Instant Memo
Guillermo Ochoa vive come se fosse prigioniero di un calendario dai cicli lunari personalizzati: scende in campo con la lucentezza del serpente piumato Quetzalcoatl, divinità della letteratura mesoamericana, quando si incarna in Ehecatl, il padrone del vento, e con il solo respiro sa muovere il sole e allontanare la pioggia. Ochoa si trasforma per due o tre settimane, ogni quattro anni.
In quel periodo di tempo ristretto, Memo Ochoa è tra i portieri più forti del mondo: i Mondiali sanno compiere meglio di qualsiasi altra competizione la magia della mitopoiesi. E quando finiscono ci spingono a chiederci dov’è che vada, Guillermo, quando il Messico si dissolve (normalmente agli ottavi) e lui scompare in un oblio simile a quello del Mitclan, il cammino del mondo sotterraneo che secondo la mitologia azteca i morti devono intraprendere per guadagnarsi la redenzione.
Dove va Guillermo Ochoa non soffia un vento tagliente, non ci sono deserti, né fulmini o nebbie accecanti che incutono timore, ma solo scelte discutibili, svolte controintuitive, con risvolti spesso ingenerosi. La vita sportiva di Memo Ochoa a cavallo tra un Mondiale e l’altro è la più grande lezione mai impartita su quanto la fama sappia essere fluttuante. Viene quasi da pensare che il letargo autoimposto (nel campionato francese, in quello spagnolo o in quello belga, sempre in squadre di seconda fascia o peggio) sia per qualche strana ragione funzionale alla sua resilienza, e le vampate mondiali una maniera come un’altra per alimentare la fiamma dei rimpianti. La pausa come strumento necessario, così che la sua parabola somigli in qualche modo all’esistenza dei luchadores quando tolgono la maschera, dopo un combattimento, nell’attesa del prossimo.
Ci sono due registri possibili, per intessere una narrazione della vita di Memo: uno ha a che fare con il destino, con la fatalità, con le occasioni perse o non sfruttate. L’altro con i suoi limiti, non necessariamente tecnici, non sempre e solo di personalità.
Perché Guillermo Ochoa rimane pur sempre il primo portiere messicano a essere sbarcato in Europa, ad aver partecipato a tre mondiali (di cui due da protagonista assoluto), ad aver raccolto - e forse in qualche maniera portato oltre - l’eredità di Jorge Campos.
Un eroe buffo, che gioca adeguandosi ai criteri della pragmaticità ma allo stesso tempo ama i calembour, che sceglie di indossare la maglia con il numero 8 perché in spagnolo richiama il suo nome, ma anche la 13 perché è nato di venerdì 13, e ha esordito un giorno, il 13 giugno del 2004, in una partita in cui il fischio d’inizio era fissato per le 13.
Il vangelo di Memo
I Vangeli sono pieni di dialoghi ad effetto: quello secondo Memo racconta che Leo Beenhaker, all’epoca allenatore del Club América, gli si sia avvicinato il giorno prima di una partita casalinga contro il Monterrey. Lo aveva osservato da vicino nelle giovanili: ne era rimasto colpito, e l’aveva aggregato alla prima squadra. Il fato aveva voluto che poche settimane più tardi Adolfo Ríos, “el portero de Cristo”, il titolare, si infortunasse nell’allenamento di rifinitura prima del match contro il Monterrey. Leo si era allora avvicinato a Memo, e gli aveva chiesto quale fosse il suo più grande desiderio. «Giocare per l’América», aveva risposto sicuro Ochoa.
All’una del giorno successivo si era trovato, appena diciannovenne, al centro dell’immensità dello Stadio Azteca.
La prima partita di Ochoa non è una rivelazione. Anzi, è piuttosto imbarazzante.
I primi tre tiri che arrivano dalle sue parti si trasformano in due reti subite, e una traversa. Non sembra padrone del reparto, né della sua emotività. Il tuffo plastico con cui raccoglie il primo pallone da portiere di uno dei club più gloriosi della storia del calcio messicano è un tentativo goffo di liberarsi dall’imbarazzo.
I Vangeli, però, sono pieni anche di storie edificanti sulla perseveranza. Il Vangelo secondo Memo dice che si è trovato a vivere un apprendistato turbolento, a dover accelerare la presa di coscienza del suo ruolo nel mondo tra i pali di una delle squadre più criticate, e più al centro delle polemiche, del Paese. Era giovane, era bello, con il passare del tempo aveva sviluppato un certo carisma: aveva tutti i crismi per incarnare l’archetipo di portiere del futuro.
Foto di Kevin C. Cox / Getty Images.
Secondo i più maligni, Ochoa non è mai stato padrone del suo destino. Casomai, questo era nelle mani di Televisa.
Televisa è il principale gruppo radio-televisivo del Messico, proprietaria del pacchetto di maggioranza del Club América. Televisa è la principale produttrice di telenovelas dell’America Latina: una fucina di idoli popolari. Guillermo Ochoa era un pezzo d’argilla troppo invitante, da modellare. Oltre che in campo, Televisa aveva tutto l’interesse a farlo comparire. Nelle telenovelas, nelle pagine dei rotocalchi rosa. La sua ascesa non conosce rese: oltre che famoso, iperesposto, però, Ochoa è anche un signor portiere. Nel giro di tre anni diventa la figura principale del Club América. Diego Armando Maradona, quando lo vede giocare (e perdere) la finale di Sudamericana contro gli argentini dell’Arsenal de Sarandi (in cui giocava il Papu Gómez), dice che è «un arquerazo, uno dei tre migliori portieri del mondo».
Si guadagna la titolarità della “Tri”, che sta vivendo un’epoca di transizione in quanto a iconicità dei suoi portieri, per la Copa América del 2007. Il Messico arriva terzo, Ochoa ha ventidue anni e gode di una considerazione di pubblico così alta da rientrare tra i primi trenta nella lista per il Pallone d’Oro. EA Sports lo sceglie, insieme a Jozy Altidore, per la copertina di FIFA per il mercato nordamericano.
Nei Vangeli serpeggia sempre, latente, la sensazione che quello che il Signore ti sta dando, in un attimo può togliertelo. Dopo aver giocato tutte le partite di qualificazione al Mondiale sudafricano da titolare, Ochoa è pronto per la consacrazione. In un programma comico prodotto da Televisa fa un cammeo in cui recita una frase che dice «Non c’è nessuno meglio di me. Se non ci credi, chiedi ad Aguirre». Il pubblico applaude convinto.
Javier Aguirre è il CT della Nazionale, ed è tutt’altro che d’accordo. Per difendere i pali del Tri in Africa sceglie Oscar “Conejo” Pérez. Ufficialmente per una specie di fiducia immotivata nei veterani; forse, è solo spaventato dal clamore mediatico che Ochoa sa attrarre, e che può rivelarsi deleterio, alla lunga, per il gruppo.
In quel momento Ochoa capisce che se vuole davvero emergere forse è il caso di lasciarsi alle spalle il Messico, Televisa, la vita da starlette mediatica, e cercare di farsi strada - da portiere - in Europa.
Il sapore aspro delle consonanti dolci
C’è sempre stato un dettaglio, una stortura, a sottrarci - spesso in extremis - la possibilità di vedere Ochoa nel cosiddetto "calcio che conta". Poco prima del Mondiale sudafricano, il Milan lo seguiva con interesse. L’esclusione di Aguirre aveva raffreddato l’interesse dei rossoneri, ma non quello del Fulham. Un giorno Ochoa sale su un aereo che, dopo uno scalo a New York, l’avrebbe portato a Londra per le visite mediche e la firma del contratto.
Di tanti compagni di viaggio che ti possono capitare, quando sei un calciatore in incognito, non metti mai in conto che possa trovarti seduto vicino il direttore di un quotidiano sportivo e ti ascolta per caso mentre dici all’hostess, che ti sta chiedendo «destinazione finale?», «Londra». Rafael Ocampo, nel giro di tre tweet, pregiudica il trasferimento di Memo in Europa. Il discorso che fa Ocampo, a posteriori, non è per niente normale, in termini deontologici. «Se mi avesse chiesto di tacere», dice, «se mi avesse detto “guarda, così mi fai saltare la carriera”, forse non avrei scritto quei tweet». «Invece niente: zero consapevolezza», aggiunge, come se si potesse fargliene una colpa.
Un anno più tardi il Messico vince la Copa de Oro, ma Ochoa non c’è. A inizio torneo cinque giocatori sono stati trovati positivi, durante un controllo antidoping, al clenbuterolo, uno stimolante. Durante la conferenza stampa il suo nome è l’ultimo, e quello più eclatante, perché è il portiere titolare, uno dei prospetti più interessanti. Il PSG, che ha un precontratto stilato col suo procuratore, si muove subito su altre piste: per Ochoa c’è il rischio di una sospensione importante, tesserarlo è un gioco che potrebbe non valere la candela.
Andrés Guardado, alla premiazione, sale con i guanti da portiere dell’amico: quando si scoprirà che le tracce di clenbuterolo provenivano da un’intossicazione alimentare (e tre anni più tardi, durante il ritiro prima dei Mondiali in Messico, “el piojo” Herrera proibirà di mangiare carne di manzo, quella in cui più facilmente si annidano i residui della molecola illegale) sarà troppo tardi.
Questo è lo sfondo del suo secondo mancato trasferimento, il più importante, quello al PSG che (come altre squadre a lui interessate, tipo il Manchester United) perde fiducia in lui dopo la notizia della positività. Ochoa è ancora in Francia col suo procuratore quando viene a sapere che Sirigu ha firmato per il PSG al posto suo. Nell’hotel vicino all’aeroporto di Marsiglia in cui soggiorna, allora, si presenta la dirigenza dell’Ajaccio, con un contratto semplice e un’offerta genuina, come immaginiamo ogni cosa che venga dalla Corsica: il presidente gli dice che non importa quanto dovrà aspettare, e hai visto mai non dovessero revocare la squalifica loro lo aspetterebbero per sempre, lottando al suo fianco se necessario. Memo, allora, si decide. E firma.
Su France Football si fa largo l’ipotesi che a spingerlo a firmare per i corsi sia stata Televisa, che aveva già acquistato i diritti della Ligue1 convinta che Memo avrebbe giocato per il PSG, e non può vedere sfumare l’affare di piazzare il suo giocatore di maggior prestigio in un contesto di business così nuovo e stimolante.
Tutto sommato, all’Ajaccio Ochoa si dimostra il buon portiere, a volte ottimo, che è. Alla fine della prima stagione viene premiato come secondo miglior estremo difensore del campionato, alle spalle di Lloris. E durante il suo passaggio in Ligue1 ha giocato partite in cui sembrava avesse una calamita nascosta nei guantoni: in media compie cinque parate a partita, a volte è una muraglia invalicabile, come in un match contro il PSG in cui mette a segno dodici parate, tutte decisive.
L’ultima stagione che gioca in Francia è quella che lo accompagna al Mondiale brasiliano. L’Ajaccio, nonostante il suo contributo, retrocede, e Ochoa è a fine contratto. Quando atterra a Fortaleza è, a tutti gli effetti, un free agent. E la sua carriera tutta da riscrivere, da capo.
Resurrezione?
«Memo ha uno stile di gioco particolare, che non condivido». Le parole sono di Miguel Herrera e sono le prime che il nuovo CT del “Tri” esprime in conferenza stampa, quando vuole cercare di far capire come ha intenzione di giocare, e che profilo di portiere ha in mente per il suo Messico. Sembrano le parole di Mictlantecuhtli, pronunciate all’ennesimo ingresso di Ochoa nel mondo sotterraneo.
Memo e “el Piojo” insieme, in due maschere grottesche, gioiose e inquietanti come le calaveras nel Día de los muertos. Nello sguardo dubbioso puntato verso l’orizzonte del tifoso col sombrero ci siamo noi, ogni volta che vediamo Ochoa a un Mondiale, e sappiamo che lo perderemo di vista.
È pacifico che sia in Brasile che Ochoa esplode. Precisamente in una gara della fase a gironi, contro i padroni di casa, quando forse gioca la migliore partita della sua vita. «Ci sono sere in cui vai là fuori e sembra che il pallone ti rimbalzi addosso anche se chiudi gli occhi», dirà di quella serata.
I due minuti di highlights di quella partita sono la celebrazione del suo istinto, della sua onnipresenza, ma anche della sua tecnica: la respinta sul colpo di testa di Neymar sembra la parata di Gordon Banks che qualcuno ha definito la più grande di tutti i tempi.
Anche se sappiamo benissimo che novanta minuti non possono essere significativi di niente, in quei novanta minuti si cristallizza l'idea dell’Ochoa insuperabile, dell’Ochoa muraglia, funzionale a renderlo un meme tanto istantaneo quanto spendibile ad anni di distanza. Tipo quando Erika Andiola, capo ufficio stampa di Bernie Saunders durante le presidenziali, ne evocherà l’essenza in un tweet con tanto di menzione a Donald Trump: il Messico ce l’ha già, un muro, Donnie.
Com’è possibile che quel portiere sia arrivato al punto di non avere una squadra?
A questo punto sembrerebbe facile identificare la risposta nel nome del suo procuratore, Jorge Berlanga. Alla fine del Mondiale, il costaricense Keylor Navas verrà ingaggiato dal Real Madrid. Ochoa, invece, firmerà per il Malaga. Perché Berlanga non è stato in grado di far approdare il suo assistito a una piazza più prestigiosa?
Va detto che Ochoa - ed è un tema ricorrente anche in questi ultimi tempi, in cui viene accostato al Napoli - non ha un passaporto comunitario. Ed è complicato che una squadra di livello, in Europa, decida di occupare uno degli slot destinati agli extracomunitari per un giocatore che non sia di movimento. Il tono con cui Berlanga sostiene questa tesi, però, suona sempre troppo autoassolutorio.
Nonostante certi tifosi dell’Ajaccio siano arrivati a mettersi in vendita tutto, pure la casa e la madre, pur di trattenerlo in Corsica, Ochoa firma quindi per il Malaga. I dirigenti sono entusiasti, e sono i primi a volerlo con tutte le forze. I tifosi, la stampa, hanno tutti ancora negli occhi le sue prestazioni al Mondiale. Javi Gracia, però, ha altri piani. «Mi avevano fatto delle promesse», dirà Ochoa con un filo di malinconia. «Nessuno le ha mantenute».
Carlos Kameni è in Liga da dieci anni. Il portiere camerunense, che all’Espanyol ha frantumato il record di imbattibilità di N’Kono, è il titolare nella testa dell’allenatore. E non c’è niente che possa smuoverlo. Ochoa si trova a essere inamovibile nella sua Nazionale, e al tempo stesso riserva fissa, senza possibilità d’appello, nel suo club. Un paradosso al quale ha fatto l’abitudine.
Quello che poteva sembrare un passo avanti, quel salto di qualità che era lecito aspettarsi, si trasforma in una gigantesca parentesi. In un’intervista Kameni racconta di non avere alcun tipo di relazione con Ochoa, che dopo la seconda partita ha smesso pure di rivolgergli la parola. Non è difficile comprenderne la frustrazione: Ochoa firma per gli andalusi il 1 Agosto 2014 e scende in campo per la prima volta da titolare il 5 Marzo. Però del 2016, dopo 64 partite in panchina.
Le possibilità di mettersi in mostra cominciano a spuntare, con tempismo perfetto, quando Osorio diventa il nuovo CT del Messico, e le gerarchie vengono messe nuovamente in discussione. Sembra incredibile, ma la chiave del Paradosso Ochoa è tutta qua: quando tutto sembra un pretesto che concorre alla sua disintegrazione, Memo risorge. Quindi certo, ovviamente riesce a guadagnarsi un posto per la Copa América Centenario, in cui “el profe” ruota i portieri a sua disposizione. Ma arrivati a questo punto non deve suonare sorprendente lo sviluppo della storia: indovinate in quale partita Ochoa si trova a essere titolare?
Messico 0 - Cile 7.
È capitato a ognuno di noi di farlo, almeno una volta nella vita, perché è un pensiero saggio, oltre che ragionevole: se non vuoi abbassare l’asticella delle tue ambizioni devi trovare un percorso alternativo. Anche più tortuoso, se necessario. Nella testa di Ochoa, il percorso della sua realizzazione coincideva con un trasferimento in una piazza giovane, entusiasta, in cui avrebbe potuto tornare a essere titolare. Granada, però, si è rivelata un cul-de-sac: nella stagione all’ombra dell’Alhambra è diventato il portiere con più reti subite nella storia della società in Liga (82), ma paradossalmente anche quello capace di compiere più parate nell’arco del campionato, 1.66 in media per partita. Due statistiche non necessariamente contrastanti, allineate al caos ordinato della sua narrazione.
«Per me Memo può giocare in ogni squadra», ha detto di lui Jorge Campos. «Ha grandi riflessi, e non significa niente che abbia preso tutti quei gol, perché il rendimento di un portiere dipende sempre anche da quello della difesa che ha davanti».
Nell’estate del 2017, Ochoa firma per lo Standard Liegi.
«Per lui vivere in Europa è diventato più importante del livello della competizione che sceglie per mettersi alla prova», lo criticano su Televisa. «Il problema è che la stampa messicana non riesce a vivere senza usare la parola “insuccesso”», replica Memo. Per il quale è solo, e sempre, una questione di attitudine.
Carlos Hermosillo è stato il primo calciatore messicano a indossare la maglia dello Standard, nei lontani anni ‘80. Secondo lui il trasferimento in Belgio «è un passo indietro, tornerà a vivere le stesse delusioni che ha già vissuto». L’attaccante probabilmente modula il suo punto di vista sulla base dell’esperienza personale, lo mette in guardia sul fatto che «è un posto freddo, con un sacco di pioggia, e pure i giocatori sono freddi: non ti aiutano in niente». Ma il mondo, figuriamoci quello del calcio, è cambiato tantissimo in vent’anni. «Io davvero non capisco perché firmi sempre per squadre che non lo valorizzano», chiude Hermosillo.
Come sempre, quello che per qualcuno sembra lo scenario peggiore possibile finisce per rivelarsi tutto il contrario per i diretti interessati. La società belga crea addirittura un ochoametro, una specie di strumento di misurazione delle sue prestazioni, che sono sfacciatamente positive e che gli ispirano una ritrovata fiducia in se stesso: a fine stagione c’è finalmente un nuovo Mondiale. E se la vera dimensione di Memo fosse questa?
Oggi è più di un mese che il Messico è stato eliminato dal Mondiale di Russia. Come sempre, agli ottavi. Ovviamente Ochoa è fuoriuscito dalla criogenesi per tornare a ricordarci che esiste un grande portiere, dall’altra parte dell’oceano, che non abbiamo ancora visto con la regolarità che meriterebbe in Champions League, o in un campionato davvero performante.
A 33 anni, nella sua piena maturità atletica, potrebbe trovarsi di fronte all’ultima vera possibilità di fuoriuscire dalla gabbia dorata in cui vive prigioniero da quasi un decennio, e di ridefinire la sua legacy. Il futuro ci dirà se l’ipotesi di vederlo in Italia, al Napoli, sia davvero reale. Quel che è certo è che Guillermo Ochoa è stato a suo modo un apripista. Senza le sue performance ogni quattro anni forse i giovani portieri messicani - Raul Gaudino o Abraham Romero - non avrebbero mai avuto l’opportunità di giocarsi una chance in Europa.
Sarebbe davvero triste se Memo Ochoa perdesse anche quest'ultima occasione. Di lui ci resterebbe solo quell'impressione fugace anche se intensa, il ricordo di un portiere che ogni quattro anni compariva praticamente dal nulla con lo sguardo concentrato e malinconico, e che per quelle due o tre settimane sembrava uno dei portieri più forti al mondo.