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Non date per scontato LeBron James
30 apr 2018
30 apr 2018
La serie contro gli Indiana Pacers è l’ennesimo esempio di un giocatore che non dovrebbe essere in grado di fare quello che fa al suo 15° anno in NBA.
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Per capire veramente la portata degli eventi a cui assistiamo, a volte può essere utile allargare l’inquadratura e fermarsi un attimo a ragionare su cosa ci sia dietro a quello che succede nel mondo. Vale per tutti gli ambiti della vita, ma nel caso di questa stagione di LeBron James può essere utile fare un breve ripasso di chi siano e cosa stiano facendo i suoi compagni del Draft 2003, classe che viene citata più o meno ogni volta che si apre una discussione su quale sia “il Draft migliore di sempre”.

Scorrendo la lista si trovano giocatori che ancora hanno un loro ruolo più o meno rilevante nella lega — da Carmelo Anthony a Dwyane Wade fino a Nick Collison, David West, Zaza Pachulia e Kyle Korver — e tantissimi altri che invece ne sono usciti subito o quasi (ti vogliamo ancora bene anche se tu non ce ne vuoi, Darko Milicic), mentre sono pochi quelli che continuano a giocare anche dopo aver abbandonato la NBA (Boris Diaw, Leandro Barbosa). Alcuni, addirittura, hanno già deciso di fare il salto e di mettersi in giacca e cravatta, tra cui Luke Walton sulla panchina dei Los Angeles Lakers e James Jones nella dirigenza dei Phoenix Suns, o lo sfortunatissimo Chris Bosh che sarebbe probabilmente il secondo miglior giocatore di questa classe se solo il suo corpo non lo avesse tradito.

Tutti, però, si sono ritrovati già da diverso tempo a fare i conti con la concreta possibilità di appendere le scarpette al chiodo, volenti (Wade) o nolenti (stiamo guardando te,‘Melo). È la normalità delle cose: anche per atleti straordinari rispetto al resto dell’umanità come sono i giocatori che arrivano alla NBA, dopo 15 anni di carriera il proprio fisico ha già presentato da tempo un conto salatissimo. Quello che non è normale è che ci sia una così grande disparità tra il primo della classe e il resto del gruppo: va bene che James, oltre a essere un portento fisico-atletico di suo, era anche più giovane di molti essendo entrato nella NBA a 18 anni, ma non è normale che a 33 anni e con tutto il chilometraggio accumulato sul suo corpo sia stato in grado di chiudere la regular season con 82 partite disputate per la prima volta in carriera. E non è per nulla normale il livello di gioco tenuto nelle ultime due settimane contro gli Indiana Pacers, confermando una volta di più di essere il miglior giocatore del mondo indipendentemente da come finirà questa travagliatissima stagione dei Cleveland Cavaliers.

Una gara-7 per la storia
Per l’ultimo episodio di una serie giocata a livelli celestiali, “King James” ha forse cercato di fare un po’ troppo: l’idea iniziale era di fare la storia giocando 48 minuti filati, come si poteva ben capire non solamente da un primo tempo giocato senza tirare mai il fiato, ma anche dal modo in cui si prendeva dei possessi offensivi di palese riposo piazzandosi al centro del campo e lasciando che i suoi compagni se la giocassero quattro-contro-quattro. Non si può neanche dire che la tattica non stesse funzionando: James ha disputato un primo tempo leggendario, segnando i primi sette tiri della sua partita e rimanendo a lungo perfetto dalla linea dei tiri liberi (a un certo punto era arrivato a 25 in fila considerando anche le due gare precedenti), spingendo i suoi più volte oltre la doppia cifra di vantaggio e mandando ai pazzi la difesa di Indiana.


Per farsi un’idea.



Dopo 35 minuti, però, il suo corpo ha presentato il conto sotto forma di crampi, un infortunio che gli è capitato più volte (e spesso nei momenti peggiori) nel corso della sua lunghissima carriera ai playoff. James è stato quindi costretto a lasciare il campo a un minuto dalla fine del terzo quarto rientrando immediatamente negli spogliatoi, dove ha rifiutato di sottoporsi a una flebo per reintegrare i fluidi in modo da tornare il prima possibile in panchina e quindi in campo. Lì però è successa una cosa particolare: dopo una serie in cui è andato cercando compagni in grado di dargli una mano come un predicatore nel deserto(nessun altro membro dei Cavs ha toccato quota 20 punti in nessuna delle sette partite giocate, prima volta che succede nella carriera di James), il supporting cast di Cleveland è salito di livello, trovando soluzioni insperate nel pick and roll laterale da George Hill e Kevin Love, in grado di mandare in tilt la difesa dei Pacers e di aumentare il vantaggio sul tabellone.




Nella NBA del 2018, il pick and roll giocato da due tiratori su un lato del campo rende difficile mandare degli aiuti con tempi utili: qui Hill e Love producono abbastanza attacco per tenere in piedi la baracca aspettando il ritorno del Re.



Così James — che nel corso del primo tempo aveva ritrovato un Tristan Thompson resuscitato dalla valle delle Kardashian con 15 punti e 10 rimbalzi — ha potuto gestire un vantaggio invece di costruirne uno, che per uno con la spia della riserva accesa fa tutta la differenza del mondo. E pur commettendo qualche inusuale errore di troppo (una penetrazione facilissima concessa a Darren Collison e fermata da Thompson, un paio di falli su Domantas Sabonis nella propria metà campo che potevano costare carissimo), è riuscito a gestire le poche energie rimaste per portare la barca in porto, realizzando la giocata della partita in combinazione con il suo compagno di Draft Kyle Korver, a lungo l’unico Cavs in grado di fornire un approdo sicuro ai suoi passaggi nel corso di questa complicatissima serie.




Come ai bei tempi con Kyrie Irving, James chiama al proscenio un esterno con doti di tiro per rendere difficile ogni tentativo di raddoppio. Dal pick and roll centrale con Korver ne esce un dai-e-vai tanto semplice quanto bellissimo per il +6 a 30 secondi dalla fine, chiudendo di fatto gara-7.



I numeri di una serie insensata
James ha chiuso con 45 punti, 9 rimbalzi, 7 assist e 4 recuperi a fronte di sole 4 palle perse, un’inezia se si considera la mole di produzione che si è dovuto caricare sulle spalle tirando con 16/25 dal campo, 2/3 da tre e 11/15 ai liberi. Cifre che diventano ancora più assurde se si considera che James ha dovuto affrontare le mani addosso di Bojan Bogdanovic e le provocazioni di Lance Stephenson per tutta la serie, buttandosi in area a ogni occasione possibile con una quantità di energie che non dovrebbe essere consentito a un essere umano al suo apice fisico-atletico, figuriamoci a uno che ha giocato 9.415 minuti in carriera solo ai playoff, più di chiunque altro nella storia del gioco.

L’immediato post-partita si è quindi trasformato in una gara a chi tirava fuori la statistica più assurda della serie appena conclusa dal Re. Tra le più incredibili spiccano — oltre alla già citata annotazione degli zero compagni a quota 20 o più punti —, il fatto che è il primo di sempre a segnare 45 o più punti in due gare-7 di playoff (l’altra è stata 10 anni fa nella sconfitta contro i Boston Celtics di Paul Pierce, l’ultimo a segnare 26 punti in un primo tempo di gara-7 come James ieri) e il computo totale di punti, rimbalzi e assist che ammonta al 35% di tutta la produzione dei Cavs nella serie (241 punti, 71 rimbalzi e 54 assist). Nel frattempo, James è anche diventato il leader ogni epoca per palle recuperate in post-season (396, superato Scottie Pippen) nonché il primo giocatore di sempre con 200 partite ai playoff da 20 o più punti. Grazie alle tre escursioni sopra quota 40 di questa serie, poi, si è portato a -7 dalle 109 gare di Michael Jordan con 30 o più punti a referto. Il tutto giocando 41 minuti di media e mancando la tripla doppia in larga parte per la scarsa vena realizzativa dei suoi compagni, tirando col 61.2% dal campo e con l’84.6% ai liberi.


Ah giusto, ha anche trovato il tempo di segnare il quarto buzzer beater della sua carriera ai playoff, dopo aver realizzato la stoppata — irregolare, seppur di pochissimo — su Oladipo nel possesso precedente.



Gli Indiana Pacers, che hanno subito la quinta eliminazione per mano di James negli ultimi sette anni, possono ragionevolmente pensare di aver battuto i Cleveland Cavaliers ma di non essere riusciti a battere LeBron James, se questa frase ha un qualche senso. Il computo totale dei punti nella serie li vede addirittura in vantaggio, complice il +34 di gara-6 e le quattro sconfitte sempre contenute entro i 4 punti di scarto: con un minimo di mestiere in più (gestendo meglio i raddoppi su Oladipo, spingendo di più in transizione, battezzando ancora di più i non-tiratori dei Cavs) avrebbero potuto/dovuto portare a casa una serie in cui avevano un chiaro vantaggio fisico-atletico nei confronti degli avversari.

Di tutti gli avversari tranne che di James, che è stato semplicemente magnifico oltre i limiti consentiti dal suo corpo, che a fine gara lo hanno portato a presentarsi esausto ed esaurito in conferenza stampa chiedendo solo di andare a casa invece che rispondere a domande sulla serie in arrivo contro i Toronto Raptors. Per questo, conviene fermarsi un attimo e cristallizzare questo momento, perché già solo aver portato al secondo turno una squadra con evidenti limiti fisici, atletici, di talento e di personalità come questa versione dei Cleveland Cavaliers è un risultato che non va in alcun modo dimenticato. Magari i Cavs batteranno anche i Raptors arrivando in finale di conference, o magari i canadesi si dimostreranno la squadra migliore — come certamente sono — e porranno probabilmente fine alla carriera di James nel tanto amato Northeast Ohio, visto che anche lui dopo la gara ha dichiarato di aver pensato durante la partita che questa potesse “essere la fine” (se della serie o della sua carriera coi Cavs non è dato sapersi, ma il dubbio resta).

Vada come vada, i tifosi di Cleveland saranno testimoni di almeno altre due partite di LeBron James con i colori dei Cavaliers alla Quicken Loans Arena. E questo, come sempre, è un privilegio che non bisognerebbe mai dare per scontato.

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