Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
FantaRoma 2018
14 dic 2018
5 scenari per la panchina della Roma nel caso di esonero di Di Francesco.
(articolo)
23 min
Dark mode
(ON)

Da ormai settimane si discute di un possibile esonero di Di Francesco, negli ultimi giorni si ipotizzano persino le sue dimissioni. Tutti scenari frenati però dall'impressione che non ci siano allenatori liberi interessanti su piazza. Abbiamo immaginato 5 nuovi allenatori per i giallorossi, nel caso il club decida di non proseguire più con Di Francesco. Buona lettura!

Perché tanto odio per Paulo Sousa?

di Dario Saltari

Paulo Sousa è uno dei peggiori incubi dei tifosi romanisti, la maggior parte dei quali lo considera un’opzione peggiore della stessa permanenza di Di Francesco sulla panchina della Roma (escludendo quindi i pochi sopravvissuti tra gli estimatori dell’allenatore abruzzese). È difficile capire la ragione dietro una tale antipatia: forse è il ricordo della sua ultima scialba stagione con la Fiorentina, o forse è per quella sottile supponenza che caratterizza le sue conferenza stampa, o forse, ancora, perché sembra non curarsi troppo di apparire come un opportunista in praticamente qualsiasi occasione.

Paulo Sousa appare nel campo visivo dei romanisti esattamente quando se lo aspettano: sugli spalti dell’Olimpico in una delle ultime partite della gestione Spalletti (quella vinta contro la Juventus per 3-1), ad esempio, ma anche su quelli del Franchi nell’ultima sfida dei giallorossi contro la Fiorentina, solo qualche settimana fa. In questi casi, Paulo Sousa sembra il fantasma che ricorda agli allenatori la loro mortalità. D’altra parte, è stato lui stesso a dirlo nemmeno così velatamente in una lunga intervista concessa a Sky poche settimane fa: «Auguro ai miei colleghi il meglio, ma la nostra vita è così: il risultato negativo di uno è l’occasione per altri».

Un altro allenatore in tribuna. L’ultima cosa che vedono gli allenatori della Roma prima di morire.

Mettendo un attimo da parte i tratti più fastidiosi della sua personalità, però, Paulo Sousa avrebbe anche diverse caratteristiche che sembrano proprio fare il caso della Roma. Innanzitutto, una preparazione tattica di primo livello e uno stile di gioco basato sul dominio del possesso che manca a Trigoria da troppo tempo. Forse l’abbiamo dimenticato, ma Sousa è molto stimato da alcuni degli allenatori più preparati del nostro campionato, come Luciano Spalletti (che qualche tempo fa ammise di essersi ispirato a lui per quanto riguarda la famosa difesa a “tre e mezzo”) e, più recentemente, Roberto De Zerbi, che lo ha inaspettatamente messo in un piccolo pantheon con Guardiola e Bielsa.

Alla fine, non è passato troppo tempo da quando la sua Fiorentina aveva dimostrato di poter essere una delle squadre più all’avanguardia del campionato italiano, battendosi per la testa della classifica per circa metà campionato con il Napoli di Sarri e l’Inter di Mancini, con un modulo fluido che però aveva principi di gioco molto chiari, sui quali l’allenatore portoghese sembrava non volesse scendere a compromessi. A quel tempo non era una bestemmia considerarlo una delle stelle nascenti della sempre più influente scuola tattica portoghese.

Ancor più importante per una società che fa del player trading il suo principale sostentamento, Paulo Sousa ha dimostrato di avere grande capacità nel valorizzare il talento, specialmente nei giocatori più giovani. Sia Chiesa che Bernardeschi devono più di qualcosa all’allenatore portoghese se sono diventati due dei talenti italiani più interessanti in circolazione (Chiesa l’ha addirittura definito «un genio»), ma quella Fiorentina aveva creato le condizioni ideali anche per la maturazione di una serie di giocatori molto tecnici che forse non sarebbero potuti fiorire in contesti tattici diversi, come Marcos Alonso, Borja Valero, Vecino e Badelj.

Sotto questa luce, le parole di Paulo Sousa sulla Roma sembrano meno opportunistiche: «A livello individuale è una squadra fortissima. Rosa ampia, piena di qualità. Hanno fatto investimenti importanti sui giovani». Effettivamente, la rosa giallorossa sembra adattarsi bene al suo 3-4-2-1 fluido.

Innanzitutto, la difesa a “tre e mezzo” darebbe nuovo smalto a due giocatori sempre più influenti nella costruzione bassa della Roma, cioè Kolarov, che probabilmente verrebbe messo come “falso” terzo centrale a sinistra (un ruolo che ha già ricoperto con Guardiola durante il suo ultimo anno al City), e Florenzi, che con una difesa a tre alle spalle potrebbe finalmente mascherare i suoi difetti nell’uno contro uno in difesa. Come esterno a sinistra Sousa potrebbe permettersi un giocatore più offensivo, come El Shaarawy o Kluivert, che potrebbe ripercorrere le orme di Bernardeschi maturando attraverso il fuoco sacro del sacrificio difensivo. Leggermente più problematica la trequarti offensiva, dove la Roma non potrebbe schierare una punta dinamica come Kalinic, e dovrebbe così compensare i movimenti in profondità attraverso due trequartisti fisici come Zaniolo e Cristante, che tornerebbe così alla collocazione tattica che l’ha fatto fiorire all’Atalanta. Certo, la rivoluzione posizionale di Sousa non sarebbe solo un pranzo di gala e alcuni giocatori, come Pastore e Ünder, potrebbero rimanere indietro.

Ma la principale spada di Damocle sulla testa del portoghese sarebbe più che altro il rapporto con la società. Sousa sembra non riuscire a sopportare i sacrifici che le squadre che allena ogni volta sono costrette a fare: è successo alla Fiorentina, dove si incupì fino all’autodistruzione dopo la prima sessione di mercato, e anche, più recentemente, al TJ Quanjian, dove la sua esperienza è iniziata a precipitare dopo la cessione di Witsel al Borussia Dortmund. Come andrebbero le cose a Roma dopo la prima prevedibile sessione di mercato sanguinosa?

Il sogno Antonio Conte

di Emiliano Battazzi

Dopo una serie di striscioni minacciosi apparsi fuori Trigoria, rivolti sia alla proprietà americana (“Dopo i giocatori, venduti anche i valori. No alla Roma juventina. Straccions go home”) sia al nuovo allenatore (“Della Juve simbolo antico, per noi sempre nemico”), Monchi aveva deciso di aspettare Antonio Conte da solo a Trigoria, su consiglio della Questura, anche per evitare disordini: dopo l’ultima sconfitta, il Ds spagnolo era stato costretto a fuggire sotto scorta dall’Olimpico.

Alle 3 di notte, per evitare la ressa dei giornalisti e dei tifosi, la macchina di Antonio Conte varcava i cancelli del centro sportivo giallorosso. Poche ore dopo, le ben nove emittenti radiofoniche dedicate alla Roma cominciavano a commentare la notizia: era vero, Conte aveva firmato come nuovo allenatore dei giallorossi.

Alla conferenza stampa di presentazione, introdotto da Totti su sua esplicita richiesta (i due ex compagni di Nazionale erano in contatto da mesi), il tecnico salentino aveva fatto passare pochi messaggi principali. «Per me esiste solo una strada verso il successo: lavorare, e molto. Mi dicono che qui sia più difficile che altrove, ma io ho preso una Juve che veniva da due settimi posti. Non ho paura di niente». Ma soprattutto, si era già imposto come capo inflessibile:«Chi non si adeguerà ai miei metodi, sarà immediatamente accompagnato alla porta. Questa squadra non ha più tempo da perdere».

Ma a far discutere era un’altra sua affermazione:«Adesso sono della Roma, ma non rinnego il mio passato bianconero». Anche per questo, alla prima partita casalinga, Conte riceve un’accoglienza particolare dai tifosi: una parte consistente dell’Olimpico lo osanna, un’altra lo fischia. In Curva Sud appare un nuovo striscione con la scritta GAC: Gruppo Anti-Conte.

In una situazione così turbolenta, Conte si concentra solo sul lavoro, andando a vivere direttamente a Trigoria. Dice di volersi comportare come un sarto e provare diversi abiti tattici diversi, perché la squadra sembra soffrire qualunque modulo.

Con un incredibile tuffo nel passato, la prima Roma di Conte si schiera con il 4-2-4, modulo che l’allenatore aveva quasi sempre usato nelle sue stagioni a Siena e a Bari. Le novità riguardano i nomi: Karsdorp è il terzino destro, Florenzi l’esterno altro, con El Shaarawy sull’altra fascia. Under è invece la seconda punta, che attacca la profondità quando Dzeko si abbassa, mentre a centrocampo Nzonzi viene fatto fuori, con la coppia centrale De Rossi-Pellegrini. La squadra si dimostra molto dinamica e verticale, ma sempre troppo spezzata in due: dopo poche partite, Conte prova finalmente la difesa a tre, e su quella basa il mercato di gennaio.

In due settimane, con un vorticoso giro di prestiti e cessioni tra Serie A e Cina, se ne vanno Pastore, Marcano, Coric, Perotti e Schick, e arrivano Giaccherini e Zaza. Il nuovo 3-5-2 giallorosso punta a una maggiore solidità difensiva ma anche a un maggior controllo del pallone: De Rossi viene arretrato a difensore centrale, con Manolas alla sua destra e Kolarov alla sua sinistra. Come esterno sinistro a tutta fascia viene impiegato Luca Pellegrini, con Florenzi dall’altro lato: a centrocampo, Nzonzi fa da playmaker per consolidare il rombo di inizio azione. AI suoi lati, Giaccherini e Cristante garantiscono corsa e inserimenti.

In fase offensiva, i due attaccanti a coordinarsi nei classici movimenti alternati, il cui scopo è aumentare le spaziature tra i difensori avversari, sono sempre Dzeko e Under: a Conte piace l’elettricità del turco, la sua capacità di andare a mille all’ora appena riceve il pallone, e riesce a trasformarlo in una seconda punta mobile. Il nuovo assetto regge per un mesetto, in cui la Roma riesce a strappare un 2-2 casalingo contro il Manchester City di Guardiola negli ottavi di Champions: ma poi Conte preferisce cambiare, perché vede una squadra troppo passiva e troppo spesso schiacciata verso il basso, in difficoltà nel recupero del pallone.

A quel punto non gli resta che una mossa pazza: sistemare la squadra secondo quel 4-3-3 che a Di Francesco non riusciva più. Conte capisce che la Roma ha una sola grande caratteristica positiva, il recupero alto del pallone: in sostanza, l’unico modo per difendersi è tramite transizioni difensive ultra aggressive. Il 4-3-3, grazie al suo migliore scaglionamento in campo durante il possesso palla, permette ai suoi giocatori di trovarsi in posizione ottimale per riconquistare il più presto possibile il pallone.

Per riuscirci, però, Conte è costretto ad un cambio di uomini sorprendente, scegliendo tutti i giocatori più fisici e verticali possibili: Kolarov viene trasformato in difensore centrale per servire tracce verticali taglia-pressing; sulle fasce, spazio all’aggressività di Pellegrini a sinistra e Karsdorp a destra; le due mezzali diventano Zaniolo e Cristante, i due veri perni del recupero alto; mentre Dzeko ha il compito di ricevere in verticale dalla difesa, attrarre i difensori centrali - sfruttando l’ampiezza garantita da Kluivert e Under - e mandare in porta le mezzali, che arrivano entrambe in doppia cifra. La Roma gioca fasi velocissime di possesso palla, senza la classica circolazione bassa delle squadre di Conte, e si trasforma in una squadra quasi da Bundesliga.

La svolta della stagione arriva a marzo: i giallorossi vincono il derby di ritorno per 3-0 con tripletta di Cristante, e sulle ali dell’entusiasmo pochi giorni dopo compiono un miracolo sportivo. L’incredibile vittoria nel ritorno degli ottavi a Manchester, per 3-2, con gol da 30 metri di Zaniolo (che i cronisti inglesi, impressionati, chiameranno The Young Pope), spinge Conte a correre esaltato verso il settore che ospita i tifosi giallorossi, lanciando la giacca Hugo Boss come fosse una maglietta.

Con una serie di vittorie consecutive, e qualche imbarcata - quando la transizione difensiva non funziona, la Roma si fa trovare spesso impreparata - Conte conclude il campionato addirittura al terzo posto, scavalcando l’Inter di Spalletti. In Curva Sud scompare lo striscione GAC, e l’ex juventino è ormai idolo della tifoseria, che attende speranzosa l’inizio della nuova stagione. Il 15 agosto però, appena tornato a Roma dal Trofeo Naranja giocato contro il Valencia, scompare anche lui: Conte si dimette dopo aver saputo da Monchi che il giorno successivo Zaniolo, Manolas e Under sarebbero stati venduti al Manchester City per 130 milioni di euro.

Se ne va senza comunicare nulla all’esterno, né una conferenza stampa né un messaggio in tv: non parlerà mai più della Roma, in nessuna intervista, ma conserverà sempre un braccialetto di cuoio con la scritta “non si discute, si ama”.

Ovviamente Vincenzino

di Daniele V. Morrone

Sembra quasi una certezza che prima o poi Montella tornerà alla Roma come allenatore. Già in occasione di un Roma-Milan di un paio di stagioni fa, Luciano Spalletti (ai tempi allenatore della Roma) si era sbilanciato: «Roma è casa sua così come l'Olimpico, lui conosce bene tutto e poi ci tornerà da allenatore, sicuramente. E sarà un grande allenatore per la Roma».

E questo potrebbe essere il momento buono per portare al ritorno di Montella che, proprio come la prima volta in cui è arrivato, sarebbe il salvatore della stagione che da stagnante si sta facendo deludente. Quando Montella ha allenato la prima volta la Roma, esordendo così tra i professionisti per prendere il posto di Ranieri, non era forse ancora totalmente pronto ma non ha fatto male, vincendo il derby e chiudendo al sesto posto, con in più una semifinale di Coppa Italia. Non è riuscito a tenersi la panchina però perché la Roma aveva un altro progetto, Luis Enrique. Oggi però è un allenatore maturo, che viene da un’esperienza nella Liga (anche lì è entrato a stagione in corso).

La sua avventura al Siviglia è stata chiaramente agrodolce, con ottimi risultati raggiunti nelle coppe - i quarti in Champions League dopo aver eliminato il Manchester United agli ottavi; e la finale raggiunta di Coppa del Re, dove però poi ha perso 5-0 contro il Barcellona. È stato esonerato a fine aprile, dopo una serie di 9 partite senza vittoria nella Liga, ma prendere il Siviglia in corsa, in una stagione tanto difficile come quella successiva all’addio di Monchi, è gli garantisce comunque delle attenuanti. È chiaro che non ci troviamo nel picco della sua popolarità come allenatore (quello è stato dopo la Fiorentina, con l’ingaggio alla Samp prima e al Milan poi) e probabilmente non sarebbe accolto all’aeroporto da una folla oceanica, ma ci sono dei motivi per cui per Montella prendere la Roma in corsa dovrebbe essere più facile rispetto al Siviglia.

Il primo motivo è che un affetto viscerale e giustificato unisce la Roma a Montella. Il che garantirebbe un avvicendamento tranquillo, con un allenatore che già conosce a menadito l’ambiente: parliamo di uno dei protagonisti dello scudetto 2001 e membro della hall of fame della Roma, che conosce perfettamente le stanze di Trigoria ed è amico di De Rossi e Conti, di Totti. Ha ancora casa a Casal Palocco e in passato è tornato spesso anche per seguire il figlio nelle giovanili della squadra. Anche per questo già nel periodo più buio dell’epoca Rudi Garcia era stato accostato alla Roma.

Quello di Montella è un calcio che vuole basarsi sui principi del gioco di posizione, con un forte influsso sulla ricerca del possesso del pallone come strumento per controllare il gioco. Nella Roma di oggi porterebbe una maggiore attenzione allo sviluppo della manovra, per creare connessioni adatte a un calcio più associativo rispetto a quello attuale e, soprattutto, una maggiore attenzione al recupero del pallone una volta perso: due delle lacune della seconda Roma di Di Francesco.

Partendo da questa idea di gioco Montella spingerebbe per avere nel suo 11 titolare giocatori votati ad un calcio associativo e soprattutto in grado di difendere in avanti. Mi vengono in mente i nomi ad esempio di Pellegrini e Zaniolo a centrocampo e Kluivert sull’esterno. Giocatori che sembrano avere nelle loro corde il tipo di calcio caro a Montella. Trovare il modo per avere più giocatori con queste caratteristiche in campo contemporaneamente sarebbe forse la prima preoccupazione di Montella, partendo da lì verrebbe disegnato il modulo. Anche perché nella sua carriera fino ad ora Montella ha dimostrato di non avere particolari fissazioni con un modulo specifico, volendo costruire un sistema attorno ai giocatori che ritiene più adatti al suo calcio. Per dire, al Siviglia l’unica costante è stata la difesa a 4, ma ha variato dal 4-4-2 al 4-3-3; e nel Milan dopo un inizio col 4-3-3 ha cambiato fino ad arrivare al 3-4-2-1, che in fase difensiva diventava un 4-4-2 come ultimo modulo utilizzato.

Una Roma, quindi, che tornerebbe ad utilizzare strumenti che gli erano utili la scorsa stagione, come il recupero alto, e che a questi aggiungerebbe anche un’attenzione maggiore ai dettagli per far funzionare la manovra. Insomma, non è detto che andrebbe a finire male, anche se l’inizio non sarebbe dei più semplici (sia per i molti cambiamenti richiesti, sia perché, come detto, non sarebbe una scelta entusiasmante dal punto di vista dei tifosi).

Inoltra va detto che Montella già in passato non ha avuto paura di lanciare in campo i giovani, nei momenti in cui il gioco della squadra stagnava, come ha fatto con Cutrone al Milan, e in una Roma con così tanti talenti giovani serve un allenatore che riserva loro la giusta attenzione. La presenza di Montella potrebbe anche aiutare la stagione di Nzonzi, che da lui era stato recuperato dopo un inizio di stagione interlocutorio sotto Berizzo, appunto ai tempi del Siviglia.

Alla fine dei conti Montella sembra uno dei più adatti per fare da aggiustatore in questa stagione travagliata (magari superando il turno in Champions e arrivando lontano in Coppa Italia), in cui vista la difficoltà nell’attirare un allenatore di prima fascia assoluta, bisogna trovare principalmente un allenatore che sappia portare la nave in porto in sicurezza e mettere delle basi da cui poi ripartire.

Ticket Totti-Sella

di Cosimo Rubino

«È innegabile che questa sia una situazione particolare, ma non esiste una fiducia a tempo. Valuteremo a giugno l’operato del mister e di Francesco».

Nonostante le parole del dg della Roma Mauro Baldissoni, i media e i tifosi restano sicuri: Antonio Conte sarà l’allenatore della Roma 2019/20. L’entusiasmo dell’ambiente per il futuro deve però fare i conti con quel presente che Baldissoni definisce eufemisticamente “particolare”, ma che in realtà soltanto pochi mesi prima sarebbe sembrato irrealistico a chiunque. L’esonero di Di Francesco e il contestuale accordo con Conte aveva messo la società alla ricerca di un traghettatore che si accontentasse di un contratto fino al termine della stagione. Il rifiuto dello storico allenatore della Primavera Alberto De Rossi aveva reso la posizione della dirigenza giallorossa così drammatica da spingerla a rivolgersi alla persona che più di ogni altra aveva negli anni tolto le castagne dal fuoco di Trigoria: Francesco Totti. Lo stesso Francesco Totti che aveva abbandonato dopo due settimane il corso per il patentino UEFA B - “non faceva per me” aveva detto - e che quindi necessitava di un allenatore professionista al suo fianco. Con l’aria grave e responsabile di un tecnico chiamato a scendere in politica in nome della Salute pubblica, Totti aveva accettato senza remore e con un’unica richiesta: ad affiancarlo sulla panchina giallorossa avrebbe dovuto essere Ezio Sella. D’altra parte non sarebbe stato un inedito per Sella, stimato esperto in materia di “ticket” in panchina grazie alle sue esperienze al fianco di Rudi Völler prima e di Bruno Conti poi durante la burrascosa stagione 2004/05.

L’inizio dell’avventura è traumatico: i giallorossi subiscono un sonoro 4-0 dalla Juve e scivolano al decimo posto. Totti e Sella decidono di abbandonare il 4-2-3-1 per passare a un 4-4-2 a rombo con De Rossi nel ruolo di vertice basso, Cristante e Pellegrini mezzali, e Zaniolo ad agire alle spalle di Schick e Dzeko. Il cambio modulo porta i suoi frutti: fra gennaio e febbraio i giallorossi si sbarazzano facilmente di Virtus Entella e Torino in Coppa Italia e risalgono fino al quinto posto in campionato, grazie soprattutto ai gol di un ritrovato Schick.

L’eliminazione dalla Champions League ad opera del City avviene senza l’umiliazione che i tifosi temevano e non sembra poter turbare l’equilibrio di una squadra che ha trovato un’ottima solidità difensiva. L’andata della semifinale di Coppa Italia contro la Juventus è una conferma in merito: la Roma esce per la prima volta indenne dall’Allianz Stadium e anzi porta a casa un 1-1 prezioso in vista del ritorno. L’arrivo della primavera però segna una flessione della squadra di Totti e Sella che, complice un vistoso calo atletico, si perde in una spirale di sei pareggi consecutivi e perde definitivamente il passo delle prime quattro.

La Coppa Italia resta l’ultimo obiettivo stagionale: il 24 aprile, in un Olimpico tutto esaurito per il ritorno della semifinale, la Roma batte a sorpresa la Juve con un gol di Manolas. Ad aspettare i giallorossi in finale c’è l’Inter. Alla vigilia della sfida la stampa dipinge la partita come la resa dei conti definitiva fra Totti e Spalletti e i due protagonisti non fanno nulla per abbassare la tensione. Il romanista si fa fotografare con una maglietta che ritrae la parte superiore della testa calva di Spalletti, il quale risponde definendolo “un bamboccione più che un Pupone”. In campo le squadre danno vita a una partita bloccata, che soltanto un guizzo di Icardi a tre minuti dal termine riesce a risolvere. Spalletti corre ad esultare mostrando la linguaccia a Totti, il quale perde completamente il controllo e lo colpisce al volto con un violentissimo pugno. L’ex capitano si dimette subito dopo la partita.

In un ambiente distrutto dalle polemiche, tocca ad Ezio Sella guidare la squadra per le restanti due partite. Le vittorie contro Sassuolo e Parma portano la Roma a superare in extremis la Lazio e a chiudere al quinto posto in classifica. Tutto è bene quel che finisce bene, o no?

Un allenatore spagnolo per far impazzire i tifosi

di Emanuele Atturo

Come sempre nelle situazioni di profonda crisi della Roma, nell’ambiente si sta facendo la conta dei colpevoli. In molti sostengono che la colpa maggiore sia dei giocatori, viziati e deresponsabilizzati da un ambiente che tende sempre a trovare un capro espiatorio diverso da loro; alcuni credono invece che il principale responsabile sia Eusebio Di Francesco, reo di aver inaridito tatticamente la squadra e di non averla più in mano psicologicamente; molti però, quasi tutti, credono che le colpe maggiori siano del Direttore sportivo Ramon Monchi, che avrebbe in due anni smontato, pezzo per pezzo, una rosa che appena due stagioni fa aveva chiuso con il record di punti della propria storia.

Le colpe che la tifoseria attribuisce al ds sono tante e diverse. In questi due anni Monchi è stato accusato di aver ceduto Salah a un prezzo stracciato; di aver venduto Strootman - giocatore simbolo della Roma - a mercato chiuso e due giorni dopo la nascita della sua prima figlia; di aver regalato Radja Nainggolan a una diretta concorrente; di aver fatto un mercato in entrata ancora poco comprensibile. Di aver comprato Davide Santon con nessun altro obiettivo che trollare la tifoseria. Per darvi una misura dell’insofferenza dei romanisti nei confronti di Monchi, qualche mese fa e per un certo periodo di tempo, il ds ha dovuto chiudere il proprio account Instagram ai commenti.

Cos’altro potrebbe fare Monchi per mandare fuori di testa i tifosi della Roma? Un modo ci sarebbe.

Potrebbe esonerare Eusebio Di Francesco ed assumere un allenatore spagnolo. Un tecnico completamente avulso dalle dinamiche dell’ambiente giallorosso, che potrebbe generare nei tifosi la paranoia di un complotto iberico in atto per sabotare la Roma. Monchi darebbe un altro segno di essere scollegato dalla realtà della Roma, qualcosa che lui stesso sembra temere. Solo qualche mese fa ha infatti dichiarato che se ha scelto Di Francesco è perché rispondeva a tutti i parametri da lui cercati: era italiano e conosceva bene l’ambiente, «C’era già un direttore sportivo straniero». Assumendo un allenatore spagnolo quindi Monchi verrebbe meno alle sue stesse parole. Eppure parliamoci chiaro: gli allenatori liberi in giro sono deprimenti, e i migliori di loro sono spagnoli. E Monchi poi potrebbe aver capito che se vuole fare il suo lavoro non deve più scendere a compromessi con le sue idee ma abbracciarle senza titubare.

Monchi allora potrebbe decidere di assumere Eduardo “El Toto” Berizzo. Il suo curriculum recente, a dir la verità, lascia a desiderare. Qualche settimana fa è stato esonerato dall’Athletic Bilbao dopo averlo portato fino in zona retrocessione (sarebbe la prima della sua storia) e un anno fa era stato cacciato dal Siviglia con la squadra in difficoltà e lui alle prese con un tumore. Una narrativa un po' triste, che lo aiuterebbe a farsi accettare a Roma, una città che sa essere crudele ma che è capace anche di grandi slanci d’amore.

Berizzo, poi, tatticamente sarebbe perfetto perché si iscriverebbe nel solco tracciato da Di Francesco. Quello di una squadra fisica, verticale e che giochi alla massima intensità. Anni fa si era parlato di un possibile arrivo di Marcelo Bielsa alla Roma, e visto che ora il profeta non si può prendere ci si può magari accontentare del suo delfino, ovvero Berizzo. La rosa è adattissima alle sue idee: Cristante, Zaniolo, Under, Pellegrini sono tutti giocatori che interpreterebbero bene il sistema ultra-verticale di Berizzo. La Roma tornerebbe ad essere una squadra di pressing e transizioni veloci, alternando anche momenti di gestione più paziente del possesso, con Pellegrini a dettare i tempi come faceva Orellana nel Celta. Certo, qualcuno ne sarebbe penalizzato, come Nzonzi o Dzeko, adatti a un gioco più riflessivo, ma insomma: una rivoluzione si fa senza i vecchi.

Berizzo non è certo l’unico spagnolo interessante su piazza. A Roma c’è qualcuno che sostiene che la squadra si esprimerebbe al suo massimo con il rombo a centrocampo, intasando gli spazi centrali. Ci sarebbero due vantaggi: si valorizzerebbero i tanti trequartisti comprati in estate; si metterebbe Schick finalmente nelle condizioni ideali per esprimersi, nell’unico sistema in cui finora è riuscito a dimostrare qualche segno di vita ad alti livelli. C’è un allenatore disponibile che sa mettere in campo un rombo brillante e solido difensivamente, come piace a noi italiani: Fran Escribà. Un nome talmente sconosciuto che farebbe sentire i tifosi della Roma vittime di un Truman Show in cui qualcuno vuole torturarli. Forse sarebbe troppo persino per un sadico come Monchi.

La verità è che dopo tanti anni in cui quello dell’allenatore è sembrato un problema irrisolvibile a Roma si chiede a gran voce un “big”. Un allenatore dal curriculum rassicurante, che possa restituire una prospettiva luminosa a una tifoseria che è passata in fretta dall’entusiasmo della semifinale di Champions alla più cupa depressione. Questo nome c’è, anche se magari non è esattamente quello che i tifosi della Roma si aspettano: Julen Lopetegui.

L’ex ct della Spagna è in una condizione disperata, accetterebbe qualsiasi panchina per rilanciarsi. A quanto pare ha provato a proporsi persino alla federazione statunitense come commissario tecnico, senza successo. Lopetegui è imbranato, psicologicamente fragile, buffo e con una certa tendenza a non capire cosa gli stia capitando attorno. Insomma, il profilo ideale per far impazzire i tifosi della Roma e per trasformare questo finale di stagione in una tragedia greca.

Eppure vale la pena ricordare che Lopetegui ha chiuso la propria esperienza con la Nazionale spagnola da imbattuto. Certo, l’esperienza al Real Madrid è stata un disastro. Certo, magari quella panchina era più grossa di quanto lui potesse sostenere, ma insomma, la Roma non è il Real Madrid. Finalmente ci sarebbe un allenatore in grado di impostare una fase d’attacco posizionale moderna e definita. Con un’uscita palla dal basso automatizzata e una certosina ricerca degli spazi di mezzo. Sarebbero valorizzati tutti i giocatori più bravi a giocare il pallone: Nzonzi, De Rossi, Pastore, Pellegrini, Kolarov troverebbe un terreno finalmente florido dove far fruttare il proprio istinto associativo, la propria intelligenza calcistica.

A Roma in queste settimane sono stati agitati i fantasmi più perversi, persino quello dell’anti-cristo Laurent Blanc - che secondo un mio amico sarebbe una soluzione ideale se non altro perché la Roma ha bisogno di un allenatore che odi Roma. Nessuno si è spinto però fino ad agitare il fantasma di Lopetegui o di qualche allenatore spagnolo. Eppure, se ci pensate, potrebbe essere la scelta più sadica ma anche la più intuitiva per un ds pazzo come Monchi, a cui si può rimproverare tutto ma di certo non il coraggio di prendere decisioni impopolari.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura