficio. Una stanza sperduta nei cunicoli sotterranei della Assembly Hall, il leggendario palasport degli Indiana Hoosiers. Un buco nel muro così lontano dalla superficie da essere chiamato — affettuosamente, ma nemmeno troppo — "la spelonca".

Nel pomeriggio di mercoledì, Bob Knight se ne è andato. A 83 anni. A pochi chilometri dai luoghi teatro dei suoi trionfi, e dei suoi tormenti. In quarant’anni di carriera Knight ha vinto, rivinto, stravinto, trionfato, polverizzato record — alla guida degli Indiana Hoosiers, ma pure della Nazionale degli Stati Uniti. Eppure nulla restituisce meglio l’idea del suo personaggio come l’immagine di un uomo solo, tremebondo, rancoroso. Cronicamente incapace di controllare i propri impulsi. O forse diabolico nel farci credere che lo fosse. E così, a poche ore dalla sua scomparsa, rimaniamo qui a lambiccarci il cervello, cercando di decidere se sia più importante essere ricordati per aver cambiato per sempre la storia del gioco o per averlo fatto infliggendo soprusi, umiliazioni — e a volte pura, gratuita violenza fisica — a chiunque si sia trovato sul suo percorso. Quello che rimane è un’eredità gigantesca, inarrivabile. Ma talmente complessa che nemmeno la retorica del lutto riesce a risolverla.

Una sedia e una leggenda

Per gli appassionati di college basket, è difficile trovare un’immagine così incisiva. Anche per chi, come noi, la pallacanestro degli anni ‘80 l’ha vista solo con YouTube. È l’inverno del 1985, Indiana è in casa contro Purdue University. Una classica rivalità dello stato dell’Indiana, con le squadre separate da un'oretta di auto in mezzo ai celebri campi di granturco del Midwest

Le immagini dell’epoca dipingono uno scenario poetico: i colori sgranati; i pantaloncini ascellari; gli studenti ammassati per terra, a pochi centimetri dalla linea laterale, in barba a ogni norma di sicurezza. E poi, la pace dei sensi rotta da una figura che si agita in primo piano, avvolta in un’orrenda polo a righe. Prima scalpita contro l’arbitro, prendendosi un fallo tecnico. Poi fissa lo sguardo nel vuoto. Pochi, surreali, secondi di riflessione; infine, abbranca una sedia e la tira in campo, con plateale gesto a due mani. Non con l’intento di colpire – anche perché, in vista dei liberi del tecnico, la metà campo era semi-vuota. Ma con forza sufficiente per farla ruzzolare dalla parte opposta, a sfiorare pericolosamente i tifosi assiepati lungo la linea di fondo.

Da lì in poi si scatena l’inferno.

Nel giro di pochi giorni la narrazione epica inizia a prendere corpo: vengono pubblicati articoli, ricostruzioni, interviste. E ancora oggi, a quasi quarant’anni di distanza, il nome di Bob Knight continua ad evocare quei secondi di follia. Quasi fosse un riflesso automatico.

Ridurre il suo lascito a quel gesto sarebbe riduttivo, oltre che irrispettoso nei confronti di uno dei più grandi conoscitori di pallacanestro che si è mai seduto su una panchina. Così abile nel suo mestiere da cambiare la storia del gioco stesso. L’onore più famoso è quello del titolo NCAA del 1976, vinto senza perdere nemmeno una partita. Son passati quasi 50 anni e nessuno è ancora riuscito a ripetere la stagione perfetta. Nemmeno dopo che il basket universitario è stato preso d’assalto dai grandi talenti planetari, in transito verso la carriera di professionisti.

Ci sono poi altri due campionati universitari, oltre all’ultimo oro olimpico conquistato da una Nazionale USA non professionistica: quello di Los Angeles 1984, che proiettò Michael Jordan sulla scena mondiale, dando nel frattempo una ventata di notorietà internazionale ai metodi feroci dell’allenatore — fino a quel momento conosciuti solo dentro i confini degli Stati Uniti. Più in generale, al netto dei successi, Knight ha contribuito in maniera decisiva a svecchiare il gioco della pallacanestro, proponendo incarnazioni meravigliose di quella Motion Offense, fluida e dinamica, che ancora oggi continua ad ispirare molti allenatori nella NBA. Quasi un paradosso per un maniaco della disciplina militare, perennemente insoddisfatto, eppure capace di regalare ai propri tifosi momenti di pallacanestro danzante, armoniosa. Artistica, almeno per gli standard dell’epoca.

C’era solo un momento che viveva con serenità nella sua professione: andare in giro per i licei dello stato, a caccia di giocatori da portare negli Hoosiers. Forse gli sembrava di andare a pesca. O forse si sentiva libero dall’ossessione della palestra, costretto a calarsi in un mondo in cui era solo un personaggio secondario. Batteva piste locali, a portata di auto, in solitario. E raccontava di esaltarsi particolarmente quando percorreva le strade provinciali dell’Indiana, miglia e miglia in perfetta linea retta, spesso sommerse da violente nevicate. Era la vita da allenatore in un’epoca in cui le informazioni scarseggiavano e i giocatori andavano visti dal vivo. La priorità era quella di cercare atleti pronti a inserirsi nel suo sistema, e soprattutto disposti a tollerarne i metodi. Non necessariamente quelli più forti.

Non è un caso che, in oltre quarant’anni di carriera, pochissimi dei suoi allievi siano finiti in NBA. E, di questi, solo Isiah Thomas sia diventato una vera e propria stella. Molti hanno invece imboccato carriere dirigenziali o sono andati ad allenare: Mike Woodson, Steve Alford, Dan Dakich, Chris Beard. E soprattutto Mike Krzyzewski: giocatore di Knight quando allenava la squadra dell’esercito e poi suo assistente a Indiana, prima di diventare il mito che tutti conosciamo.

Proprio “Coach K”, nel novembre 2011, conquistò la vittoria numero 903 in carriera, superando il proprio maestro come allenatore più vincente di tutti i tempi. Knight era a bordocampo, commentatore tecnico per ESPN. Lo abbracciò a fine partita, davanti alle telecamere. «Sei stato bravo, per uno che non sapeva neanche tirare». Fu un flebile attimo di disgelo in un rapporto tortuoso, pieno di frizioni. Come quello che Knight aveva praticamente con tutti.

“Tutta la merda che ci hai fatto mangiare”

La ferocia del lancio della sedia, del resto, impallidisce rispetto a quella che permeava il suo modo di fare. In campo e fuori. Uno stile basato su una miscela tossica di rabbia, livore, aggressività. E, a volte, vera e propria violenza. Come quando mise le mani attorno al collo a un suo atleta durante un allenamento, riuscendo incredibilmente a evitare il licenziamento. O quando venne accusato di aver preso a calci il figlio Pat, suo giocatore a Indiana — salvo poi difendersi dall’accusa dichiarando che aveva semplicemente calciato lo sgabello su cui si sedeva.

Quello di Knight era un approccio militaresco, ai limiti della tortura. In cui disciplina e sopruso si fondevano fino a diventare indistinguibili. Lo ha raccontato magistralmente John Feinstein nel libroA season on the brink, in cui gli venne garantito accesso pressoché illimitato allo spogliatoio degli Hoosiers per un’intera stagione agonistica, assistendo ad allenamenti, pasti, riunioni tecniche, trasferte.

Feinstein penetrò nel quotidiano di Indiana University, riuscendo meglio di chiunque altro a raccontare la natura metodica e martellante della follia di Knight. Che non consisteva solo di momenti di ira o crisi isteriche durante le partite, ma si manifestava in continui, mirati, invisibili giochetti psicologici — micro aggressioni, diremmo oggi — che erodevano la fiducia dei propri giocatori, spingendoli sull'orlo dell’implosione. Qualcuno resisteva e trovava il modo di coesistere. In molti di più crollavano, anche tra i più famosi.

Larry Bird, il giocatore più forte che lo stato dell’Indiana abbia mai regalato a questo sport, durò pochi giorni. Doveva essere il bambino prodigio, l’uomo della provvidenza, cresciuto a poche decine di chilometri dal campus. Fuggì a casa in autostop ancora prima dell’inizio della stagione, saturo di essere insultato. Michael Jordan, allenato alle Olimpiadi di Los Angeles 1984, tenne duro, ma solo perché doveva averci a che fare per poche settimane. La leggenda narra che Knight fosse riuscito a farlo piangere, salvo poi entrare negli spogliatoio, prima della finale, e trovare sulla lavagna una frase che avrebbe fatto storia: “Con tutta la merda che ci hai fatto mangiare, impossibile che perdiamo”.

Fu proprio in quell’occasione che Knight diede una delle dimostrazioni più note del suo acume. I Portland Trail Blazers, la squadra che aveva la seconda scelta del Draft, continuavano a mostrare esitazione all’idea di buttarsi su Jordan, che non arrivava a due metri di statura. Erano tempi in cui stazza e centimetri erano la priorità assoluta. «Se vi serve così tanto un lungo, scegliete Jordan e fatelo giocare da centro» disse, ancora incredulo per quello che aveva visto fare a MJ. Non venne ascoltato: Portland scelse Sam Bowie, Jordan finì ai Bulls e il resto è storia.

Qui Knight definisce Jordan «il miglior giocatore di pallacanestro che io abbia mai visto», prima ancora che avesse debuttato in NBA.

Per una battuta brillante di Knight, però, ce ne sono state altrettante di inopportune. Offensive, aggressive, umilianti. Come quando insultò in pubblico un malcapitato addetto stampa della NCAA, colpevole di aver erroneamente capito che l’allenatore non si sarebbe presentato in conferenza; o quando si lanciò nella famosa gag con un giornalista che gli aveva chiesto le sue previsioni circa i miglioramenti di un giocatore nella stagione successiva. «Aspetta, vedo qualcosa, si sta formando, eccoci: che domanda di merda!» disse, grattando il fondo di un bicchiere, come se fosse una sfera di cristallo.

Nei suoi attacchi d’ira c’era però uno curioso aspetto ecumenico: nessuno, a prescindere dal proprio ruolo, ne era al sicuro. Ha litigato con giocatori, avversari, arbitri, colleghi, inservienti, rettori dell’università. E, soprattutto, litigava costantemente con se stesso. C’era una tendenza autodistruttiva, profondamente sabotatrice nel suo modo di fare. Come se ogni cosa buona dovesse per forza venire rovinata dal livore. Ma era proprio in questo tossico equilibrio che si nascondeva la sua capacità di spingere i suoi giocatori ad andare oltre ai propri limiti. A prezzi, a volte, difficilmente accettabili.

Finalmente in pace

Con una storia del genere, è un miracolo che sia comunque arrivato una sorta di lieto fine. Anche perché, per come si erano messe le cose, c’erano tutti gli ingredienti per un finale nefasto. Dopo 30 anni assieme, la relazione tra Indiana University e Knight era infatti sfociata in un divorzio violento. Knight venne licenziato nel 2000, in seguito all’ennesimo episodio controverso. La vittima fu Ken Harvey, un diciottenne esordiente che, incontrato Knight in giro per il campus, gli si rivolse dicendogli “What’s up Knight. Il coach, noto per ignorare completamente i propri giocatori quando li incontrava fuori dalla palestra, prese Harvey per un braccio, risentito per il tono informale. Era il 10 settembre 2000: pochi giorni dopo Knight venne licenziato, scatenando una veemente protesta in giro per il campus. Fu la goccia che fece traboccare il vaso, e che rischiò di rovinare per sempre il rapporto tra l’allenatore e l’intera comunità di Indiana University.

Ci vollero altri vent’anni prima che Knight tornasse a farsi vedere alla Assembly Hall, grazie alla mediazione meticolosa di alcuni suoi ex giocatori. E grazie pure a una demenza senile che, a detta di molti, era riuscita paradossalmente a renderlo più ragionevole. All’intervallo della partita contro Purdue — e come poteva essere altrimenti — Knight scese sul parquet. Per la prima volta dal giorno del licenziamento. Camminò verso metà campo, incerto sulle gambe. Lo sguardo ballerino di chi è presente, ma pure un po’ perso.

Poi, al grido dei 17mila sugli spalti, crollarono gli argini. Knight pianse a dirotto.

La folla — tra cui il proprietario dei Dallas Mavericks, Mark Cuban, che a Indiana ha preso un master — ancora di più. In molti sentivano che era l’ultima volta che l’avrebbero visto. Per le generazioni più giovani, nate nel nuovo millennio, era anche la prima. Furono pochi, intensissimi istanti: l’uomo che aveva cementato attorno a sé il culto dell’intero stato dell’Indiana, quello che più di ogni altro respira pallacanestro, era tornato in cima al suo regno. E, finalmente, sembrava essere sereno.

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