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Il tennis di Djokovic nasce dalla testa
22 feb 2021
Una finale dominata grazie alla sua lucidità.
(articolo)
11 min
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Si sono preparati in piccole camere d’albergo, addossando i materassi al muro e tirandogli contro. Hanno vissuto isolati dalla famiglia e dai cari, hanno mangiato pasti insipidi e fatto tamponi ogni lavaggio di denti. Più che un torneo di tennis sembrava il Vietnam, e quando si è cominciato a giocare sono cominciati a cadere infortunati uno dopo l’altro. Problemi agli addominali, alla schiena, alle cosce. Hanno cominciato a chiamarlo Injury Open. Bandiera bianche alzate prima delle partite, interventi continui dei fisioterapisti. Attorno a questa competizione arrangiata, e allestita con estrema ostinazione, il pubblico compariva e scompariva assecondando la curva dei contagi. L’abbiamo visto comparire dopo la prima settimana, partecipe e rumoroso, esprimendo una rinata voglia di vivere. Poi lo abbiamo visto battere in ritirata come cenerentola alla mezzanotte, nel bel mezzo di una partita, lasciandola ripiombare nel silenzio spossato dei saloni dopo le feste.

È stato un dono, quindi, un miracolo, che ci sia capitata la finale migliore tra quelle possibili. Il tema, certo, era il solito, vecchio contro nuovo, re contro regicida. Il topos eterno degli ultimi dieci anni, quelli in cui il tramonto dei big-3 si è allungato in modo imprevedibile, la loro ombra diventata lunga ed enigmatica come quella di certi imperatori asburgici. I due interpreti, però, erano i più credibili. Novak Djokovic, “Il re di Melbourne Park”, e Daniil Medvedev, fra i tennisti di nuova generazione apparentemente il più pronto, di sicuro il più spietato e complicato da affrontare.

Mi sento stupido a dirlo, perché chissà quante altre volte l’ho pensato, ma mai come questa volta la detronizzazione sembrava alla portata. C’erano ragioni contingenti, dalla più banale, e cioè che Medvedev pareva più in forma. Lungo il percorso fino alla finale, si era lasciato scappare appena due set. Tutti e due con Krajinovic, ma persi in modo strano e poco significativo. Veniva dalla vittoria delle ATP Finals e da una striscia di 20 vittorie consecutive, 10 delle quali ottenute contro Top-10. Il suo tennis è un enigma. In semifinale aveva sbranato Stefanos Tsitsipas, nemesi umana e tennistica. Sul 5 pari del terzo set e palla break, Medvedev ha tirato un passante arrivato da un pianeta in cui si gioca a tennis diversamente. Diversi metri lontano dalla riga di fondo, la palla quasi a terra, ha lasciato andare la racchetta come una mazza da cricket, spedendo la pallina all’incrocio delle righe. Tsitsipas si era approcciato alla rete poco convinto, poi l’ha guardata scorrere chiedendosi cosa avesse fatto di male. Se fermiamo l’immagine, il corpo di Medvedev è contorto come quello di certi quadri di Otto Dix, stretti fasci di muscoli ferrosi tutti tesi, la bocca piegata dallo sforzo.

Medvedev non aveva però semplicemente vinto le partite, le aveva dominate quasi assorto, lasciando andare il proprio tennis in automatico. Ha addomesticato avversari attorno alle idee che gli andavano più a genio, ma ha saputo anche alzare il livello su vette impossibili nei momenti chiave. Vinceva come vincevano loro, insomma, come se gli venisse facile farlo.

Dall’altra parte l’immagine di un Djokovic stanco e malandato. Dopo un 2020 post-pandemico disastroso - dentro e fuori dal campo - agli Australian Open, casa sua, si è fatto male agli addominali. Ha passato i primi turni a chiedersi se non dovesse forse ritirarsi; intanto però vinceva, perdeva set ma vinceva. Non era mai arrivato a una finale slam perdendo così tanti set, cinque. Ai quarti di finale ha incontrato Zverev in ottima forma, col servizio al massimo dei giri, e l’ha respinto trasformando una guerra di colpi in una guerra di nervi. Con 3 su 12 sui break point, Zverev se ne è tornato a casa confuso, domandandosi come avesse fatto a perdere senza neanche avvicinarsi a vincere. La partita magari gli era sembrata equilibrata. Il punteggio è un trattato di economia. In semifinale Djokovic ha respinto il debuttante Karatsev con un autoritarismo spaventoso. Ha ammesso che non sentiva più dolore, gli spostamenti sul lato del rovescio, certe uscite lungolinea che non gli venivano più semplici, sono cominciate a tornare.

Quindi chi era il favorito?

Per i tifosi - presi dal wishful thinking e dalla voglia di novità - Medvedev; i bookmakers però, che le previsioni le fanno per professione, davano al russo solo il 41% di possibilità di vittoria.

Nel tennis ci siamo assuefatti alla grandezza e questa lunga premessa è per invitarvi a non dare per scontata la vittoria di Djokovic, e definire quello che abbiamo visto una semplice vittoria è riduttivo. Djokovic ha fatto sdraiare Medvedev sul lettino operatorio e lo ha smontato un pezzo dopo l’altro. Parlare di questa partita è parlare di un uomo che ha fatto soccombere l’altro fino a non farlo sembrare più lui. A fine partita Medvedev era nervoso e spaesato come un ragazzino capriccioso. Tutto il contrario della freddezza manipolatrice a cui ci ha abituato.

Una vittoria di Medvedev, del resto, avrebbe avuto un significato epocale. Lo avrebbe portato al secondo posto della classifica mondiale, ed è dal 2005 che quelle due posizioni non sono occupate da altri che da Djokovic, Murray, Federer e Nadal. Prima della partita il serbo aveva detto: «Non è ancora arrivato il momento per la nuova generazione di sorpassarci» e sembrava un richiamo d’orgoglio ma anche di paura. Da quando ha iniziato a fare risultati importanti nel circuito - cioè da quella trionfale stagione sul cemento americano nel 2019 - Djokovic ha parlato di Medvedev con una reverenza che non aveva riservato a nessuno. Ha definito un paio di volte le partite con lui «Le più difficili ed entusiasmanti degli ultimi anni». A Cincinnati Medvedev lo aveva sfondato col servizio, tirando la prima e la seconda palla sopra i duecento chilometri orari. Djokovic dopo l’aveva definito uno dei migliori tennisti al mondo, in un momento in cui era strano dirlo. Prima di questa partita, invece, ha definito Medvedev “uno scacchista”, per l’acume tattico.

Djokovic ha iniziato a temere Medvedev forse perché ci si rivedeva. Qualche anno fa Agassi disse: «Poi è arrivato Lleyton Hewitt, e se mollavi la pressione anche solo su una palla, lui veniva in avanti e prendeva il controllo dello scambio. Ecco che diventa un problema non riuscire a tenere l’avversario in difesa. Ma poi arriva qualcuno come Djokovic, che si muove molto meglio di quanto Hewitt sia mai riuscito a fare, e lui non ha neanche bisogno di prendere in mano il punto, perché riesce a vincere anche mentre sta difendendo, con un solo colpo». Medvedev, come Djokovic, non ha neanche bisogno di controllare gli scambi per ottenere dei vincenti, e per certi versi pare aver perfezionato e reso più subdola l’arte di Djokovic di assorbire l’aggressività avversaria. In più l’equilibrio tra il suo fisico e la sua elasticità è impossibile: ha il corpo da tennista bombardiere ma si muove con la rapidità di un rematore da fondo.

È strano dirlo a posteriori, ma Djokovic temeva Medvedev. È sceso in campo sapendo di dover giocare in maniera perfetta per vincere. Non doveva permettere al russo di entrare nella propria comfort zone, che significava farlo entrare in ritmo. Non c’è stato negli ultimi dieci anni un giocatore più imbattibile da fondo di lui su cemento, ma ieri sapeva di non essere forse il migliore in campo. Se avesse accettato una guerra di forza con Medvedev, forse avrebbe perso. Se avesse stuzzicato troppo certe diagonali, forse avrebbe perso. Si è messo in testa di voler giocare solo scambi blitz, cambiare il ritmo e gli effetti. Giocare una partita non da Djokovic quindi, con la massima applicazione tattica possibile.

Al primo punto ha servito un ace, il numero 101 del proprio torneo; col secondo una prima esterna che gli ha aperto il campo per il vincente longilinea di rovescio. Si è portato sul 3 a 1 con una certa fretta e vale la pena aprire una breve parentesi sul servizio di Nole. Nei primi anni della carriera era stato uno dei suoi punti deboli. Nel 2010 ha provato a fare alcune modifiche insieme al coach Todd Martin, ma invece di migliorare è peggiorato. Quell’anno accumula più doppi falli che ace, c’è un problema con l’altezza del gomito. Machar Reid, un esperto di biomeccanica, aveva comparato l’apertura del suo servizio a un lancio da cricket. Nel 2011 - l’anno della sua consacrazione - inizia a migliorare, e continua a farlo sotto la guida di Boris Becker. Col tempo ha rinunciato a un po’ di velocità per privilegiare varietà e piazzamenti. Paul Annacone aveva detto: «Ora è al sicuro a essere quello che chiamo un “servitore strategico”: colpire in ogni punto, con meno velocità e più variazioni». All’epoca Annacone aveva elogiato Djokovic per la consapevolezza dei propri limiti: «Sa che non potrà mai essere mai come Raonic, Karlovic o Isner» intendendo che non avrebbe mai potuto dominare le sue partite attraverso il servizio.

Otto anni dopo queste dichiarazioni Djokovic usa il servizio come fanno i migliori servitori: non lo usa quindi solo per indirizzare l’inerzia degli scambi ma anche per ottenere una grossa percentuale di punti diretti. Usa il servizio per uscire dai momenti complicati e per schiacciare ulteriormente l’avversario in quelli di dominio. Ha chiuso questo Australian Open al comando solitario della classifica degli ace: 103, 17 più del secondo, Zverev, 23 più di Medvedev, a cui concede dieci centimetri. E questa è la precisa differenza tra i big-3 e tutti gli altri: l'incessante capacità di migliorare e cambiare il proprio gioco girando attorno ai limiti dell'età.

In finale Nole è stato impeccabile al servizio, variando moltissimo, sfruttando al massimo la traiettoria a uscire da destra verso il dritto dell’avversario. Di fronte a uno dei migliori risponditori del circuito, è stato implacabile. Dall’altra parte Medvedev non ha mai servito in modo davvero efficace, ed è andato subito in sofferenza con la seconda palla. La percentuale di punti vinti con questa, in tutta la partita, è stata desolante: 39%, contro il 63% di Nole.

Una seconda corta su cui Nole sente l’odore del sangue. È il punto che lo porta 0-30 sul 6-5 del primo set.

I primi sei game sono stati gli unici con un po’ di partita. Djokovic ha dato a Medvedev un parziale di 12 punti a 3, subendo poi un altro di 12 punti a 3. Il russo sembrava riuscire ad allungare lo scambio come voleva, ma Djokovic è tornato subito in controllo. Appena si apriva il campo accelerava, e se non poteva addormentava lo scambio con qualche back, oppure ne usciva tagliando delle palle morte in mezzo al campo sul lato del rovescio di Medvedev; in zone ambigue, costretto a piegarsi molto, il russo era a disagio.

All’inizio del secondo e del terzo set, Djokovic ha avuto dei passaggi a vuoto che rivelavano per riflesso la grande attenzione e concentrazione giocata per vincere i game precedenti. Ma riusciva a riprendersi sempre, aprendo il campo solo quando necessario e per il resto puntando su colpi veloci e profondi. La partita è scorsa velocissima, per vedere un game finire ai vantaggi abbiamo dovuto aspettare il settimo game del secondo set. Il tempo e la sua diversa gestione è stato l’elemento fondamentale della partita. Nole mungeva tutti e venti i secondi di tempo tra un punto e l’altro, mettendo tutta la concentrazione possibile sul primo colpo. In ogni scambio era affilato, ha messo un pensiero dietro ogni singolo colpo; è impossibile giocare a tennis in modo più razionale di così. Dall’altra parte Medvedev andava di fretta, sbrigandosi tra un punto e l’altro, come se spremendo il tempo si sarebbe trovato infine al termine delle proprie difficoltà. Nel secondo set ha cominciato a sbagliare sempre di più, i pezzi del suo gioco sono crollati uno dopo l’altro. Prima il dritto, poi il servizio e infine persino il rovescio, il suo colpo migliore: non c’era più niente che funzionava (30 errori non forzati a fine match). Accanto agli errori sono comparse le racchette sbattute per terra, le braccia larghe, dei piccoli soliloqui. E più sbagliava più sembrava volere sbrigarsi. Lo avevamo conosciuto come un appuntito stratega, e lo abbiamo visto perdere in finale come un ragazzino capriccioso.

Più di ogni cosa, l’aspetto più deludente della finale di Medvedev è stata la sua incapacità a riequilibrare il contesto, rimanendo calmo e lucido nelle difficoltà. Veniva da tante partite vinte consecutive, quasi tutte in modo semplice, ed è parso impreparato alle complicazioni di una partita del genere. Dopo la partita Mats Wilander ha detto che la finale di uno slam è un altro sport, e che Medvedev avrebbe dovuto togliere più energie a Djokovic. Avrebbe dovuto allungare gli scambi, i game, lottare di più, puntare sulla propria freschezza. Invece ha lasciato che la partita andasse via velocemente, facendosi dominare tatticamente e mentalmente dal suo avversario, risultando - per paradosso - meno umile di uno dei migliori tennisti della storia.

E così, senza quasi accorgercene, Djokovic ha alzato il suo nono trofeo australiano e il diciottesimo slam. In Australia, nel 2008, in finale contro Tsonga, trovò il suo primo successo major, e da qui è ripartito con la corsa per raggiungere e superare il record Federer e Nadal. Nel discorso post-partita Djokovic ha parlato del russo con un calore inusuale, insistendo che è solo questione di tempo per la sua prima vittoria slam. Poi lo ha anche invitato ad aspettare qualche anno. Oggi Medvedev, quando è in forma, è forse già un colpitore migliore di Djokovic, ma colpire la palla e giocare a tennis, tendiamo troppo spesso a scordarcelo, sono due esercizi differenti.

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