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Normale ma eccezionale
02 ott 2015
Pur non avendo proprio il passaporto del grande attaccante, a Nikola Kalinic riesce tutto.
(articolo)
8 min
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Nikola Kalinic ha definito la sua prestazione contro l’Inter di domenica scorsa, quando con una tripletta ha sgretolato il cammino trionfale di Mancini: «Il miglior match della mia vita».

Ed è difficile trovare argomenti per contraddirlo: in un mare magnum di straordinaria normalità, come quello nel quale il croato sguazza praticamente da tutta la carriera, anche un’epifania abbastanza prevedibile nel contesto di un campionato (e quando si gioca al centro dell’attacco con la maglia numero 9) come un hat-trick riesce a donare la gioia fanciulla del sole che torna a splendere dopo una settimana di pioggia.

«Mi chiamano tutti per congratularsi», dice ancora Nikola, si può immaginare con un sentimento frammisto di stupore e allegria friccicarella.

Due elementi che testimoniano l’umile ordinarietà dell’attaccante: 1) in occasione del primo gol si frappone ad Handanovic in una maniera che sembra chiedere «scusa, scusa, permesso»; 2) nell'esultanza dopo la tripletta, poi, non c’è arroganza, il gesto con cui mostra la triade mignolo-anulare-medio quasi implora perdono.

La prolificità di Kalinic, o dovrei meglio dire la sua bomberitudine, somiglia più a una leggenda metropolitana utile da presentare durante il calciomercato che a un dato di fatto: anche per tenere il conto del tempo passato dalla sua ultima tripletta siamo ormai arrivati all’uso della seconda mano, visto che risale al 2007, contro lo Zadar. Ma è nondimeno un’associazione di pensiero che verrebbe da fare, a primo acchito, guardando i numeri del suo rendimento ai tempi dell’Hajduk, effettivamente mostruosi: 44 gol in 79 partite ufficiali.

Una media non difficile da tirare, anche il suo picco massimo è un onesto score di 17 gol in 25 partite, che diventano 26 con quelli di coppa, nel 2007-2008, forse il suo annus mirabilis.

Nei video YouTube di Nikola ai tempi dell’Hajduk, ci sono i gol, certo (altrimenti che compila di YouTube sarebbe?), ma ci sono anche molti gesti tecnici che spiegano, con un livello di approfondimento maggiore, che tipo di calciatore era e continua a essere.

Somiglianze

Quella di Nikola è una promessa che si è realizzata solo in parte. Nel 2005, all’Europeo U-17, si era laureato capocannoniere con undici reti: la Croazia si era classificata quarta, sconfitta nella finalina per il terzo posto dall’Italia, e per Kalinic si erano spalancate le porte della prima squadra. In quell’Hajduk c’erano Tomislav Erceg, che avrebbe disputato l’ultima stagione da professionista prima di diventare agente (oggi è l’agente di Nikola) e Niko Kranjcar. che veniva additato come il nuovo Prosinecki.

Sempre in tema di similitudini, Nikola veniva spesso paragonato a Ibrahimovic, ma sarebbe sibillino se non fuorviante metabolizzare il paragone con in mente l’immagine di Ibra che abbiamo oggi: Nikola non somigliava allo Zlatan pantocrator e dominante che abbiamo imparato a conoscere all’Inter, ma—e non è neppure un’ipotesi che mi convince appieno—al calciatore (anche) associativo, corale, accentratore di manovra e al contempo anello inscindibile della stessa che si era messo in mostra al Malmö e all’Ajax.

Il giovane Kalinic, la personalità per inscenare uno one-man-show tamarro come questo di un giovanissimo Zlatan, non l’ha comunque mai avuta.

Circoscrivendo il campo semantico “attaccanti ai quali somiglia Kalinic” alla microcategoria “attaccanti croati ai quali somiglia Kalinic”, forse la similitudine più calzante è quella che inquadra Nikola come un ibrido: il fermo immagine di un morphing che si situa a metà strada tra Davor Suker (del quale ha la stessa capacità di affondare infiltrandosi negli spazi, ma senza possederne la dimestichezza con entrambi i piedi) e Alen Boksic (del quale ricalca le mosse, pur non dando l’impressione di avere lo stesso peso specifico, di non essere fatti dello stesso tipo di pelle).

Peraltro l’ultima tripletta segnata in Serie A da un croato è vecchia di vent’anni; l’autore era stato proprio Alen Boksic, in un Lazio - Foggia molto anni ’90 (finito 7-1 e perciò anche molto zemaniano, il terzo gol soprattutto, sul finale di partita, è assai Kalinìccico).

Della stessa materia di cui è fatto il pallone

Scrivere di Nikola Kalinic non è semplice, e farlo dopo l’attenzione che gli si è riversata addosso in questo giorni post exploit senza per forza doversi avventurare in un’esegesi non facilita il compito: per costruire le statue bisognerebbe sempre saper scegliere la lega metallica giusta per l’occasione, e l’oro ha il difetto di ossidarsi presto (oltre che di andare sempre troppo per la maggiore, perché è il metallo dell’entusiasmo).

Un elemento che emerge in Kalinic è la pietrosità della sua figura. Non sappiamo nulla della sua vita prima che diventasse un calciatore professionista. Non sembra avere una storia personale fatta di drama, di esperienze lacrimevoli, di infanzia bellica: nel ’91, quando Spalato veniva bombardata, aveva 3 anni, e non è neppure detto che in quegli anni vivesse a Spalato, a Salona, non ha mai raccontato che cosa facessero i suoi genitori, o lui, negli anni ’90, mentre la Jugoslavia si dissolveva: ha osservato Suker nei Mondiali francesi del ’98? Sognava di ispirarsi a lui?

Il problema si acuisce ulteriormente dal momento che non sappiamo niente della sua esperienza fuori dal campo nemmeno dopo che è diventato un calciatore professionista. Se da una parte l’assoluta mancanza di appigli al mondo reale potrebbe essere eloquente della sua riservatezza, o della sua ordinarietà, o forse semplicemente del fatto che in Inghilterra (dove ha giocato con il Blackburn) e in Ucraina (dove ha difeso i colori del Dnipro) a nessuno interessasse conoscere questi aspetti, dall’altra rende Kalinic interessante nella misura in cui gli unici strumenti interpretativi di cui disponiamo per decodificare chi è e chi non è sono quelli che ci fornisce quando indossa una maglia da gioco. È come se Kalinic fosse fatto della stessa materia di cui è fatto il pallone.

Se si guarda Kalinic al Dnipro nella stagione scorsa, si trovano tentativi di acrobazia che non appartengono al suo corredo genetico, qualche palla sbucciata, qualcosa di indescrivibile appieno che ci parla di fallibilità. Soprattutto nello storytelling che si può sviluppare intorno alla sua figura.

Lo stile di gioco di Kalinic affonda a piene mani nella legacy degli anni ‘90: pur sapendosi adattare perfettamente ai dettami tattici più in voga nella nostra epoca calcistica, ogni sua giocata trasuda calcio della Seconda Repubblica.

C’è un commento, in calce a un video su YouTube del periodo all’Hajduk, che credo ci aiuti un po’ di più a capire che tipo di giocatore fosse, e per certi versi continua a essere, Kalinic: l’ha scritto Giuseppe Prisco, napoletano all’epoca trapiantato a Spalato, e dice: «È molto ma molto più forte di Iaquinta e Floccari messi insieme». (Anche Iaquinta calciava i rigori sempre di destro, e verso destra. Poi, per chi se lo fosse dimenticato, ha anche segnato un gol al Mondiale.)

Al di là del giudizio di merito, sono i termini di paragone utilizzati a stuzzicare le sinapsi. Iaquinta e Floccari non sono van Basten e Batistuta: ma neppure Kalinic lo è. Come le due punte originalmente tirate in ballo, Nikola è fisicamente prestante, e sembra perfetto per fare il punto di riferimento in attacco.

Ma allo stesso modo è assai mobile, gli piace uscire dall’area, farsi incontro ai compagni sulla trequarti, allargarsi sulle fasce: ha una protezione di palla degna di un numero nove di quelli che come si dice adorano fare a sportellate, e comunque la sua resistenza agli assedi non è mai fine a sé stessa, ma orientata a far salire la squadra, o a mettere i suggeritori sulla trequarti, Kuba, Ilicic, Borja Valero nella condizione di prendere in mano le redini della sceneggiatura del nuovo formato televisivo “1001 modi di mandare a rete Nikola Kalinic”.

Come all’esordio in Serie A contro il Milan, quando ha ricevuto palla dal centrocampo, tenendo a distanza Romagnoli, toccandola per Borja facendosi trovare subito pronto, con rapidità tutta sua, a puntare la porta avversaria.

La dimostrazione più forte del copione di gara che vede Kalinic dare il meglio di sé, forse, è tutta racchiusa nell’azione che ha donato al Dnipro, nell’ultima finale di Europa League, l’illusorio vantaggio: Nikola esce sulla trequarti incontro alla palla, la tocca leggermente di testa per l’uomo sulla fascia (Matheus) e subito si allarga al centro dell’area, dove si fa trovare pronto per schiacciare comodamente in rete:

E la riprova, semmai ce ne fosse bisogno, arriva dall’analisi delle sue prestazioni finora in Serie A: dei venti passaggi in media che ha effettuato a partita, la metà sono a centrocampo, con passaggi corti all’indietro o sulle fasce laterali.

Non è tempo (ancora) per le statue

C’è un video, abbastanza divertente, girato al Mercato Centrale di Firenze durante una visita di Nikola allo store ufficiale dei viola, in cui un macellaio simpaticamente lo coinvolge in una scenetta da colonnina destra di quotidiano nazionale.

In quello scambio di battute si annida una verità sincera fino all’atrocità: quando il macellaio gli ripete più di una volta «sei il nuovo Batistuta», qualcuno fuori campo risponde «Speriamo». E poi aggiunge: «Per lui. E per noi».

Nikola Kalinic non è, e forse mai potrà essere, il tipo di calciatore che era Gabriel Omar Batistuta, così come la Fiorentina di Paulo Sousa sembra distante anni siderali da quella di Trapattoni. Il miglior auspicio che si possono fare i Viola, a oggi, è quello di poterne eguagliare, da un punto di vista personale e di squadra, almeno i risultati.

Per Nikola diventare un tipo di calciatore diverso, completamente diverso, da quello che è ora, e per costruirgli statue d’oro, ecco, c’è tempo. E per noi, per capire in fondo chi è, e chi non è, Nikola Kalinic, pure.

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