
Quando Andrea Bargnani si è ritirato, nel 2017 (ufficiosamente nel 2018, con un post su Facebook da Hong Kong), il pubblico italiano chiedeva perché. Non voleva capire cosa l'avesse fatto sentire al capolinea, a 32 anni, con il talento che conosciamo e un fisico "in buone condizioni", come spiegava ai tempi lo stesso Bargnani. C’era chi pensava avesse ancora troppo da dare al basket per lasciare, chi sperava in un ultimo giro sulla giostra nel campionato italiano, e chi semplicemente era lì per recriminargli qualcosa, un’altra volta.
Il Mago rispondeva, al di là delle parole esatte scelte per l'occasione: perché no? Spiegava in poche righe che dietro alla scelta di non accettare nessuna offerta e non cercare una nuova squadra c’erano motivi personali. E cosa più importante, almeno in teoria, lasciava intendere di essere assolutamente in pace con sé stesso.
Di solito è il contrario: atleti che lottano contro l'usura fisica e il tempo, giornalisti e tifosi che fanno ipotesi sul ritiro. Con Bargnani però le contraddizioni sono sempre state all'ordine del giorno, a partire dal suo modo di stare in campo e di rapportarsi con media e pubblico. O meglio, nel suo non rivolgersi, non interessarsi e - parole sue - “non cagare proprio nessuno” del mondo esterno. Ha vissuto con distacco l'assedio mediatico cui è stato sottoposto per anni, che ha gestito nell'unico modo possibile, almeno per lui: ignorandolo.
Negli anni prima dell’NBA Draft 2006, lo abbiamo visto sbocciare nei palazzetti italiani, tra Roma e Treviso. E poi volare in Canada, a Toronto, dove ha iniziato la sua decennale carriera oltreoceano, conclusa con le maglie di New York e Brooklyn. Tornato dagli States, prima del ritiro, c’è stato spazio per un’ultima breve (e strana) parentesi nel campionato spagnolo, al Baskonia. E nel frattempo, ovviamente, lo abbiamo visto anche con la Nazionale italiana, 73 volte (non abbastanza, figurarsi, per i suoi detrattori).
Si potrebbe dire tanto di ciò che è stato e ha rappresentato lungo questo percorso: il primo europeo chiamato con la numero uno al Draft, il primo italiano con un ruolo da protagonista oltreoceano, un vero e proprio antesignano dello "stretch five" moderno; e ancora, con qualche numero: un talento da quasi 15 punti a partita e 8.000 punti totali in dieci anni di NBA, durante i quali gli sono stati corrisposti circa 70 milioni di dollari. Eppure, di Bargnani si tende a parlare, un po' da sempre, per quello che non ha dato: emozioni, intimità, trasparenza; per ciò che non è stato: un buon difensore, rimbalzista, agonista, e tutte le altre (legittime) aspettative per una prima scelta al Draft; infine, per quanto non ha rappresentato: un “giocatore-franchigia” in NBA e un leader in Nazionale, nonostante il talento che aveva nelle mani, di cui tutte queste medaglie ci sembravano, all'inizio, una fisiologica estensione.
Neanche il ritiro ha interrotto questo loop. Anche dopo aver smesso di giocare, infatti, c’è chi gli rimprovera di essersi allontanato troppo dalla scena. I media gli chiedono sempre che fine abbia fatto, perché non si faccia vedere e sentire. In una recente intervista per il Corriera della Sera, ad esempio, la prima domanda era “perché la scelta di restare spesso defilato?”. Come se stare perennemente sotto i riflettori sia scontato e quasi dovuto per chi, a detta della critica, non ha restituito abbastanza di quella luce. E come se sotto quei riflettori Andrea Bargnani avesse mai mostrato di essere nel suo habitat naturale, o di starci volentieri.
Tanti ti chiedono perché dopo il tuo ritiro dal basket “sei sparito”, “ti fai vedere così poco”. Ma è così importante?
Ma io non capisco neanche perché si dica che “sono sparito”. Dove dovrei stare, di preciso? I social non li uso, non li ho mai usati, neanche quando giocavo, da quel punto di vista non è cambiato niente. Non ho mai ben capito cosa ci si aspetti, dove dovrei “apparire”. Forse il punto è che non amo le interviste, ne faccio raramente; non perché voglio fare il fenomeno, ma perché semplicemente non ne ho molta voglia e mi annoio a rispondere alle stesse domande di sempre: perché mi chiamavano “Mago”, com’è stare in NBA, cose del genere. E poi, mi sembra che ormai siamo un popolo di intervistati: si intervista chiunque, ovunque, fin troppo. Diciamo che non sono mai stato un fan delle interviste.
E “apparire” nel mondo della pallacanestro, in nuove vesti, è una cosa che hai mai valutato dopo il ritiro?
Lavorare nel mondo del basket americano sarebbe stato sicuramente figo. Non per forza nell’area tecnica, ma anche in altri ambiti che ho approfondito nei miei studi universitari: l'amministrazione aziendale, il marketing, cose di questo tipo. Il problema è che io non voglio vivere negli Stati Uniti, e lavorare nel mondo NBA stando a Roma o Milano chiaramente è impossibile.
Se ti parlo di lavorare nel mondo del basket, comunque, il tuo pensiero vola diretto oltreoceano. E se invece si presentasse un’occasione nel basket italiano?
Per come ho avuto modo di conoscerla, penso che la struttura del sistema americano sia molto stimolante, sotto tutti i punti di vista. E poi, io sono praticamente cresciuto lì, ci ho vissuto per tanti anni: mi sento molto più americano che italiano, in questo. Detto ciò, nel momento in cui si presentasse un progetto interessante in Italia, ci penserei di sicuro. Il basket è uno degli amori più grandi della mia vita, quindi se ci fosse qualcosa di stimolante e costruttivo per il mio percorso, e in cui posso dare un contributo concreto al movimento, valuterei l’occasione.
Ogni volta che parli del tuo amore per il gioco, c’è chi storce il naso. Come se fosse impossibile credere che a te il basket piaccia davvero.
Ne sono cosciente, sì. Quello che posso rispondere per certo è molto semplice, e cioè che la pallacanestro è una delle mie più grandi passioni, e di sicuro quella a cui ho dedicato più tempo di tutte, essendo stato il mio lavoro per tanti anni. Anche volendo, il tempo che ho dedicato al basket difficilmente potrà essere raggiunto da altri interessi.
Eppure, parlando della tua carriera si dice spesso che sia stata condizionata dalla tua scarsa passione per il gioco.
L’ho letto e sentito dire tante volte, so bene di cosa parli. Ti spiego il mio punto di vista, che è abbastanza pragmatico, e parto da una premessa fondamentale: oggi contano molto più il percepito e l'immagine, che la sostanza. È un dato di fatto, e succede in tantissimi settori: ci sono aziende che vanno avanti con prodotti pessimi rispetto ad altri solo per ragioni di marketing, packaging, branding. Ecco, su di me sono state dette e si dicono tante cose, molte delle quali superficiali, basate solo sul percepito. Voglio dire, come fa uno a giudicare la passione di un atleta con cui non ha mai parlato, con cui non ha mai condiviso niente? Non si può, non ha senso.
E come si è creata questa narrativa?
Nel mondo in cui viviamo si può decidere a tavolino l’immagine di se stessi che si vuole trasmettere. Basta fare qualche scelta comunicativa, pagare delle persone che lavorano tutti i giorni per portarla avanti - social media manager, ufficio stampa, agenzie - e ci si “vende” al pubblico come si vuole. Io questo però non l’ho mai fatto, pur avendone le possibilità economiche. Mi sarebbe bastato creare un team di dieci persone e lasciare a loro il compito di raccontare le mie passioni e la mia personalità, ma è una cosa che non ho mai sentito mia.
Rifaresti tutto allo stesso modo?
Non lo so, a volte penso che sarebbe stato meglio, forse, dedicarmi un po’ di più alla comunicazione con il pubblico. Io ho gestito male alcune cose a livello PR e media, questo di sicuro. E se quando ho iniziato era un aspetto di relativa importanza, oggi vedo che è diventata una componente di questo lavoro che può portare dei vantaggi anche dal punto di vista professionale.
Anche mentre giocavi, comunque, non hai mai lasciato trasparire molto a livello emozionale.
Questa infatti è la seconda parte del discorso. In campo non sono mai stato un giocatore molto espansivo: non mi sono mai battuto i pugni sul petto, non sono uno da gesti plateali. E alla fine, per tutti questi motivi, si è creata l’impressione che non fossi così coinvolto nel gioco, che il basket non mi piacesse. Ma sono commenti superficiali, fatti alla cieca.
Da fuori sembra che ti abbiano infastidito il giusto, però. È davvero così?
Beh, il bello e il brutto di essere così esposti è che quello che si dice finisce su La Gazzetta dello Sport, USA Today, e via dicendo. Quindi viene letto da tante persone. Però sono commenti scritti da gente con cui non ho mai parlato, a cui magari posso stare sul c**** per questo o quel motivo, ma che comunque non mi conosce. E io sono uno molto attento a ciò che dicono le persone vicino a me, che mi conoscono. Il loro parere è importante, sempre. A chi è fuori dal cerchio della mia vita, invece, mi sono abituato a non dare retta, a non farmi influenzare.
Sei nato così impermeabile, o lo sei diventato?
Un po’ è carattere, ma penso sia soprattutto una cosa che ho imparato nel tempo. E che sia stato un meccanismo di autodifesa, facendo questo percorso ed essendo su tutti i giornali da quando ho diciotto anni. Voglio dire, quando senti parlare così tanto di te, e così presto, non puoi andare dietro a tutto, altrimenti perdi la testa. Ed è per questo, credo, che poi ho sviluppato l’istinto a non cagare nessuno, a prescindere. O almeno, a scrollarmi subito di dosso le cose che leggevo e mi facevano incazzare.
Anche perché i media e il pubblico hanno sempre avuto la tendenza a evidenziare tutte le cose che non sei, o non sei stato.
Sì, e si torna al discorso del percepito, dell’immagine.
Avresti meritato un trattamento diverso?
Mi avrebbe fatto piacere essere circondato da una narrativa diversa, questo sì. Più aderente alla realtà dei fatti, o semplicemente guardando di più le cose oggettive - l’essere in NBA, da prima opzione della mia squadra, con 20 punti di media - e meno l’idea che si aveva di me. Ovviamente mi avrebbe fatto piacere, sarei ipocrita a dire il contrario, ma allo stesso tempo so di non essere stato bravo ad aiutarmi in questo senso. Come dicevo prima, avrei potuto fare meglio come comunicazione, ma è andata così, pazienza. Non passo i miei giorni a rimuginarci, anzi, per carattere sono uno che guarda sempre avanti, alle cose che ci sono da fare oggi e domani. Non mi fermo più di tanto sulle cose passate - sia quelle positive, che non ho mai festeggiato in chissà che modo, sia quelle negative, per cui non mi demoralizzo.
Roberto Castellano, tuo allenatore a Roma, ha detto in un’intervista del 2018: “Con Bargnani il mio lavoro è riuscito a metà, perché io voglio formare anche degli uomini, non solo dei giocatori, e dal punto di vista umano con lui credo di aver fallito”. Perché l’ha detto, e com'è oggi il vostro rapporto?
Questa non me l’aspettavo proprio… non mi avevano mai tirato fuori quell’intervista. Allora, con Castellano non ho rapporti da quando sono andato a Treviso, e ormai parliamo di dinamiche abbastanza lontane nel tempo. Sarebbe un discorso lungo e complesso, che oggi avrebbe poco senso. Quello che ti posso dire per certo è che gli sono molto riconoscente per quello che ha fatto per me, e lo sarò sempre. Direi che è stato l’allenatore più importante che ho avuto, è stato fondamentale per la mia crescita. Sulla questione umana, però, penso una cosa: non sono gli allenatori che formano gli uomini, sono i genitori, e a me non serviva essere formato come uomo. Come giocatore sì, ed è quello che Castellano ha fatto, e molto bene.
Prima parlavamo di rimpianti. Tutti cercano di tirartene fuori qualcuno, e tu rispondi sempre di non averne. È davvero così?
Non so, forse è solo che “rimpianti” è una parola che non mi piace. E che non mi rispecchia proprio: mi fa pensare a uno che sta lì, triste, si mette a parlare con l'amico, dicendo “avrei dovuto far questo”, “non dovevo dire quello”, “peccato che non l'ho mai fatto in vita mia”, cose così. Il rimpianto è una cosa del passato a cui guardi con malinconia, con tristezza, e non è il mio caso. Poi, certo, ripercorrendo la mia carriera so di aver commesso degli errori. Non è che ho sempre fatto tutto benissimo, sarei scemo se lo pensassi. Ci sono tante scelte che ho sbagliato.
Hai parlato dell’extra-basket. E come giocatore NBA, invece?
Potrei dirti che un po’ rimpiango di non aver fatto di più per restare ai Raptors, per provare a giocare lì tutta la carriera. A un certo punto c’è stata una rottura con la società, e in quel momento ho spinto per andare via. A posteriori credo che sarebbe stato bello restare, ma non ci penso con tristezza o rammarico. Anzi, guardo agli anni a Toronto in maniera stra-positiva: con alti e bassi ovviamente, con anche qualche scazzo e dinamica particolare, ma di Toronto ero e sono innamorato.
La scelta peggiore che hai preso?
L’errore che mi viene in mente per primo è quando sono andato via da New York. Ero free agent, e oltre all'offerta di Brooklyn avevo quella di Sacramento e un'altra che non ricordo. Venivo da tanti infortuni, non ero un nome caldissimo… diciamo che la mia unica free agency non è capitata in un momento favorevole, ma pazienza. Avevo comunque diverse opzioni, e non ho fatto la scelta migliore per la mia carriera. Anzi, l’ho proprio cannata, poco da dire.
Raccontaci di più.
I Kings mi offrivano il quadruplo dei soldi e il posto in quintetto, mentre ai Nets sapevo che sarei partito dalla panchina, e che sarebbe stato tutto peggio. Ho scelto comunque Brooklyn, più che altro per motivi di vita personale, che non c’entravano niente col basket. Non volevo cambiare casa e città, preferivo restare a New York. Ma a livello cestistico è stata tutta sbagliata quella scelta, un errore madornale sotto qualsiasi punto di vista. Sul momento però mi sembrava davvero la scelta giusta, altrimenti non l'avrei fatta.
Ti rimproveri di non aver messo il basket al primo posto?
Stando a New York la parte basket è andata peggio di come magari sarebbe andata a Sacramento, sì, però c’è anche la vita fuori dal basket. Non è che i giocatori vivono solo sul campo, e a New York io ho fatto altre esperienze di vita, ho creato altre connessioni, sono cresciuto in una certa maniera… insomma, magari andando a Sacramento oggi sarei una persona diversa, e io invece sono orgoglioso dell’uomo che sono oggi, dell’esperienza che ho avuto e di quello che mi ha lasciato. Quindi sì, è stata senza dubbio una scelta di merda dal punto di vista sportivo, come te ne potrei dire altre migliaia, ma ci dormo la notte.
Sul campo, il pubblico ricorda una scelta sbagliata in particolare, quella partita in cui tirasti nell'ultimo possesso, sul +2, a pochi secondi dalla fine. Te la ricordi?
Sì, certo che me la ricordo. Una cagata pazzesca, in effetti. Quel giorno avevo la testa da un'altra parte, ero completamente rincoglionito, come credo sia capitato a chiunque nella vita. Quando succede a uno sportivo, però, lo vedono tutti. In ogni caso, ricordo che abbiamo vinto quella partita… per fortuna! Mi stavo veramente cagando sotto, nel timeout dopo. Avrò perso 20 chili. Ho ancora in mente lo sguardo di Tyson Chandler, che aveva preso il rimbalzo e me l’aveva passata fuori, non ci poteva credere. Meno male che alla fine abbiamo vinto, dai. Ho solo fatto una figura da scemo.
“Perché lo ha fatto? Perchè ha tirato?” - la voce del telecronista, sulla stessa lunghezza d’onda di Tyson Chandler.
A fine carriera non hai provato a inseguire un anello, come fanno in tanti.
No, non faceva per me. Nel momento in cui ho iniziato a trovarmi male, ad avere dei problemi, me ne sono andato in un attimo. Questo di certo non lo rimpiango.
L’unica volta che ti ho sentito usare la parola rimpianto a cuor leggero è stata un’intervista in cui hai raccontato il momento in cui “Toronto stava per firmare Steve Nash”, nell’estate 2012.
Sì, anche questo non è un rimpianto vero e proprio, perché non avevo potere decisionale in merito. Però sarebbe stato fichissimo, anche perché Nash in Canada sarebbe stato come giocare con Totti a Roma, o con Maradona a Napoli. Cioè, Nash a Toronto, vi immaginate che storia? Sarebbe stato bello vivere l’entusiasmo generale, avremmo avuto il palazzetto pieno ogni partita e un'attenzione mediatica diversa. E poi, in quella squadra io ero la prima arma offensiva, chissà come sarebbe stato giocare con Nash da playmaker. Non voglio dire che ne avrei fatti 30 di media, ma di sicuro mi sarei divertito.
Dici che “Toronto stava per firmare Nash”: tu eri coinvolto in questo tipo di decisioni?
Su quella trattativa mi aveva aggiornato il mio agente, mi aveva detto che non si trattava solo di una voce, che era una cosa concreta. Sapevo che Colangelo stava parlando con Nash, che si erano sentiti più volte. Poi però Nash ha deciso di andare a Los Angeles, un cambio di idea all'ultimo momento. Peccato.
In generale, a parte questa situazione, com’era il tuo ruolo nei processi decisionali della franchigia?
Capitava che i giocatori si incontrassero con il GM e l'allenatore, e si parlasse di queste cose. Non tutti i giocatori ovviamente, quelli un po' più rilevanti. E all'interno di quelle conversazioni, ci sta che il GM chieda al giocatore un parere. A me veniva chiesto talvolta cosa ci sarebbe servito per fare meglio, come vedessi il possibile arrivo di questo o quel giocatore, cose del genere. Ma ovviamente poi le decisioni non erano mie, diciamo che non avevo l’influenza di LeBron James.
Cambiando argomento, e passando alla Nazionale: anche lì nessun rimpianto?
Abbiamo avuto tanto talento, ma se vai a guardare anno dopo anno, e conti gli infortuni, non siamo praticamente mai stati tutti assieme, tranne all'Europeo in Germania. Io per primo: se vai a vedere le partite che ho giocato con l’Italia, saranno una settantina circa. A parte Gigi (Datome, ndr), che ha fatto il record di presenze, siamo stati sempre un po’ sparpagliati, infortunati. Quello ha sicuramente influito, ma non è una scusa ovviamente. Il talento era comunque tanto.
Quello che il pubblico non riusciva proprio a perdonare erano i forfait per scelta personale. Tuoi, e degli altri italiani in NBA.
Mi ricordo la mia prima estate dopo il Draft, nel 2006, in cui non sono andato in Nazionale perché Toronto non voleva. Certo, non è che ti obbligano, però sono quelli che ti pagano lo stipendio, per cui giochi, quindi stai almeno a sentire quello che ti dicono, no? L’atleta ovviamente può giocare a basket dove e quando vuole, in Nazionale ma anche tre contro tre al campetto: c'è una clausola sui contratti, “Love of the game”, che dice chiaramente che puoi giocare dove vuoi, quando vuoi, senza limiti. Ma se poi ti spacchi? Tra l’altro, il raduno della Nazionale dura un mese, e poi inizia il torneo: è una roba lunghissima, non è come la Nazionale americana che si ritrova una decina di giorni a Las Vegas prima di partire per le Olimpiadi. È ovvio - e direi anche giusto - che la squadra per cui giochi, che magari ha fatto un investimento da decine di milioni di dollari per te, ti fa un po’ di pressione per provare a evitare questo tipo impegno. Tanto più se sei un giocatore “injury prone”, da gestire con un po’ di attenzione. Di sicuro, comunque, ci sarebbero meno problemi del genere se tra squadre e federazioni ci fosse più comunicazione.
Ovvero?
Nella mia esperienza, ho visto più volte come la mancanza di un dialogo tra tutte le parti coinvolte - FIBA, NBA, federazioni nazionali, club - abbia fatto sì che le varie competizioni si sovrapponessero. Anzi che andare una contro l’altra, queste realtà dovrebbero mettersi d’accordo sui calendari dei propri eventi: sarebbe meglio per tutti, e si eviterebbero anche qualificazioni delle Nazionali come quelle che vediamo oggi, che sono tristissime…
Parli dell’assenza dei giocatori NBA, vero?
Sì, le Nazionali più forti sono sistematicamente penalizzate. Come la Francia, che ha 12 giocatori NBA… che in Nazionale non ha mai visto nessuno! È davvero una roba assurda, ridicola. Per avere delle qualificazioni così, fai prima a giocarle con gli e-games: fai collegare tutti con la PlayStation e li fai giocare, avrebbe quasi più senso.
Un’ultima cosa, stando in tema di partite (in questo caso con asterisco) sempre meno apprezzate: hai visto l’All-Star Game domenica scorsa?
Ho visto qualcosa delle gare di triple e di schiacciate, ma non la partita della domenica. Il nuovo formato delle quattro squadre, però, non credo sia una buona idea.
(Il giorno dopo l’intervista, Andrea mi ha mandato un messaggio con scritto: “Ho visto ora l’All-Star Game, meno male che non l’ho fatto prima dell’intervista, altrimenti ne avrei parlato ancora peggio!”)
E in passato, che rapporto avevi con l’All-Star Game?
Quando ero piccolo l’All-Star Game lo guardavo sempre, religiosamente. In diretta la notte, oppure registrando su una videocassetta. Poi mi hanno chiamato per il weekend di Las Vegas (2007), in cui ho giocato nella partita tra rookies e sophomores, ed ero gasatissimo per vedere la partita domenica sera. Mi ricordo che i miei compagni di squadra avevano i posti, ma non volevano andare. A me sembrava assurdo: ma come non vieni, ma in che senso? Hai i posti per l’All-Star Game, e non lo vai a vedere? Dei Raptors c’eravamo solo io e Chris Bosh, che giocava. Ai veterani non fregava niente, e dopo la prima volta che ho visto la partita dal vivo ho capito perché. Mi annoiai talmente tanto, e mi faceva così strano pensare a quanto invece mi gasava da piccolo, che non sono più andato. È stato troppo deludente.