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Nove momenti che hanno fatto grande la Milano-Sanremo
15 mar 2024
La "Classicissima" ha una storia lunga.
(articolo)
26 min
(copertina)
IMAGO / Panoramic International
(copertina) IMAGO / Panoramic International
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I luoghi nel ciclismo sono contorno ma anche identità. Contorno perché inevitabilmente in una gara di biciclette i protagonisti sono i ciclisti, tuttalpiù le squadre, alle volte gli sponsor; ma identità perché senza quel contorno la gara non esisterebbe neanche, mancherebbe il terreno su cui correre, mancherebbero gli stadi a cielo aperto in cui tifare. In alcune gare, quelle più storiche, il susseguirsi di eventi in determinati punti, in determinati luoghi, fa sì che i luoghi stessi diventino parte integrante della corsa, che prendano vita attraverso i ricordi, gli articoli di giornale, i racconti, gli aneddoti.

C’è chi dice che il finale della Milano-Sanremo sia la mezz’ora più entusiasmante dell’anno ciclistico. Forse è un po’ ingeneroso per le prime sei ore e mezza di corsa, perché forse sono proprio quelle sei ore e mezza a renderci molto emozionante il finale, perché sfiancano i corridori e costruiscono un crescendo di emozioni che arriva all’apice negli ultimi trenta minuti. In ogni caso, se questa emozione cresce, ogni anno, in quel determinato momento, è grazie alla felice soluzione che Vincenzo Torriani, all’epoca direttore di corsa, studiò per avere meno sprint di gruppo e facilitare una vittoria italiana.

La salita che porta al Poggio di Sanremo è lunga 3.7 km, ha due tratti più duri con pendenze sopra il 5%, 30 curve di cui 4 tornanti ed è seguita da una discesa di 2500 metri circa. In quel punto si concentrano le speranze di tutti. Dei velocisti che sperano di non staccarsi. E dei meno veloci che devono sperare di staccare tutti per poter vincere. Arrivati nella piazza del paese di Poggio, di fronte ad un ufficio postale, c’è una cabina telefonica posta in una curva, che simbolicamente indica l’inizio della discesa.

È così da almeno 50 anni. Da inizio anno, questa cabina telefonica è stata purtroppo dismessa, ma negli anni è stata protagonista e contorno di numerose storie. In questo articolo abbiamo scelto i nostri attacchi preferiti che hanno visto la luce proprio nei pressi di quella cabina telefonica là dove la strada che porta al Poggio di Sanremo si rituffa verso il mare.

1960-61: La doppietta francese all’esordio del Poggio

La salita del Poggio fa il suo esordio alla Milano-Sanremo nel 1960 ed è subito decisiva. Ai piedi della salita la fuga ha ancora un po’ di margine e il francese Jean Graczyk esce all’inseguimento solitario. Un’azione che avrà successo solo in parte perché il ciclista di origine polacca riuscirà a raggiungere e staccare tutti i fuggitivi tranne uno: un altro francese, René Privat, che aveva salutato i compagni di fuga proprio sulle prime rampe del Poggio e si era involato in solitaria verso il traguardo di Via Roma dove arriverà a braccia alzate.

Per gli organizzatori è una beffa. Avevano inserito il Poggio proprio per evitare - o rendere più difficili - le vittorie dei campioni stranieri, per favorire i nostri Nencini o Pambianco o chi per loro. E invece fu un francese a battezzare quello che all’epoca sui giornali veniva chiamato "il cavalcavia della speranza". La speranza di vedere Nencini trionfare però si schianta proprio su quelle rampe: l’italiano - incautamente - aveva speso molto sul Capo Berta finendo poi troppo spremuto per rispondere agli attacchi di Privat sul Poggio. «Alla prima asperità è partito di scatto Nencini, io l’ho seguito e stando alla sua ruota ho intuito che egli cedeva leggermente», racconterà poi il francese all’inviato Nino Oppio che l’aveva raggiunto di straforo nelle docce. «Allora sono passato all’attacco, ho spinto più forte e sono riuscito a staccarlo».

Dopodiché, la discesa. Anche quella è un inedito, come la relativa salita. Un elemento spesso sottovalutato ma che ha avuto nel corso della storia la sua importanza, come testimoniano le immagini recenti di Mohoric che si lancia giù per la discesa a vincere la Sanremo 2022. Tanti anni prima, anche René Privat si lancia giù verso il mare a capofitto, sentendo il fiato sul collo di Jean Graczyk in rimonta. «Mi sono buttato giù in discesa alla disperata, non c’era altro da fare; mi pareva di sentire la voce della mia bimba che mi diceva “Papà vai piano, potresti cadere”. Ma dovevo forzare per vincere». Tanto che su una curva la sua ruota posteriore slitta e va in derapata, Privat sgancia il piede dal pedale e riesce a tenersi in piedi. Meno fortunato è il suo connazionale che invece scivola, sbatte a terra e si rialza; ma Privat è ormai di nuovo lontano.

«Ho detto piano: “Cristine, stai tranquilla, ora vado più piano ma devo vincere, devo essere solo al traguardo per togliermi il berrettino davanti alle telecamere, onde tu mi possa vedere”. Ormai ero in fondo alla discesa ed eccomi qua: ho vinto».

L’anno successivo è di nuovo un ciclista francese a fare del Poggio il suo trampolino per la vittoria. Oltre alla nazionalità anche la squadra è la stessa, la Mercier-Hutchinson guidata da Antonin Magne. A vincere stavolta è un giovanotto francese alla sua prima partecipazione e che promette un gran bene. Quella a Sanremo è la prima vera grande vittoria della sua carriera, arrivata quasi per caso - per quanto possa arrivare per caso una vittoria del genere. Raymond Poulidor era infatti all’epoca la seconda punta della Mercier che contava maggiormente su Robert Cazala che però non riesce a tenere fino in fondo.

Poulidor si ritrova così davanti, con Magne a spingerlo e a guidarlo, a dirgli di tenere duro e poi di attaccare sul Poggio, come Privat. «Ho capito che dietro i grandi assi, con Van Looy alla testa, si sarebbero scatenati per raggiungermi, ma la speranza di resistere fino al traguardo mi ha moltiplicato le forze», racconta quel ragazzone che pochi anni dopo diventerà per tutti "Pou-pou". «Dopo tante prove sfortunate oggi tutto ad un tratto la fortuna mi ha assistito». Quello che non può sapere è che quella stessa fortuna, durante la sua lunga carriera, non sarà altrettanto benevola.

1969: Eddy Merckx

«A queste folle italiane sempre così generose, sempre così innamorate del ciclismo, bisogna offrire ogni tanto qualche vittoria», scriveva Ciro Verratti il giorno dopo la vittoria di Privat. Ma per una vittoria italiana bisognerà attendere altri dieci anni, perché nel mentre era sbarcato nel ciclismo "il Cannibale" Eddy Merckx capace di vincere la "Classicissima" per sette volte fra il 1966 e il 1976. La terza vittoria arriva nel 1969: è l’ultima vittoria straniera prima del trionfo di Michele Dancelli in solitaria nel 1970 che restituisce un po’ di serenità al pubblico e alla stampa di casa nostra, ormai in totale delirio “Merckx-fobico”.

Dopo la vittoria in volata, a sorpresa, del 1966 a 21 anni ancora da compiere, Merckx si ripete l’anno successivo andando via da solo lontano dal traguardo. Raggiunto da Gianni Motta, Gimondi e Bitossi, li batte tutti e tre in volata regalandoci una delle foto più belle del ciclismo di quegli anni.

Il volto di Merckx si trasforma in una strana smorfia quando capisce di aver vinto. Motta si volta a controllare Bitossi, terzo. Gimondi si è già rialzato accettando la sconfitta.

Nel 1969 quindi i campioni italiani provano a coalizzarsi contro di lui ma qualcosa va storto. Michele Dancelli prova ad andar via da lontano - un’azione che poi gli riuscirà l’anno successivo - ma dietro gli altri temono la presenza del vecchio Rik Van Looy. Gimondi e Bitossi si muovono in prima persona portando via un gruppetto inseguitore ma dentro c’è anche Eddy Merckx che rimane sornione a sfruttare il lavoro degli italiani e poi, al momento giusto - sul Poggio - mette tutto il gruppetto in fila e poi in discesa chiude il cerchio. Come per una qualche sorta di stregoneria, la bicicletta di Eddy Merckx si allontana da quelle dei suoi avversari senza che nessuno possa farci niente. Raymond Poulidor prova a tenerlo ma scivola sul brecciolino. Vittorio Adorni - che era rimasto incollato alla ruota di Eddy Merckx per tutti i quasi 300 chilometri da Milano a Sanremo - vede la sua ruota staccarsi da quella del belga centimetro dopo centimetro, che diventano metri quando la sagoma di Merckx sparisce dietro le curve e non si vedrà più. «Io che lo conosco bene quando l’ho visto 50 metri avanti a me mi son detto: “Se quello non cade, la Sanremo è finita”. Purtroppo è andata così».

Eddy Merckx arriva in trionfo a Sanremo, tagliando il traguardo a braccia alzate senza nemmeno pedalare, sicuro del suo vantaggio. Michele Dancelli è l’unico italiano a esser soddisfatto, in quel momento, felice del fatto che «quei due furbi [Gimondi e Bitossi, ndr] si sono fatti addirittura staccare nel finale».

Sui giornali italiani si riaccende la polemica: contro i campioni italiani incapaci di vincere, contro lo strapotere di Merckx che azzanna le corse senza dare scampo agli avversari. Contro gli organizzatori che dovrebbero provare a pensare qualcosa di diverso per favorire un trionfo italiano. C’è chi pensa addirittura alla “soluzione Binda”, e cioè pagare Merckx per restare a casa come fecero con Alfredo Binda al Giro d’Italia 1930. Ma anche quella è solo una provocazione, ovviamente, il cui bersaglio sono invece gli atleti italiani: Gimondi, Bitossi, Adorni, Motta, Zandegù. Tutti, chi più chi meno, colpevoli di non averci nemmeno provato e poi di accampare scuse che ormai non reggono più, dopo oltre quindici anni di digiuno.

1973: Il primo acuto di Roger De Vlaeminck

Dopo Dancelli nel 1970 e altre due vittorie di Merckx (che arriva a 5, ne vincerà altre due nel ‘75 e ‘76), la Milano-Sanremo del 1973 è senza padrone. "Il Cannibale" sta male: niente di che, probabilmente solo una leggera influenza che però lo taglia fuori per difendere il titolo a Sanremo. E allora tutto sembra apparecchiato per una grande vittoria italiana. Ma in assenza di Merckx, le altre squadre hanno paura a muoversi e chi ha un uomo veloce prova ad aspettare la volata. Si arriva compatti ai piedi del Poggio, al termine di una lunga processione di quasi trecento chilometri: una situazione che all’epoca era del tutto inusuale e che nei giorni successivi farà alzare più di qualche polemica sull’atteggiamento pigro dei corridori; oggi invece è la normalità, strano segno dei tempi.

Anche le prime rampe del Poggio scorrono piuttosto tranquille: la Bianchi vuole portare in volata Marino Basso e quindi tiene Gimondi al suo fianco a controllare la situazione e fare da stopper su eventuali attacchi. Attacchi che però non arrivano e il gruppo continua la sua marcia fin quasi in cima al Poggio. Ed è lì, dove la strada si stringe fra i palazzi prima di aprirsi verso il mare, esattamente davanti alla cabina telefonica, che una figura filiforme prova ad allungare timidamente il gruppo. È la miccia che il pubblico aspettava, e non solo. Wilmo Francioni è il primo a muoversi ma immediatamente una maglia della Brooklyn - blu sul petto con le strisce bianco-rosse in basso a imitare la bandiera americana - compare per un attimo alla sua ruota e poi sguscia via di lato.

Lo scatto di Roger De Vlaeminck è chirurgico, di quelli che non rimangono nella mente delle persone ma nelle gambe degli avversari. Il belga sa che gli bastano pochi metri per poter andar via e se li prende così in cima, quando tutti erano ormai rassegnati alla volata. Guida la bici giù per la discesa con l’eleganza di un maggiordomo, le ruote sfiorano le canaline a bordo strada prima di puntare con decisione alla prossima curva. De Vlaeminck ha dalla sua l’esperienza nel ciclocross che gli ha lasciato la tecnica per lasciar andare la bici in condizioni in cui gli altri tirerebbero i freni.

In fondo alla discesa finalmente rallenta un attimo per guardarsi intorno. Dietro di lui c’è ancora Wilmo Francioni, aggrappato alla sua bicicletta come avesse visto la morte in faccia. Dietro di loro non c’è nessuno. In lontananza sbuca il gruppo, un grosso pachiderma che si muove goffamente fra le strade di Sanremo. Gimondi intuisce e parte da solo, tradendo le strategie di squadra e mollando lì Marino Basso a vedersela per conto suo. Francioni e De Vlaeminck allora spingono con ancor più veemenza per tenere a debita distanza il bergamasco della Bianchi: il belga dà la prima tirata, poi si mette a ruota di Francioni che spinge a testa bassa mentre De Vlaeminck si volta continuamente a controllare la furia di Gimondi che sembra mangiar loro un paio di metri a ogni pedalata.

Quando Gimondi è ormai a meno di una cinquantina di metri dalla coppia di testa, De Vlaeminck scatta secco sulla sinistra e lancia una volata lunghissima. Francioni non riesce a tenerlo e il belga va via da solo. Gimondi prova a rimontare ma De Vlaeminck tira dritto per tutti quegli ultimi lunghissimi 400 metri finali e solo dopo aver visto la sua ruota anteriore superare la linea d’arrivo tira su la testa e alza le braccia al cielo.

È la prima vittoria alla Milano-Sanremo per Roger De Vlaeminck, probabilmente il più grande interprete delle corse di un giorno della storia di questo sport. A chi gli chiede se la sua vittoria in qualche modo vale di meno vista l’assenza di Merckx, lui risponde secco: «No, perché oggi avrei battuto anche Merckx. Io batto sempre Merckx».

1983: La fucilata di Saronni

Il rapporto fra Giuseppe Saronni e la Milano-Sanremo è una di quelle storie d’amore travagliate che ci si aspetta non finiscano mai o forse, peggio, che finiscano senza che quell’amore riesca mai a venire a galla sopra alle difficoltà della vita.

Per Saronni quella sembra una corsa cucita apposta per lui: lunga ma non sfiancante, con un finale duro ma non impossibile. Il Poggio, poi, è davvero il trampolino perfetto, un palcoscenico costruito su misura per mettere in mostra la sua celebre fucilata. Eppure, in questa storia d’amore i due amanti si sfiorano soltanto, a lungo e da vicino, senza mai riuscire a incontrarsi davvero. Accade per ben due volte nel 1978 e nel 1979, quando è l’eterno Roger De Vlaeminck a spezzare la magia; Saronni si sbraccia, sgomita e attacca a ripetizione. A Imperia per portare via un drappello e poi di nuovo sul Poggio per piazzare la zampata finale, la fucilata decisiva. Ma ogni volta che davanti a sé compare la cabina telefonica nella piazzetta che segna l’inizio della discesa, dietro di sé compare come un incubo la sagoma di Roger De Vlaeminck, chino sul suo manubrio, impassibile.

Le due volate, diverse per situazione e svolgimento tattico, hanno però lo stesso esito: primo De Vlaeminck, secondo Saronni. Ancora nel 1980 Saronni attacca e ancora De Vlaeminck gli sta addosso. Stavolta però il belga non ha lo spunto dei giorni migliori - ha quasi 33 anni - e per una volta Saronni gli arriva nettamente davanti. Ma a mettersi fra lui e la Sanremo stavolta ci pensa Pierino Gavazzi. Nel 1981, poi, scoppia proprio lungo le strade della Milano-Sanremo una lite che divamperà negli anni successivi in una rivalità sportiva - e non solo - con Francesco Moser; ne approfitta così il belga De Wolf che vince in solitaria.

Il 1983 arriva quindi dopo tre piazzamenti di fila al secondo posto, dal 1978 al 1980, e il flop del 1981. Ma soprattutto dopo il trionfo nel Mondiale di Goodwood del 1982, quello che rese immortale la fucilata di Saronni. Con la maglia iridata addosso, Saronni è determinato a riscattare i suoi fallimenti nella corsa che finora l’ha sempre respinto. Ma anche quel giorno di marzo la situazione sembra sfuggirgli di mano: nella discesa della Cipressa Francesco Moser fa il diavolo a quattro e porta via un drappello di quattordici uomini. Ci sono i grandi favoriti, Saronni compreso. Il drappello va via di comune accordo fino all’attacco dello spagnolo Fernandez e del francese Bittinger. I due si avvantaggiano mentre dietro ci si studia, nessuno vuole fare la prima mossa, prendere l’iniziativa rischiando di fare la figura del fesso. Tutti guardano i due rivali, Moser e Saronni, in attesa che uno dei due faccia qualcosa.

La coppia al comando allunga ancora ed è lì che Saronni capisce che è arrivato il momento di prendersi la scena. Si alza sui pedali, splendente nella sua maglia iridata, e parte con forza sulle rampe del Poggio. In quelli che sembrano solo pochi istanti, il campione del mondo riprende Fernandez e Bittinger e li lascia sul posto senza neanche voltarsi a guardarli. Procede senza voltarsi in piedi sui pedali, con le moto che lo prendono d’assalto per immortalare quel momento in uno scatto rubato.

Saronni arriva in cima da solo, stavolta mentre passa accanto alla cabina telefonica non ha nessuno che incombe alle sue spalle. Si butta in discesa senza forzare, sa di avere un buon margine e che dietro tutti aspetteranno che vada Moser all’inseguimento. Moser però lascerà fare, non è disposto a sacrificarsi per poi farsi fregare da qualcun altro; se deve scegliere, che vinca Saronni: «Non era compito mio inseguirlo», dirà al traguardo. E a spegnere sul nascere le polemiche ci pensa poi Jan Raas con la sua consueta glacialità olandese: «Forse è meglio parlare di un certo Saronni che ci ha giocato tutti, che ha vinto alla grande da campione del mondo».

1988: Il Poggio di Laurent Fignon

All’interno dell’autobiografia Eravamo Giovani e Incoscienti (tradotto in italiano da Mulatero Editore per la collana Pagine AlVento) Laurent Fignon dedica alla Milano Sanremo del 1988 un intero capitolo intitolato “Un urlo selvaggio”. L’urlo è il suo, dopo la vittoria della sua prima Milano Sanremo e parte da lontano. Da molto più lontano del Poggio.

La Milano Sanremo del 1988 per Laurent Fignon parte una settimana prima, con la tecnica di allenamento, per l’epoca innovativa, definita “supercompensazione”. L’idea alla base è che un lungo allenamento estenuante 72 ore prima della competizione bruci ogni riserva di energia presente nel corpo e che questo provochi una accelerazione nell’organismo che compensi questo squilibrio nelle 48 ore successive. Con il picco proprio durante le ore di competizione.

Ma non c’è solo l’allenamento. Fignon stesso nel libro cita la simbiosi necessaria tra le forze del corpo e quelle della mente.

Possiamo dire quindi che la Milano Sanremo di Laurent Fignon parta ancora prima dell’ultima settimana, da quando il suo massaggiatore, Alain Gallopin, lo convince di essere adatto alla vittoria in una corsa come la Sanremo. Una corsa lunga, per uomini resistenti ma che sappiano attaccare nel finale e non abbiano paura a farlo.

La corsa scorre tranquilla, Fignon scriverà di non sentire fatica nella pancia del gruppo, ma di sentire lo stress di non essere davanti al gruppo. Si confida con Kelly, suo amico ma non compagno di squadra, e gli dice che attaccherà sul Poggio e che se dovesse andare male lo aiuterà nello sprint. Sulla Cipressa è davanti, si riconosce con il suo nuovo codino, quello che gli aveva attirato qualche antipatica battuta nelle gare di inizio stagione. Poi prima del Poggio, Kelly lo guarda, gli parla, gli dice che è il momento di risalire il gruppo ristretto che si era venuto a creare. Fignon dice che in quel momento seguire la ruota di Kelly l’ha salvato. Senza quell’aiuto probabilmente non sarebbe riuscito a confrontarsi con gli olandesi della PDM. Poi parte il Poggio, affrontato a tutta, Fignon non “sente la catena”, non sente dolore nelle gambe nonostante lo sforzo. Parte con il 53x15 in una delle parti più difficili. Nessuno riesce a stargli a ruota. Solo Fondriest rinviene su di lui quando mancano poche centinaia di metri alla sommità del Poggio. Fondriest è un giovane di 23 anni e Fignon gioca con la sua minore esperienza lungo la discesa. Prende male qualche curva, il commentatore lo sottolinea, lui scriverà nella sua autobiografia di averlo fatto apposta. Dopo la discesa del Poggio, il rettilineo finale li aspetta.

Fignon parte da dietro, lunghissimo. Fondriest tiene ma negli ultimi 100 metri crolla. Fignon può liberare il suo urlo selvaggio. La Milano Sanremo è sua, ma non solo. Sul podio pensa che sia proprio un peccato non essere arrivato in solitaria sul traguardo e si accorge di aver ritrovato lo spirito che l’aveva accompagnato e guidato negli anni migliori della sua carriera. A Sanremo tornerà, da vincitore, in solitaria, l’anno successivo.

1991: Il trionfo di Chiappucci

Quando Claudio Chiappucci parte sul Poggio, sublima una giornata che vista con gli occhi di oggi verrebbe la tentazione di definire impossibile. «Impossibile no, anche ai miei tempi dicevano che fosse impossibile ma io l’ho fatto», dice un Chiappucci sorridente ai microfoni del podcast spagnolo A la Cola del Peloton durante il lockdown del 2020, spiegando la sua azione partita dal Turchino.

Chiappucci e la sua giornata all’attacco fin dal Turchino sembra la versione ciclistica della frase motivazionale sul paradosso dei calabroni che non avrebbero la conformazione per poter volare ma lo fanno lo stesso. E Chiappucci questo paradosso l’ha indossato e incarnato buona parte della sua carriera, con attacchi apparentemente fuori da ogni logica umanamente concepita.

Quel 23 marzo 1991 piove, fa freddo, tira vento e Chiappucci decide di attaccare, tra lo stupore generale. Il suo compagno di squadra Bontempi marca il ritmo, Sorensen, Lejarreta, Mottet, Marie, Adrie van der Poel, Nijdam, Stevenhagen lo seguono. Davanti ci sono i fuggitivi di giornata Zanini e Dezzani. Capo dopo Capo rimangono sempre di meno davanti, lo lasciano andare o meglio si staccano ai suoi colpi di pedale. Solo Sorensen resiste e procede con lui. Sulla Cipressa l’ennesimo incontro con la realtà. Sorensen dimostra qualche segno di cedimento, il gruppo si avvicina, ma Chiappucci da uomo di fuga sa che la sua sorte è legata a quella del danese. Sa che senza di lui non riuscirebbe ad arrivare da solo al traguardo.

Infine il Poggio. Chiappucci sa che deve provare a staccare il danese, teoricamente più veloce di lui allo sprint. Imbocca la salita in seconda posizione ma dopo poche centinaia di metri si mette subito davanti. Ha una pedalata più fluida del danese che è costretto fin da subito a cambiare su un rapporto più leggero. Dopo un tornante Sorensen si mette davanti, ma per poco, pochissimo. Le immagini tv dell’epoca si perdono l’attacco di Chiappucci per riprendere il gruppo sulle prime rampe ma la voce di Adriano De Zan si fa più acuta: «Torniamo in testa, scatto di Chiappucci, CHIAPPUCCI è partito, Chiappucci si invola, 6 km dalla conclusione, il previsto attacco di Claudio Chiappucci avviene sugli ultimi tornanti della Milano Sanremo». Chiappucci pedala bene, pur muovendosi con le spalle, con un lungo rapporto e non si guarda indietro.

Sul lungo falsopiano finale De Zan dà la parola a Candido Cannavò (storico direttore della Gazzetta dello Sport) letteralmente in estasi: «Tu mi inviti a nozze, perché io deliro per questo. Perché io credo che un corridore come Chiappucci, a prescindere da ogni considerazione di carattere tecnico, che la lascio a chi ne capisce più di me, è un patrimonio immenso per il ciclismo. Un Chiappucci è quello che dà la vita, l’anima del ciclismo. Proprio per quel suo essere fuori. Per essere uno splendido anarchico che dà alle corse quegli stimoli, quelle emozioni che stiamo vivendo qui. L’anno scorso spingevamo Bugno con gli occhi e oggi spingiamo lui, sperando che arrivi dove è arrivato Bugno l’anno scorso. A questo punto, con tutta cautela, abbiamo il diritto ad avere una grande speranza».

Una splendida discesa di Chiappucci, trasforma il diritto di sperare nella gioia di crederci, vincendo in solitaria.

2006: «Il momento più bello della mia vita»

Franck Schleck con la maglia di campione lussemburghese parte all’inizio del Poggio. Una azione che difficilmente porta ai risultati sperati ma che alle volte, preso dall’eccitazione del momento, qualcuno fa. Guadagna qualche manciata di secondi e il gruppo guidato dalla Rabobank sembra controllare. Verso la seconda metà della salita, sulla sinistra si vede risalire il gruppo Alessandro Ballan in maglia Lampre, seguito da Pozzato. Ballan arriva fin nelle prime posizioni, poi rallenta, guarda alla sua destra Alessandro Petacchi, a ruota del campione del mondo in carica Tom Boonen, e scatta. Scatta deciso, Ballan. E Pozzato, compagno di squadra di Boonen, salta subito sulla sua ruota. Boonen ci prova ma si siede poco dopo. Poi escono anche gli spagnoli Astarloa e Samuel Sanchez che provano a raggiungere la coppia veneta all’attacco.

Pozzato non dà nemmeno un cambio a Ballan. Gli sta sempre appiccicato alla ruota ma non prende un secondo in più di aria in faccia rispetto a quella che gli arriva filtrata da Ballan. D’altra parte dietro di lui ci sono i suoi compagni di squadra e capitani Tom Boonen e Paolo Bettini, perché dovrebbe? Scollinano con circa 10 secondi di vantaggio. In discesa vengono raggiunti anche da Astarloa, Nocentini e Schleck. In seguito li raggiunge anche Sanchez. Si può arrivare, non è impossibile, ma servirebbe una buona collaborazione. Dietro, Petacchi ha solo un uomo con sé.

Una volta rientrati sulla via Aurelia, il gruppetto ristretto di attaccanti inizia a guardarsi, la collaborazione non c’è. Si susseguono attacchi, piuttosto sterili e all’apparenza piuttosto isterici: dettati dalla paura di perdere più che dalla voglia di vincere. Si entra nell’ultimo chilometro, curva a sinistra, Auro Bulbarelli telecronista della Rai esclama ridendo: «Uno dei finali più belli della storia della Milano Sanremo, gentili telespettatori».

Poi curva a destra e si imbocca Via Roma. Il gruppo riprende gli attaccanti e Pozzato è in testa, si gira indietro a controllare guardando oltre la sua spalla sinistra. Dall’altro lato della strada parte Nocentini con lo scatto della disperazione e dello sconforto mista a voglia di non arrendersi e Pozzato gli va subito dietro. Poi continua. Se ne va. Va da solo, Pozzato. Non guarda in faccia nessuno. Dietro di lui parte lo sprint ma Pozzato li ha fregati. Continua a mulinare seduto sul sellino, mentre dietro si dimenano. Ha anche il tempo di alzare le braccia al cielo sul traguardo. Dietro di lui Petacchi secondo si dispera. Boonen esulta.

Il sogno del bambino Filippo che diventa realtà. Assaltato da stampa e fotografi un emozionato Pozzato dichiara: «Penso che sia il momento più bello della mia vita».

Qualche anno dopo, intervistato dalla tv olandese sotto una serra del Poggio in mezzo ai famosi fiori di Sanremo, Pozzato dice che: «La Sanremo è molto difficile da interpretare perché è facilissima come corsa ma è difficile da vincere, perché ci sono 50 corridori che possono farlo».

È un concetto che nel tempo è stato ripetuto talmente tante volte da venire percepito come una banalità oggi. Rimane il fatto che la Milano-Sanremo è una gara dove contano le gambe e la fortuna ma anche l’astuzia. Il cercare un attacco, un momento, un punto preciso che risulti inaspettato per tutti gli altri e poterne trarre vantaggio. Pozzato l’ha trovato a Via Roma. A poco più di quattrocento metri dall’arrivo.

17-18-19: il Poggio torna ad essere decisivo

Peter Sagan nel 2017 è la rappresentazione ciclistica di una divinità. Ha vinto gli ultimi due Mondiali con un’autorità semplicemente imbarazzante per gli avversari ma soprattutto è amato da tutto il mondo delle due ruote con ardente passione. E quando dico tutto il mondo intendo proprio chiunque: appassionati vecchi e nuovi, giornalisti vecchi e nuovi, compagni in gruppo vecchi e nuovi.

C’era il suo stile disincantato ma anche la sua naturale volontà di dare spettacolo. Di fare lo show, di intrattenere. Di togliere una certa patina di vecchio che aleggiava sul mondo del ciclismo. Con Sagan si inizia a pensare di nuovo che il Poggio possa essere il teatro delle grandi imprese alla Sanremo e in effetti nel 2017 così è. Parte nell'ultimo punto più duro dove poter fare la differenza e si porta con sé un Kwiatkowski galvanizzato dalla recente vittoria alla Strade Bianche, oltre a un giovane Julian Alaphilippe. Nibali prova a stargli a ruota ma deve mollare. Il finale sembra scritto: Sagan vincerà. E invece all’imbocco di Via Roma, Kwiato gli lascia un buco di qualche metro e Sagan parte da lontanissimo. Si dovrà accontentare del secondo posto, quasi al fotofinish.

In conferenza stampa il polacco dirà che conoscendo molto bene Sagan fin da giovane sapeva che, se gli avesse lasciato quel piccolo spazio, sarebbe partito troppo presto e che avrebbe potuto batterlo. Allo stesso tempo sapeva che non dargli neanche un cambio nel tragitto tra la fine della discesa e l’imbocco di Via Roma l’avrebbe innervosito, ma in fondo era giusto così. Era la sua possibilità per batterlo e andava costruita pensando che se fossero stati ripresi ci sarebbe stato il suo compagno Elia Viviani a disputare la volata.

L’anno successivo, più o meno nello stesso punto, ci prova il lettone Neilands e Vincenzo Nibali non solo non sta a guardare ma rilancia. Fa il vuoto nel falsopiano e in discesa allunga. Nel frattempo in gruppo si aspetta la mossa di Sagan ma il tre volte campione del mondo non si muove. Il boato di Via Roma nel veder arrivare lo “Squalo dello Stretto” in solitaria è un rumore che difficilmente dimenticherò.

Curioso notare come ad adottare una simile strategia nel 2019 fu Julian Alaphilippe. Ormai non più lo sbarbato Julian del 2017 ma con il pizzetto alla d'Artagnan. Con una stoccata si porta via un drappello di gente molto forte, alcuni molto più veloci di lui, tra cui Sagan. Li beffa con uno sprint lungo, calibrato alla perfezione. Dietro di lui Sagan, imbottigliato nel traffico, non riesce a trovare il colpo di pedale giusto e arriva quarto. Ancora una volta beffato.

Tre anni di fila, dal 2017 al 2019, con azioni molto simili, con gli stessi interpreti cambiati leggermente nel tempo e dal tempo, con ambizioni diverse ma soprattutto con un’idea in testa: battere Peter Sagan. In tutti i tre i casi missione riuscita.

2022: la discesa di Mohorič

La discesa del Poggio di Mohorič nel 2022 viene da subito descritta come una follia, come spesso succede quando vediamo accadere davanti ai nostri occhi qualcosa al di fuori dagli schemi, che riusciamo a spiegarci con molta difficoltà.

Poi c’è l’arrivo in solitaria, Mohorič che prima di esultare indica il sellino e iniziano ad uscire alcune spiegazioni. La prima, più evidente, indicata da Mohorič e dalla sua squadra è il reggisella telescopico. Uno strumento tecnologico utilizzato principalmente nel mondo offroad che permette di modificare l’altezza della sella e rendere più aerodinamica la posizione; e al tempo stesso, aumentando il peso sul posteriore, aumentare la stabilità. Uno strumento provato da mesi in allenamento, anche sul Poggio.

E qui si collega la seconda spiegazione, spiegata in conferenza stampa e in interviste successive: l’ossessiva ricerca dell’assetto migliore per affrontare la discesa. Giorni di sali e scendi dal Poggio, anche consecutivi. A GCN Italia, Mohorič ha dichiarato che nelle settimane precedenti alla corsa in una giornata è arrivato a ripetere fino a 13 volte salita e discesa del Poggio. Oltre a mesi di ricerca invernale in automobile per memorizzare la discesa: un lavoro enorme.

La terza spiegazione, anche questa emersa in più interviste successive, riguarda la pretattica il giorno di gara. Il suo sellino non è passato inosservato nel gruppo e qualcuno ha iniziato a fargli domande, tra cui il suo amico Tadej Pogačar. Mohorič non ha nascosto il suo piano, anzi. Ha rincarato la dose. Prima chiedendo al suo ex compagno di squadra Formolo se fosse a conoscenza di ospedali nella zona; poi andando dallo stesso Pogačar con un monito: «Non mi seguire nella discesa del Poggio».

Si dice che quando si ha un piano sia meglio dichiararlo, perché questo ci stimolerà a portarlo a compimento. Forse Mohorič ha assorbito questa credenza un po' troppo seriamente. In ogni caso, utilizzare questo stratagemma in gara, contro tuoi avversari, per quanto amici, è ancora più impressionante. Ma il suo obiettivo, come spiegato dopo, era impressionarli. Spaventarli, anche. Insomma provare un piccolo bluff supportato da una strategia studiata per essere sicuro al 100% del risultato.

E così è. Certo, non senza difficoltà. Dopo il primo strappo molto forte, guardando indietro finisce nella canalina di scolo a bordo strada. Nella curva finale prende una imbarcata che avrebbe spaventato anche il più stoico. Infine il rilancio verso Via Roma, la gioia di un piano ben studiato ed eseguito ancora meglio. Il successo.

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