Il Milan aveva chiuso il 2024 nel modo mentalmente e tatticamente più sconsolante per una squadra di calcio. Aveva difeso un risultato di vantaggio in maniera assai rivedibile: lasciando Paulo Dybala libero di calciare al volo in piena area di rigore. La spiacevole circostanza aveva innescato il solito sterile scaricabarile di recriminazioni: colpa di Terracciano che l'ha mollato, anzi colpa di Theo Hernandez che non ha stretto abbastanza, anzi colpa di Thiaw troppo tenero nel contrasto precedente con Dovbyk.
Una compagnia teatrale che portava "Assassinio sull'Orient Express" (scusate lo spoiler) in giro per gli stadi di tutta Italia: responsabilità diffuse e soffuse, nessun villain davvero conclamato ma un senso di serpeggiante scollamento dilagato in tutte le intercapedini della squadra, da capitan Calabria a un Morata giù di tono ormai da due mesi, passando per il teen-ager Camarda agitato quasi per superstizione come uno straccio sacro in una processione religiosa. San Siro mugghiava di rabbia e insoddisfazione, prendendosela in primis con una dirigenza incompetente e inadeguata al prestigio di un brand che stava vivendo il paradosso di un presente economicamente sereno, col bilancio addirittura in attivo, ma sportivamente insignificante, ottavo in classifica a metà campionato dopo un'estate piena di errori e passi falsi.
Il Milan ha aperto il 2025 nel modo più esaltante e sconvolgente per una squadra di calcio. Dopo un'intera mezza stagione passata ad avvilirsi, senza mai riuscire a rimontare i tanti 0-1 (soprattutto in trasferta) incassati nel giro di quattro mesi, ha vinto di forza e d'orgoglio ribellandosi due volte in quattro giorni al corso naturale degli eventi, perdipiù contro le rivali storiche. Ha tenuto botta per un'ora contro un'ottima Juventus e poi ne ha raccolto i resti dopo che si era sfarinata senza preavviso, come succede alle squadre senza grande carattere.
Ha vinto un derby risalendo dall'abisso dello 0-2, cosa che non gli capitava dal febbraio 2004, Kakà Seedorf Rui Costa Shevchenko. Ha vinto una Supercoppa Italiana esotica e artificiale quanto si vuole, ma pur sempre una coppa, pur sempre qualcosa di allineato alla narrazione che il tifoso milanista, nonostante tutto, continua a pretendere dal proprio club. Ha insomma ridato lustro, assurdamente e senza alcun preavviso, a un concetto di Milan che sembrava perduto nelle foschie ben poco milanesi della new economy calcistica: una storia il cui sugo è il risultato sportivo e prima ancora l'impegno agonistico.
Il bagliore accecante che ha stordito l'Inter, iniziato con il 2-1 di Theo Hernandez e concluso con il 3-2 di Abraham, sembra uscito dall'universo della Marvel o da qualche altro spettacolare popcorn-movie: anche l'esultanza con sigaro e balletto di Sergio Conceiçao nella pancia dell'Al-Awwal Park ricorda Will Smith e Jeff Goldblum che camminano trionfanti alla fine di Independence Day.
E dunque eccoci al demiurgo di Coimbra, l'unico vero elemento di discontinuità del Milan 2025 rispetto al Milan 2024: e per presentarlo dobbiamo nuovamente addentrarci nelle mestizie del Milan (forse) passato, dal momento in cui la notizia del suo sbarco a Milano ha iniziato a circolare la sera del 29 dicembre in modo assai inusuale, a meno di mezz'ora dal calcio d'inizio di Milan-Roma, tamburellata nelle chat Whatsapp di tutta Italia senz'alcun rispetto per un allenatore di fatto licenziato subito prima di una grande partita, invece che subito dopo. L'estetica delle ultime ore di Paulo Fonseca ha avuto qualcosa di grottesco: abbandonato davanti a giornalisti impietositi di fronte alla solitudine di un uomo che sembrava davvero l'ultimo a sapere le cose, come certi mariti cornuti, e dava lui la notizia della propria morte (sportiva) a Peppe Di Stefano di Sky Sport appena fuori dal garage di San Siro. «È vero, sono fuori dal Milan», proclamava sereno e rassegnato, come un concorrente appena eliminato dal Grande Fratello. Un modo di fare talmente sgarbato e inelegante che ha portato a qualcosa di inaudito: Zlatan Ibrahimovic che chiede scusa pochi giorni dopo, come se Fonzie fosse finalmente riuscito a dire «ho sbagliato».
Questo era il quadro, un quadro in cui era sprofondato fino alla trasparenza Theo Hernandez, fino a luglio esterno sinistro titolare della Nazionale francese valutato 50-60 milioni di euro, poi regolarmente tra i peggiori in campo sotto la guida di Paulo Fonseca. Già a fine agosto aveva fatto parlare di sé per il clamoroso ammutinamento del cooling break di Lazio-Milan, trascinandosi dietro Rafa Leao come Lucignolo con Pinocchio nel Paese dei Balocchi. A dicembre ormai Theo non era più nemmeno un punto interrogativo. Nel torrido post-partita di Milan-Stella Rossa il suo allenatore lo aveva velatamente bollato di scarsa professionalità: «Io lavoro tutti i giorni per fare bene, non so se nella squadra tutti possono dire lo stesso», relegandolo poi in panchina nelle due partite successive a favore dello spagnolo Jimenez, proveniente dalla balbettante fucina del Milan Futuro che langue in zona retrocessione in Serie C.
Non che Fonseca avesse torto: in quella partita Hernandez si era fatto ammonire a fine primo tempo per aver scioccamente intralciato un'azione della Stella Rossa ributtando in campo un secondo pallone vagante sulla linea laterale. Un'ora dopo lo aveva superato in dissennatezza Fikayo Tomori, ammonito per proteste mentre si riscaldava a bordo campo (!): era pure diffidato, quindi avrebbe saltato la successiva Milan-Girona. Due settimane prima Davide Calabria era stato il primo responsabile del gol più mind-cracking subito dal Milan di Fonseca: in vantaggio 1-0 in casa dello Slovan Bratislava, tutta la squadra a cominciare dal suo capitano si era fatta sorprendere sbilanciatissima su un corner a favore, lasciando la propria metà campo completamente deserta alla mercé del volenteroso Tigran Barseghyan, libero di filare dritto davanti a Maignan. Hernandez, Tomori, Calabria: tre pilastri della vecchia guardia, tre titolari dello scudetto 2022, vinto in irripetibile comunione di idee e di spirito con figure ingombranti che hanno lasciato il Milan in modo piuttosto traumatico – su tutti Paolo Maldini, il cui fantasma continuava a volteggiare (sui social, ma non solo) sulle teste della dirigenza attuale.
Le dinamiche del suo addio non sono mai state del tutto digerite dai reduci del tricolore, che a volte hanno lambito atteggiamenti in aperta opposizione con la proprietà: per esempio, due ore dopo Milan-Genoa, scoccata la mezzanotte del giorno in cui il Milan compiva 125 anni, si sono tutti dati appuntamento sotto il post Instagram di auguri del loro ex dirigente, tempestandolo di like e commenti cuoriciosi insieme a ex compagni di alterne fortune rossonere come Tonali, Kalulu e Charles De Ketelaere, uno dei nervi scoperti nella tifoseria rossonera.
Un discorso a parte meritava Rafael Leao, protagonista suo malgrado di uno sconcertante equivoco tattico tra ottobre e novembre, quando Fonseca lo aveva lasciato in panchina per tre partite consecutive di campionato per motivi non meglio precisati, probabilmente attinenti a una scarsa vocazione al sacrificio in fase di non possesso. «Non corre, cammina, vergogna!», era il tono medio dei commenti del popolo social, favorevole all'adozione a tempo indeterminato del bastone contro il riottoso portoghese, i cui ultimi gol si perdevano nella bruma del tempo. Al suo posto lo svizzero Okafor, quasi sempre inconsistente e certo non più incisivo in difesa: vedere dove si trova ora Okafor, infortunato e con un piede fuori dal Milan in direzione Lipsia, è un'altra di quelle cose da cui sembra trascorso un secolo.
Leao parlava di malavoglia, usava la Nazionale per mandare messaggi cifrati come fanno tanti colleghi, e comunque si diceva allineato alla volontà del suo treinador: ma confrontate adesso quelle frasi piuttosto insipide con gli occhi sgranati e il tono convinto con cui lunedì sera ha espresso la netta cesura tra il prima e il dopo, parlando di voglia, entusiasmo, energia. E di rimando Conceiçao, senz'andare troppo per il sottile, di lui ha detto: deve sistemare due o tre cose e l'anno prossimo può essere uno dei tre migliori giocatori al mondo. Oppure le parole di Christian Pulisic, uno dei giocatori col maggior tasso di sale in zucca nella rosa del Milan 2024/25, uno dei pochissimi elementi di continuità tra l'anno vecchio e l'anno nuovo: «Conceiçao ci sta dando fame e intensità ogni giorno, anche in allenamento, e questo è più importante della tattica».
Questo Milan che va ben oltre il "riveduto e corretto", questo Milan scosso alle fondamenta da un elettroshock motivazionale che supera di gran lunga le intenzioni di chi ha scelto Conceiçao (già, chi l'ha scelto? tra poco ci arriviamo), adesso sarà alle prese con un suo grande problema: dare continuità alle imprese bellissime ma isolate che stanno punteggiando la sua stagione.
Dopo il derby di settembre, vinto ancora allo scadere con un gol di Gabbia, era arrivata una comoda vittoria sul Lecce ma anche due sconfitte a Leverkusen e Firenze che avevano fatto riprecipitare l'umore. Quattro giorni dopo l'impresa del Bernabeu, ottenuta di cuore, tigna e organizzazione difensiva, era arrivato un 3-3 a Cagliari maturato in circostanze imbarazzanti, con i sardi che avevano costruito un numero di palle-gol vicino alla doppia cifra. E sabato sera proprio il Cagliari darà a Sergio Conceiçao il bentornato in Serie A e a San Siro, uno stadio che nelle ultime due partite casalinghe del 2024 si era posto in aperta contestazione al modus operandi della proprietà statunitense. Sull'aria languida di "Sway" di Michael Bublé, il coro "Cardinale devi vendere" urlato dalla Curva Sud aveva scandito i primi e gli ultimi minuti di Milan-Roma, creando un'atmosfera surreale in cui quello che stava succedendo in campo, semplicemente, non interessava più.
Sarà a questo punto utile ricordare che la frase "Cardinale devi vendere" è esatta solo da un punto di vista formale: non si è davvero proprietari di un bene che si possiede, per ora, solo in prestito. Per potersi dire davvero padrone del Milan anche da un punto di vista sostanziale, il fondo Red Bird dovrà prima restituire il prestito da 700 milioni di euro sottoscritto con Elliott nel 2022 e recentemente rimodulato con scadenza rinviata al luglio 2028, data entro la quale dovrà rimborsare i rimanenti 489 milioni. Fanno riferimento a Elliott tante figure apicali dell'organigramma rossonero, dal CEO Giorgio Furlani al direttore tecnico Geoffrey Moncada, presente come capo-scouting già nella gestione precedente, fino al presidente Paolo Scaroni, ferocemente concentrato (qualcuno dice ossessionato) dal nuovo stadio. Il first man di Gerry Cardinale, ufficialmente Senior Advisor della proprietà, è Zlatan Ibrahimovic, l'elefante nella stanza.
Come suo costume, dopo la vittoria di Riad Ibrahimovic si è ripreso il centro del ring ed è tornato l'anima della festa: le foto e i video in cui arringa la squadra nello spogliatoio sono state abbondantemente ricondivise sui social. In molti hanno fatto notare il lato B del suo stile dirigenziale, quella poca voglia a esporsi nei momenti di bassa marea, che per esempio meno di un mese fa l'aveva portato a evitare la delegazione della Curva Sud ed entrare dal retro dell'Armani Silos, sede della festa dei 125 anni del Milan andata in scena la sera, dopo l'infelice Milan-Genoa 0-0 che aveva fatto esplodere la contestazione a San Siro.
In mancanza di indizi opposti, dovremo attribuire a Ibrahimovic la scelta dell'allenatore precedente a Conceiçao, se non altro perché fu Ibra ad affiancare Paulo Fonseca nella famigerata conferenza stampa dell'8 luglio in cui il nuovo tecnico aveva parlato incautamente dei suoi propositi di «squadra dominante» («Il gioco dominante sono i risultati», ha fatto sapere Conceiçao nel momento del suo insediamento). In altre occasioni Ibrahimovic si era tratteggiato da padreterno, paragonando la gestazione del suo Milan ai sette giorni della Creazione, per poi dipingersi come "boss" plenipotenziario in un'altra sciagurata intervista pre-match prima di Milan-Liverpool.
Anche per questi motivi, la sua popolarità presso l'ambiente è precipitata, fino allo spettacolo inaudito di un San Siro che lo ha fischiato a pieni polmoni ogni volta che lo ha visto comparire sul maxischermo durante Milan-Genoa, lui che era stato idolatrato al di là del bene e del male fino al 4 giugno 2023, data del suo ritiro da calciatore. E se Ibra diventava un bersaglio facile, la sua personalità ingombrante ne faceva l'ideale e inconsapevole parafulmine di tutti i mali tecnici del Milan, nascondendo le responsabilità altrui. In primis quelle di Furlani e Moncada, alla larga da tutti i microfoni in cui bisognava rispondere alla domanda delle domande: ma Fonseca, chi l'ha scelto?
Una scelta lunga e ponderata, in cui il Milan ha avuto il coraggio di scartare un nome fortissimo come Antonio Conte, che si era offerto personalmente in primavera prima di accettare la corte del Napoli, perché «volevamo un allenatore, non un manager» (sempre Ibra dixit, 8 luglio) e anche profili di prospettiva come Thiago Motta e Roberto De Zerbi. Chi l'ha scelto Fonseca? Il cosiddetto "gruppo di lavoro", che però ha schivato a ripetizione l'assunzione diretta di responsabilità, fino a lasciare sempre più solo il portoghese, a rischio esonero già alla quinta giornata (si salvò vincendo il derby), poi a ottobre, poi a novembre, in una parabola discendente inesorabile e inevitabile che ha ricordato quella di Rudi Garcia alla guida del Napoli 2023-2024: delegittimato prima da De Laurentiis e poi dallo spogliatoio che, non riconoscendo in lui un barlume di credibilità, ha iniziato apertamente a mancargli di rispetto.
Le parole un po' sgangherate di Fonseca dopo Atalanta-Milan, quando aveva attaccato frontalmente il direttore di gara La Penna fino a ventilare addirittura che l'Atalanta condizionasse il sistema, forse andavano interpretate in controluce: mi sento così abbandonato che non mi resta che spararle grosse – un giorno contro gli arbitri, un giorno contro i giocatori – per richiamare la vostra attenzione. Com'era prevedibile, non ha funzionato. Non poteva funzionare. Il Milan ha iniziato a strambare verso Conceiçao intorno a fine novembre: è stato scritto che la ghigliottina sarebbe calata già in caso di risultato negativo a Verona, ma la striminzita vittoria – conquistata in un clima emotivamente gelido, con sette difensori in campo nel finale per proteggere lo 0-1 – è servita ad allungare il brodo di un'altra settimana. Ad ogni modo, il dado era tratto: l'accordo con Conceiçao è stato trovato troppo rapidamente per non pensare male, e d'altra parte a detta di molti la nuova eminenza grigia che stava muovendo i fili, fino a diventare una specie di secondo consigliere di Gerry Cardinale, era Jorge Mendes, un uomo abituato a vestire i panni di dirigente occulto di numerose squadre europee.
Insomma, l'anno vecchio era finito con Ibra nell'occhio del ciclone e l'anno nuovo è iniziato con Zlatan nuovamente ras dello spogliatoio. Il 2024 era finito con un allenatore triste solitario y final che abbandonava il tempio dall'uscita di servizio ed è iniziato con un allenatore suo connazionale che ha già riportato le coppe al centro del villaggio, "un portoghese teso" che ha riacceso la corrente. Il 2024 era finito con troppi giocatori chiave infortunati oppure in preda a un inguaribile spleen, il 2025 è iniziato ritrovandoli mattatori: in sedici precedenti derby Theo Hernandez non aveva mai messo a referto un gol né un assist e negli ultimi incroci aveva molto sofferto Denzel Dumfries, ieri invece dominato nella ripresa fino a costringerlo a un fallo da ammonizione che – potenza della simbologia – rappresenta il centesimo cartellino conquistato da Theo per falli di gioco in cinque anni e mezzo di Milan. Il 2024 era finito con una proprietà contestatissima e invitata a sloggiare e nel 2025 la ritroviamo col fiore all'occhiello di un trofeo conquistato contro Juve e Inter: che San Siro troverà il Diavolo nella sua prima uscita casalinga dell'anno, mentre sfilerà con il cinquantesimo trofeo della propria storia?
In Emilia Pérez, il bellissimo film di Jacques Audiard che ha conquistato quattro Golden Globes e uscirà da noi questo weekend, il tema della transizione di genere è sviluppato sotto forma di un musical moderno e aggressivo, melodrammatico, appassionato e non meno divertente dei folli 97 minuti dell'Al-Awwal Park di Riad. Prima di potersi dire davvero felici, bisogna attraversare un limbo doloroso in cui si è contemporaneamente tutto e il suo contrario (medio rica, medio pobre, medio jefe, medio reina...). Senza voler mancare di rispetto a nessuno, una transizione calcistica non è meno faticosa: servono molto tempo, idee forti e chiarissime, i giusti specialisti, probabilmente tanti soldi.
Nonostante la Supercoppa, è probabile che il cammino sia ancora lungo, irregolare e lastricato di brutte sorprese. Ma presto o tardi questo deserto bisognerà iniziare ad attraversarlo: e dunque quale luogo migliore, e più adatto allo scopo, dell'Arabia Saudita?