I Los Angeles Lakers sono una delle franchigie che ha cambiato meno in estate. Al season opener contro Minnesota si sono presentati con un roster quasi invariato rispetto ai playoff 2024, con 13 giocatori su 15 confermati e due chiamate al Draft alla fine del primo e del secondo giro. Eppure, nelle prime partite della nova stagione è sembrata una squadra rivoluzionata nel modo di stare all’interno e all’esterno del campo.
Divertente da guardare e soprattutto, a un primo sguardo almeno, ben più competitiva di quanto ci avessero suggerito i power ranking di inizio anno. Non si tratta tanto dei verdetti del campo, delle tre vittorie ottenute in altrettante partite (prima della sconfitta di ieri a Phoenix) e dello stato di forma di LeBron James ed Anthony Davis, bensì di come è maturato questo avvio e dell’atmosfera che si respira a Los Angeles, dentro e fuori lo spogliatoio.
Il principale artefice della trasformazione, ancora tutta da testare considerando la porzione microscopica di stagione disputata, è il personaggio più chiacchierato del momento: coach JJ Redick. L’ex giocatore, analista e podcaster, al debutto assoluto da allenatore (NBA e non solo), ha introdotto a Los Angeles una nuova filosofia, dando l’impressione di aver capito in pochi mesi come ottimizzare il materiale a disposizione più di quanto non fosse riuscito in due stagioni al suo predecessore, Darvin Ham. E così, improvvisamente i dubbi che aleggiavano sulla squadra e soprattutto sul “rookie” seduto (non così spesso) in panchina sembrano svaniti, e hanno lasciato spazio a interrogativi più o meno legittimi sulle chance di competere per il titolo.
Troppo presto per trarre conclusioni ed elevare lo status dei giallo-viola da playoff team a contender? Certo, ma non riponete troppe speranze in un appello alla razionalità: la cautela nei giudizi, infatti, non è di casa in un ambiente - i Lakers, e ogni franchigia in cui abbia giocato LeBron James - che storicamente gestisce in modo isterico ogni aspettativa. Entusiasmo o disfattismo, senza vie di mezzo - e dopo il miglior inizio di stagione da quasi quindici anni (l’ultimo 3-0 risale al 2010), per giunta contro tre dirette concorrenti della Western Conference, non sorprende che l’euforia della Purple and Gold Nation sia fuori controllo. Diciamo la verità, però: la sensazione di chiunque abbia visto giocare i Lakers, anche di chi osserva con un occhio disincantato, è che quest’anno alla Crypto.com Arena ci sarà quantomeno da divertirsi. Ed è già qualcosa per una squadra reduce da una profonda crisi di identità, a cui i suoi stessi giocatori - partendo da LeBron James ed Anthony Davis - non hanno mancato di fare allusione nelle ultime settimane.
Studio il gioco e risolvo problemi
JJ Redick si è presentato ai Lakers con un pedigree da allenatore fatto sostanzialmente di sola teoria: tante idee interessanti e nessun test pratico, al di là dell’esperienza da volontario nella squadra scolastica del figlio. Ci è voluto ben poco, però, affinché il suo coaching style - supportato dal gradimento di LeBron e AD (ascoltati dal front office durante il processo decisionale post-Ham) e abbinato alle doti comunicative (quelle sì, cosa nota) - facesse breccia nel mondo Lakers, e poi nell’intero universo NBA.
Si era intuito dalle parole arrivate fin dal primo giorno di training camp, come ad esempio queste di Austin Reaves, oppure queste di Rui Hachimura e Bronny James; lo si vede nei video che escono tutti i giorni dagli allenamenti e dallo spogliatoio dei giallo-viola; e, allargando lo zoom, ne si trova riscontro anche nelle convinzioni dei bookmakers, che attualmente vedono in Redick il (precocissimo) favorito per il premio di Coach of the Year. Ma parte tutto dal campo, e dalle domande che si è posto chiunque di fronte alle prime uscite in pre-season (vi avevamo avvertito) e quindi nell’ultima settimana: quanto sono cambiati, quanto sembrano avere idee chiare e unità di intenti, e quanto giocano bene questi Lakers?
Nei dati restituiti dalle prime quattro partite - un campione limitato e quindi da prendere con le pinze, ma comunque frutto di un calendario impegnativo (Timberwolves, Kings, due volte Suns) - si possono individuare le aree in cui già si è vista la mano di Redick. I Lakers sono uno dei migliori attacchi della lega, segnando 117.3 punti per 100 possessi (quasi due in più rispetto all’anno scorso) e confermando con le cifre quanto evidente all’eye test: una fluidità offensiva che in California non si vedeva da tempo, forse nemmeno nell’anno dell’ultimo titolo (2020).
Ciò che balza subito all’occhio è il movimento della palla e degli uomini, la creazione di gioco diffusa all’interno di un sistema read-and-react che è fondato su ampie spaziature (tanto cinque-fuori) e sulla ricerca di ricezioni dinamiche per i propri trattatori di palla (soprattutto Reaves, Knecht e Vincent) e finalizzatori (Davis in primis); dunque, rispetto ai Lakers che avevamo imparato a conoscere, e non necessariamente ad apprezzare, meno isolamenti e pick&roll statici, meno secondi per entrare nei set offensivi e più movimento di palla. Così si è passati da un attacco in cui si registravano in media 267 passaggi a partita (25esimi nella lega l’anno scorso) ai 335 del season opener, e dall’essere la squadra che correva meno metri (con ampio distacco) nella metà campo offensiva a… qualcosa del genere:
I Lakers fin qui hanno segnato 14.3 punti a partita in situazioni di taglio (+3.3 rispetto all’anno scorso), dato più alto della lega.
Il possesso qui sopra potrebbe ricordarvi per certi versi il modo di stare in campo dello stesso JJ Redick, un tiratore che non si limitava ad aspettare gli scarichi sul lato debole, anzi; generava spazi per sé stesso e per i compagni con un incessante movimento lontano dalla palla, alla continua ricerca di piccoli o grandi errori della difesa, messa costantemente sotto pressione con uscite dai blocchi, handoff, tagli, flare screen. Tutto ciò ha l’obiettivo di mettere a proprio agio i terminali offensivi, coinvolgere continuativamente il supporting cast (contro Phoenix hanno segnato 33 canestri assistiti su 40 totali), guadagnare più viaggi in lunetta (88 liberi nelle prime tre) e rendere il dispendio energetico di James e Davis sostenibile sull’arco della stagione. Il risultato atteso: modernizzare le abitudini offensive e la dieta di tiro dei Lakers, limitando l’uso del mid range in favore di un volume più elevato di tentativi dentro al pitturato (dove hanno segnato ben 72 punti nel debutto, contro Rudy Gobert e la migliore difesa della passata stagione) e dietro al perimetro.
Su quest’ultimo punto Redick aveva posto grande enfasi durante le conferenze stampa in pre-season, dicendo addirittura di «sperare di arrivare a 50 triple tentate a partita», quasi 20 in più rispetto alla passata stagione (in cui erano 28esimi per tiri da tre su 100 possessi). A oggi soltanto i Celtics tirano così tanto da fuori (circa 50 tentativi a partita su 90 complessivi dal campo, numeri mai visti), e i Lakers non ci vanno neanche lontanamente vicini (30.8, 24esimi), ma sono dati di cui sarà interessante osservare l’evoluzione nei prossimi mesi. Per ora, la notizia davvero confortante per Los Angeles è l’immediatezza con cui il nuovo impianto di gioco ha attecchito in squadra, come confermato dalle sole 7 palle perse nel season opener e dal fatto che sostanzialmente, a parte il tiro da fuori, sembra andare tutto nella giusta direzione.
La creatività non manca a JJ Redick, come si può vedere in questa rimessa disegnata nel clutch time contro i Suns.
Difensivamente i Lakers stanno alternando diversi approcci e raccogliendo finora risultati simili a quelli della passata stagione (circa 114.5 punti concessi ogni 100 possessi, in media NBA). La carenza di difensori affidabili sul perimetro e nella navigazione dei blocchi impone la necessità di cambiare spesso, ma l’intenzione di Redick è orientata a un uso non eccessivo di tale strategia, almeno in regular season, per questioni di dispendio energetico. Anche qui, sarà interessante - magari al netto di uno o due movimenti sul mercato? - osservare la capacità del neo head coach di adeguarsi alle esigenze di gara in gara, e soprattutto di farsi trovare pronto agli aggiustamenti richiesti dalle serie playoff. Dopo la sconfitta contro i Suns, ad esempio, Redick ha fatto mea culpa in conferenza stampa per non essere riuscito ad arginare le doti realizzative di Booker e Durant (63 punti in due), rimpiangendo di non aver fatto abbastanza blitz difensivi sulle due stelle avversarie, per allontanarli dalle rispettive comfort zone.
«Sono una persona molto particolare, direi ossessiva in tanti aspetti della mia vita», aveva detto JJ Redick nel 2023 durante una puntata del suo podcast, Old Man & The Three, in cui aveva intervistato Devin Booker. Avevamo imparato a conoscere la sua ossessione quando ancora giocava in NBA, in una carriera da più di cinquemila triple tentate e convertite con il 41.5%, toccando in maglia Clippers un irreale 47.5% su 5.6 tentativi a partita: numeri che solo chi lavora ossessivamente sul proprio tiro e in sala video può produrre, soprattutto con un fisico normale come il suo. Ora che lo studioso del gioco è passato dal campo alla panchina, l’approccio è rimasto lo stesso, e parte proprio da quell’ossessione (tanto da essere avvistato mentre studiava i video dei Kings in un autolavaggio) e dall’attenzione per i dettagli, come ci ricorda l’iperattività con cui vive le partite da bordocampo.
La combinazione di IQ cestistico ed EQ (Emotional Quotient, l’intelligenza emotiva) di Redick ha fatto rapidamente presa sui giocatori. La frustrazione che ha mostrato dopo la sconfitta a Phoenix, ad esempio, è stata sottolineata e apprezzata pubblicamente da Reaves, che ha parolato di «un coinvolgimento fuori dal comune». La gestione di Bronny James, entrato in campo al fianco del padre nel season opener e ora passato in G League, è stata brillante, nonostante le spropositate attenzioni mediatiche. E le parole rivolte ai gregari del team dopo la vittoria in rimonta contro Phoenix, infine, sono un indice della sua capacità di toccare le giuste corde in spogliatoio, mettendo il collettivo davanti a tutto.
«Questa è una vittoria che abbiamo ottenuto con la determinazione, eravamo sotto di 22 ed eravamo piatti, a loro riusciva tutto… Abbiamo parlato della fiducia in settimana, e questa è una vittoria che edifica la nostra fiducia uno nell’altro. Jax (Jaxson Hayes), penso che sei stato fantastico stasera. Talvolta è la tua partita, altre volte no, ma l’importante è avere sempre qualcuno che si fa avanti. AR (Austin Reaves), bell’approccio. Gabe (Vincent), ottimi minuti. E domani sarà la partita di qualcun’altro. È questo che fa una squadra, giusto?»
La squadra di AD (e LeBron)
Mai quanto nell’ultima settimana abbiamo avuto la sensazione che il proverbiale passaggio della torcia sia avvenuto: questi Lakers, oggi, sono la squadra di Anthony Davis. Lo ricorda LeBron James ogni volta che ne ha un’occasione davanti ai media (e viceversa, a dire il vero), lo conferma AD quando dice Redick «vuole che io sia il punto di riferimento per l’attacco» e soprattutto lo dice il campo. Il suo rendimento nella prima settimana di stagione - non a caso da Player of the Week - è stato semplicemente clamoroso. Non solo nella metà campo difensiva dove è a mani basse uno dei migliori in circolazione, e dove probabilmente si giocherà il premio di Defensive Player of the Year con Wembanyama (e volendo allungare la lista, con Holmgren, Adebayo, Mobley, Gobert e Jackson Jr); ma anche nel nuovo attacco Davis-centrico costruito da JJ Redick, tanto per una questione di gerarchie, quanto per il suo utilizzo esclusivo, appunto, da centro.
Dopo una serie playoff di altissimo livello contro i Nuggets qualche mese fa, un’estate da protagonista con Team USA e una pre-season in cui era già parso in condizione smagliante, l’inizio di Davis somiglia a quello di un candidato MVP, salute e continuità permettendo (se vi sembra impossibile, ricordate che l’anno scorso ha saltato soltanto sei partite). Nei suoi primi 148 minuti ha viaggiato a 32.8 punti a partita, con poco meno del 64% di True Shooting (il secondo miglior dato in NBA tra i giocatori con Usage superiore al 30%) e quasi 13 tiri liberi tentati a partita e 20 punti segnati nel pitturato, uno sproposito.
I Lakers lo stanno coinvolgendo più che mai nei primi secondi del possesso, aumentando sensibilmente i suoi tocchi al gomito e sul perimetro, cercando di innescarlo dinamicamente con blocchi ed handoff, chiedendogli di capitalizzare vantaggi e non di costruirsi un tiro da situazioni statiche. Redick «vuole che il gioco passi spesso da me al gomito e in punta, è ciò su cui abbiamo lavorato», conferma il diretto interessato, che in questo ruolo sta dimostrando non solo di massimizzare le doti realizzative, ma anche di contenere le palle perse.
Al suo fianco, la nuova seconda opzione dell’attacco giallo-viola, LeBron James, ha iniziato la sua 22esima stagione rinnovando la sfida a Padre Tempo - e quasi prendendolo in giro, quando è sceso in campo insieme a suo figlio Bronny. Come sempre, quando il commitment di LeBron alla causa è sincero e profondo, il pubblico tende a notarlo, ed è questo il caso dal giorno in cui JJ Redick - amico e (quasi) coetaneo - ha preso la guida delle operazioni. Nel dubbio, settimana scorsa il nativo di Akron, prossimo a compiere 40 anni, ha detto di «pianificare di giocare tutte le 82 partite».
Nelle prime due partite è stato abbastanza tranquillo, nel visibile intento di assecondare la trasformazione del sistema offensivo dei Lakers e di ridurre - con la giusta selezione - i momenti in cui isolarsi e fermare la palla. Nella terza uscita, poi, gli sono stati chiesti gli straordinari, e LeBron ha risposto presente con una prestazione maiuscola (32 punti, 14 rimbalzi e 10 assist) e soprattutto con un quarto periodo che Redick ha definito «surreale» (16 punti, senza errori dal campo). «Cosa volete che vi dica», ha risposto l’head coach, «penso che siamo tutti molto fortunati ad essere testimoni della sua grandezza per così tanto tempo; e il fatto che continui su questo livello è semplicemente incredibile».
Nella gara successiva, in cui i Lakers hanno subito la prima sconfitta, LeBron ha giocato indubbiamente una delle peggiori partite della sua carriera, condizionato anche da uno stato influenzale. Ha mandato a referto 11 punti (la striscia è salva, almeno) con 3 su 14 dal campo (sotto al 22% al tiro non scendeva dal 2007) e -17 di plus/minus, mostrando scarsa aggressività e imprecisione anche in tiri che normalmente segna a occhi chiusi. Nonostante tutto ciò, insieme a un impatto quasi inesistente della panchina (8 punti, 3 su 10 dal campo) e alla stanchezza palesata nella quinta partita in otto giorni, i Lakers hanno perso in volata (109-105) contro i Suns, in quella che si può inquadrare come una classica sconfitta agrodolce.
Rinascita collettiva
Chi sta traendo enorme beneficio dal cambio pelle dei Lakers è in primis Austin Reaves, e in misura leggermente minore Rui Hachimura, Gabe Vincent e l’ultimo arrivato, il rookie Dalton Knecht. “AR”, come lo chiama Redick, ha cominciato la sua quarta annata da professionista mostrando enormi miglioramenti come creatore di gioco per sé e per i compagni, aiutato da un sistema che valorizza - ancora: dinamicamente - le sue letture, e allo stesso tempo ne nasconde la carenza di esplosività, onerosa in situazioni statiche. I numeri con cui è partito sono tutti lì da vedere: 19.3 punti a partita, con il 67% di True Shooting e 5.3 assist; nonché un solido contributo a rimbalzo: ben 7 a partita (2 offensivi) fin qui, preziosi per una squadra che deve sopperire all’assenza di taglia sotto i tabelloni dopo gli switch difensivi, e che vuole migliorare a rimbalzo in attacco (30esimi nella scorsa stagione), come ha sottolineato più volte Redick. In difesa, inoltre, Reaves ha lanciato segnali incoraggianti nei matchup contro Anthony Edwards, Devin Booker e De’Aaron Fox, cui ha concesso complessivamente il 36% dal campo (9/25) secondo il tracking di NBA.com.
Anche Hachimura fino ad ora ha avuto un impatto positivo nelle due metà campo, grazie al tiro da fuori (8/13 complessivo) e all’apprezzabile contribuito nella crescita dei giallo-viola a rimbalzo in attacco. Un’ondata di indizi positivi, insomma, che pare riguardare l’intero roster, o quasi: Gabe Vincent sta ancora litigando con le sue percentuali, ma sembra perfettamente a proprio agio nell’attacco dei Lakers e nelle letture dinamiche che gli sono richieste; e così anche Dalton Knecht, che in più ha mostrato un precoce confidenza con il canestro e di non avere alcuna paura a prendersi responsabilità offensive in uscita dalla panchina (vedere per credere).
L’unico a sembrare un pesce fuor d’acqua, ad ora, è D’Angelo Russell, apparentemente destinato a perdere spazio nelle rotazioni. Oltre ad essere un difensore meno affidabile di Vincent, D-Lo è praticamente l’antitesi del credo di JJ Redick, con il suo playmaking non sempre coscienzioso e la tendenza a spezzare il flusso offensivo; aggiungendo il suo storico di problemi al tiro in post-season e il contratto in scadenza, sembrano esserci parecchi buoni motivi per immaginarlo altrove entro la trade deadline del prossimo febbraio, nonostante la carenza di interesse sul mercato. Per discorsi del genere, però, è molto presto. Le rotazioni sono ancora in fase di rodaggio, Christian Wood e Jarred Vanderbilt devono ancora fare ritorno dai rispettivi infortuni, e Rob Pelinka ha chiarito che saranno necessarie almeno una trentina di partite prima di valutare eventuali scambi. Il discorso chiaramente implica una valutazione più matura del rendimento dei singoli, ma anche le possibilità del collettivo di competere per il titolo, e dunque l’integrità di James e Davis.
Per ora, i Lakers si godono le vibrazioni trasmesse da un inizio di stagione oltre ogni aspettativa. L’obiettivo è presentarsi ai playoff con un buon piazzamento, una salubre gestione delle energie e un bagaglio ancora più ampio di sicurezze. E, citando ancora Redick, della fiducia che hanno iniziato a costruire. «Abbiamo messo in guardia la lega sul fatto che siamo una squadra diversa», ha detto Anthony Davis dopo la vittoria contro i Suns. E due giorni dopo, quando è arrivata la prima sconfitta, ha aggiunto come obiettivo stagionale, o meglio come mentalità con cui approcciare ogni gara, queste parole: «Non vogliamo mai perdere, ma siamo realisti e sappiamo che nessuno nella storia ha mai chiuso la regular season 82-0. Il nostro pensiero deve essere, e rimanere durante tutta la stagione, di non perdere mai due partite di fila». Un mantra che ricorda molto quello della stagione 2019/20, coronata dalla vittoria del titolo.