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Non ci sarà un altro Khabib Nurmagomedov
27 ott 2020
Un lottatore unico, entrato nella leggenda delle MMA.
(articolo)
13 min
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Sabato sera mia figlia, venti mesi, aveva la febbre e dopo un paio d’ore di sonno ha iniziato a svegliarsi. Ci aspettava una notte difficile ed eravamo preoccupati, come tutti lo sono se nell’ottobre del 2020 a qualcuno di caro e vicino viene la febbre (per fortuna a quanto pare ha “solo” le placche alla gola). Avevo dimenticato che UFC 254 era in corso, per una volta in un orario umano anche per noi europei, ma a un certo punto me lo ha ricordato mia figlia stringendomi entrambe le mani, tenendomi piegato sul suo lettino con una forza che sembra sovrannaturale, per una bambina di dodici chili.

Una presa che mi ha fatto pensare a Khabib Nurmagomedov, il cui soprannome è “The Eagle”. Non ho mai dato importanza ai soprannomi dei fighter – a dir la verità trovo che siano in maggior parte stupidi e irritanti, pensati appositamente per far reagire male qualsiasi spettatore con un briciolo di cervello; voglio dire, qualcuno trova più affascinante una persona che tra nome e cognome si fa aggiungere una cosa come “The Notorius”, o “The Last Stylebender”? – e non mi ero chiesto prima perché Khabib avesse scelto l’aquila come proprio animale guida. In quel momento, con i pugnetti di mia figlia stretti intorno alla punta delle mie dita, ho capito che doveva essere per la presa delle sue mani-artigli.

Un fighter che si è allenato con lui, Punahele Soriano – con il soprannome “Story Time”, così ridicolo da fare quasi il giro e diventare bello – ha raccontato (come riportato in un pezzo di «The Athletic» che avevo letto proprio poche ore prima) la strana sensazione che ti danno le mani di Nurmagomedov serrate sulla tua carne: «Di solito quando una persona ha una stretta forte riesci a sentire lo sforzo, no? Ma nel suo caso sembrava solo che le sue mani fossero lì, la sua stretta era delicata, ma le mani non si spostavano per qualche ragione. Era bizzarro. Erano semplicemente bloccate».

Khabib avrebbe dovuto combattere contro Justin Gaethje da un momento all’altro, anzi forse già stavano combattendo, e io con grande probabilità me lo sarei perso. Poco grave, se fosse servito a consolare un pochino mia figlia. A quel punto, però, è entrata nella stanza mia moglie per darmi il cambio. Evidentemente si era accorta, guardando il mio cellulare abbandonato sul divano, che era il momento dell’incontro di Khabib, e sapeva quanto ci tenessi.

Chissà com’era la stretta delle mani di Khabib quando aveva venti mesi. Chissà se i suoi genitori lo chiamavano “piccola aquila” (come io conto di chiamare mia figlia a partire da ora). Il padre, Abdulmanap, suo allenatore (e di molti altri ragazzi in Dagestan, che provava a tener lontani dal fondamentalismo), non è più qui per dircelo. È morto quattro mesi fa, causa Covid 19, a neanche sessant’anni. Si sapeva che quello contro Gaethje sarebbe potuto essere l’ultimo incontro di Khabib, si vedeva che c’era qualcosa di diverso dal solito, in lui. Lo ha confermato Khabib come prima cosa dopo l’incontro, dopo aver infilato la papakha di lana di pecora, stretto la cintura intorno alla vita, gettato i guantini UFC al centro del tappeto, e preso in mano il microfono. Nurmagomedov lascia da imbattuto, dopo 29 incontri ufficiali, 13 in UFC, e zero sconfitte. A 32 anni, senza aver minimamente dato l’idea di trovarsi prossimo al proprio declino fisico. Senza che nessuno sia mai neanche andato vicino a batterlo.

Ma questi sono dettagli, la cosa più importante è che ha detto che non combatterà più per stare vicino alla madre, che glielo aveva promesso prima dell’incontro, il primo e l’ultimo senza il padre all’angolo, un’eccezione. Anche se questo significava lasciare senza arrotondare il proprio record a 30-0, come era nei piani di Khabib stesso e del padre. Un amico con parte della famiglia russa mi ha scritto in privato che questo è un modo di pensare tipico dei caucasici, dove la mamma è sacra per un figlio maschio, ancor più dei propri figli. Mi ha detto anche che la papakha, il copricapo in lana di pecora del Caucaso, adesso è richiesto in tutta la Russia, grazie a Khabib; e che il nome della sua gente, “avari”, significa: “popolo militare della montagna” (i dagestani, come gli altri popoli del nord del Caucaso, hanno resistito più di 40 anni all’annessione nell’Impero Russo, a inizio ‘800). Quella di Khabib è una storia che non si può raccontare senza pensare a suo padre, alle sue origini.

Nel male e nel bene. Dai rapporti con gli oligarchi, Putin e il dittatore ceceno Kadyrov (chi vuole approfondire può leggere i pezzi che Karim Zidan ha dedicato al problema negli ultimi anni), alla profondità e all’autenticità che ha portato nell’ottagono. Sia chiaro, Khabib non è moralmente giustificato dall’aver aiutato la propaganda di un criminale di guerra che ha organizzato “purghe contro gli omosessuali” (tra i vari crimini di Kadyrov) solo perché è nato a meno chilometri di distanza di me o voi. La crudeltà, il sadismo, la violenza non sono “tipici” di nessun posto. Ma sono i paesaggi montani del Dagestan, le immagini di Khabib che si allena insieme ad altri ragazzi in mezzo al nulla, facendo esercizi a corpo libero o sollevando pietre sopra la propria testa, oppure in palestre vuote, con la muffa negli angoli dei muri, che spiegano meglio di ogni altra cosa la sua unicità.

Più che le immagini di Khabib che lotta con gli orsi da piccolo (viste, riviste e logore a livello di immaginario) quelle in cui racconta di aver imparato a nuotare in una specie di fiume dove sono morti sei o sette bambini della sua età; che a mezzanotte va a pregare in Moschea vicino a un bambino con la maglietta di Messi col nome e pezzi di numero staccati; che va a trovare il nonno in un villaggio che sembra uscito da Call of Duty, in una casa che il nonno si è costruito da solo. Un modo per dirlo è che la sua intensità, la sua capacità di concentrazione, sono proporzionali alla vastità e all’asprezza di quelle terre. Un altro modo è considerare l’UFC, e quindi le MMA moderne, come una via di mezzo tra un’arte marziale e un circo, dove contano tanto le prestazioni nell’ottagono quanto le pubbliche relazioni, l’abilità di costruirsi un brand con dei clienti (per quanto spregevoli, l’uno e gli altri, come nel caso di Colby Covington). In un mondo così “tipicamente” americano, Khabib Nurmagomedov non poteva essere che un Alieno, l’Altro rispetto a quello che per i vari Dana White, Conor McGregor e via dicendo, è la normalità.

Oggi è facile essersene dimenticati ma fino a qualche anno fa Nurmagomedov era un enigma anche per la stessa UFC. Non solo Dana White non sapeva con chi farlo combattere né quando, visto che è stato infortunato per due anni (dal 2014 al 2016) e non combatte durante il ramadan. Anzi, come ha raccontato lui stesso, ha scelto il suo soprannome quando l’UFC gli ha detto che Nu-rma-go-me-dov sarebbe stato troppo lungo «per gli americani», e ha scelto quello perché il nome della sua regione, Tsumadinsky, si traduce con “Eagles” (quindi no, probabilmente il padre e la madre non lo chiamavano aquila da piccolo).

Quindi Khabib è Altro già a partire dal suo nome, che poi alla fine hanno imparato tutti lo stesso. Lo è nel suo aspetto, in quella faccia che sembra essa stessa una pietra di montagna (su cui sembra essere cresciuto come un fungo, o un muschio, l'orecchio deformato “a cavolfiore”), in quel corpo tozzo lontano dagli standard nutritivi, dalla definizione degli atleti contemporanei (quando si fa le foto vicino a Luke Rockhold, fighter californiano e modello Ralph Lauren, sembrano una coppia strana quanto Arnold Schwarzenegger e Danny De Vito nel film «I gemelli») ma non per questo meno esplosivo, sano o forte. Il corpo di Khabib sembra plasmato dalla Storia dei suoi luoghi, la sua energia asciutta e concentrata ricorda quella che scorre nel fiume in cui rischiava di morire da piccolo tanto quanto il suo cardio, la sua resistenza aerobica, vengono dall’altezza delle montagne in cui il padre lo allenava.

Khabib in cima a un tetto con degli amici, che scherza tirando un sasso verso la telecamera. Su YouTube ci sono tutti gli episodi di “The Dagestan Chronicles” se siete interessati.

Lo è nell’approccio allo sport, all’opposto dai meccanismi dello star-system. Quanto sono lontani, quanto possono arrivare a capirsi, uno come McGregor che costruisce i propri incontri sui social-media, che dice mille cose e nessuna è quella che pensa veramente, e Khabib che dice: «quando arriva il Ramadan è tutto per me, non penso a combattere. La religione per me è al primo posto, non lo sport». Non che ci sia un approccio più giusto dell’altro, o quanto meno non è questo che interessa a me. Piuttosto sto cercando di far capire come tutto quello che fa parte di Khabib Nurmagomedov possa essere visto come diverso, spaventoso, un po’ come la versione da incubo di Borat, dal punto di vista di un americano, o comunque di un europeo occidentale pragmatico.

Khabib al tempo stesso non era abbastanza devoto al proprio successo sportivo, ma anche troppo intenso quando c’era da combattere in gabbia. Qualcosa sembrava sfuggirgli, oppure sfuggiva a tutti gli altri. Qualcosa che McGregor ha provato a fargli capire quando schiacciato contro l’angolo tra gabbia e tappeto, con davanti una rabbia che non aveva mai visto neanche nelle palestre o nelle strade di Dublino, ha pronunciato il famoso «it’s only business». Qualcosa che Khabib si è tenuto sempre per sé, che ha lasciato uscire controvoglia quando, ad esempio, in quello stesso angolo dell’ottagono diceva a Michael Johnson di ritirarsi, mentre lo prendeva a pugni e gomitate: «Merito un incontro per il titolo, non trovi?». La sua determinazione assoluta, che non è voglia di successo, di vincere, in qualche modo ricorda la durezza della guerra, in mezzo a cui è cresciuto (l’invasione di milizie islamiche fondamentaliste dalla Cecenia, nel 1999, è arrivata a pochi chilometri dal suo villaggio).

Guardare Khabib combattere è stata un’esperienza straniante, limite. Ad esempio, a qualcuno non piaceva il suo stile e (anche se non condivido) non fatico a capire il perché. Se uno non faceva caso alle piccole cose con cui costruiva i suoi attacchi – la paziente ma costante pressione, i colpi che assorbiva di proposito per arrivare a contatto col corpo avversario, i movimenti con cui scalava le posizioni per arrivare alla full mount e poi alla finalizzazione – sembrava che il suo unico scopo fosse distruggere. Che il suo unico talento fosse annullare, soffocare, il talento altrui. Trasformare l’essere umano allenato, preparato, cintura nera e blah blah che aveva davanti in una “bambola di pezza” (di gran lunga la metafora più usata per parlare di Nurmagomedov). Persino la sua rabbia, nei momenti più caotici tipo l’incontro con McGregor, è sempre stata una rabbia fredda, sotto uno strano controllo che non faceva che renderlo ancora più inquietante: per quanto Khabib picchiasse duro, si ha avuto spesso l’impressione che potesse picchiare ancora più duramente. È qualcosa di vicino alla sorpresa che hanno descritto i suoi sparring, quando prima dell’azione lo vedevano calmo e quindi pensavano ci sarebbe andato piano con loro. Si sbagliavano.

La forza di Nurmagomedov non sembra venire da questo mondo. Ti fa pensare che esista davvero un piano trascendente e che attraverso di lui si esprima un volere superiore. D’altra parte, senza una spiegazione, a cosa dovremmo credere? Certo era piuttosto pesante per la sua categoria (e infatti faticava a tagliare il peso) ma si dice che in allenamento riesca a tenere giù anche Cormier e Rockhold, un Peso Massimo e uno Massimo Leggero. La sua ferma determinazione sembra al di là dei limiti di peso, così come la sua energia sembrava continua, stabile, senza cali di sorta. Queste impressioni verrano amplificate dal fatto che sta lasciando al proprio picco, che – dopo che non lo abbiamo mai visto in difficoltà, che non lo abbiamo visto sanguinare o andare al tappeto – non lo vedremo invecchiare come tutti, cioè. È vero che nelle MMA non si può mai sapere, ma nessuno metterebbe in discussione l’autenticità del suo proposito e l’irremovibilità della sua decisione. Appunto perché irremovibile («un ostacolo, un impedimento irremovibile» oppure in senso figurativo: «che non si lascia smuovere, ostinatamente saldo») è una parola che si adatta bene per parlare di Khabib. Anche per questo sembra credibile Dana White quando, nella conferenza successiva all'ultimo evento, racconta che Nurmagomedov si era rotto un piede tre settimana prima senza dirlo a nessuno: non solo sembra credibile che sia riuscito a mettere tutta quella pressione su Gaethje, ovvero uno dei fighter più intensi della divisione, da infortunato, ma soprattutto è verosimile che abbia voluto portare a termine un impegno preso anche su una gamba sola.

È un peccato, ovviamente, ma conferma l’impressione che le sue motivazioni fossero più profonde, che combattere non fosse solo sport, o magari non fosse abbastanza una questione competitiva. Dopo l’incontro con McGregor ho scritto che Nurmagomedov non sembrava felice, né sollevato in nessuno modo: «Forse per Khabib non c’è niente, a parte il combattimento». Quali erano le sue ragioni per combattere, al di là del fatto che era cresciuto nel combattimento, che probabilmente è la sola cosa che sa fare? «La mia motivazione era mio padre», ha detto invece Khabib dopo l’incontro con Abel Trujillo, sette anni fa. «Mi ha tirato su e ha fatto di me un uomo. La sua faccia felice dopo ogni incontro è il miglior premio per me». Forse era questa davvero, la sua motivazione.

«A dir la verità, sono triste e non sono neanche sicuro del perché. Forse è la consapevolezza di cosa hanno appena perso le MMA», ha scritto Shaheen Al-Shatti su «The Athletic» il giorno dopo l’incontro con Justin Gaethje. «Mi sono occupato di questo sport, tra una cosa e l’altra, per la maggior parte della mia vita, e Nurmagomedov è il talento più unico che mi sia capitato di vedere». Stefano Summa su Sportellate, considerando cosa avrebbe potuto fare il suo ultimo avversario, rifletteva: «Siamo sinceri però, forse solo un altro Khabib avrebbe potuto battere o almeno mettere in difficoltà il Khabib visto sabato notte». Qualcuno ancora oggi ritiene che non abbia affrontato un numero sufficiente di avversari di livello (anche se i suoi ultimi incontri sono stati con un ex-campione e due campioni “ad interim”), che il miglior McGregor, o il miglior Tony Ferguson, avrebbero potuto batterlo; ma l'impressione finale, definitiva, è che chiunque gli avessimo messo davanti avrebbe fatto la stessa fine. Semplicemente perché non abbiamo mai visto Nurmagomedov fare altro che non fosse demolire a poco a poco l'esterno e l'interno dei suoi rivali. I discorsi sul più grande di sempre lasciano il tempo che trovano e sembrerebbero inappropriati al modo di vedere le cose di Khabib, se non fosse che lui stesso ha chiesto, prima di lasciare per sempre l’ottagono dell’UFC, di essere messo in cima alla classifica Pound For Pound (un'ipotetica classifica dei migliori fighter in assoluto tra quelli in attività, indipendentemente dalla categoria di peso), cominciando una discussione in cui si è volentieri tuffato Jon Jones. Forse è impossibile, anche per uno come Khabib, non preoccuparsi di come si verrà ricordati.

Nella mia vita ho visto in azione parecchie leggende. Molti calciatori, soprattutto quelli che hanno giocato in Italia (almeno fino all’inizio del ventunesimo secolo e l’avvento delle pay tv), visto che sono nato all’inizio degli anni ottanta. Ho fatto in tempo a vedere, e ricordarmi, Maradona e van Basten, e sono cresciuto con Roberto Baggio, Franco Baresi, Paolo Maldini. Ho visto esplodere la gigante rossa di Ronaldo, il Fenomeno, ho seguito tutto il percorso di Messi, Cristiano Ronaldo, Ibrahimovic. Lo stesso vale per Federer, Nadal, Djokovic. Ho visto Michael Johnson, Usain Bolt. Ho visto Michael Phelps vincere qualcuno dei suoi 23 ori olimpici. Ho visto Ayrton Senna, Michael Schumacher, Valentino Rossi. Ho visto Tyson, ho visto Mayweather. Ricordo qualcosa di ognuna delle leggende che ho visto in tempo reale, di alcuni un momento, di altri il modo di camminare, di correre, di sorridere o di incazzarsi. E di loro ho pensato la stessa cosa che ho pensato sabato per Khabib Nurmagomedov: che non ce ne sarà più un altro come lui.

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