Sono passati due mesi dalla nostra ultima partita e mi ritrovo spesso a pensare al calciotto come a qualcosa appartenente a un periodo passato, agli anni del liceo, forse addirittura all’infanzia. Avremmo dovuto giocare lunedì 9 marzo, ma già prima che venisse annunciato il lockdown avevamo deciso di annullare la prenotazione del campo.
Non sapevamo quanto tempo avremmo dovuto aspettare prima di poter giocare di nuovo insieme e non lo sappiamo neanche oggi, ma sono i dettagli di quella normalità a sembrarmi fantascienza. Voglio dire, se le cose non tornano velocemente come erano prima il giorno in cui racconterò a mia figlia – che adesso ha quindici mesi e si è abituata a vedermi uscire di casa con la maschera e aprire il portone con il gomito – cos’era il calciotto le sembrerà una realtà lontana quanto quella descritta dai miei parenti più anziani quando ero piccolo io: il mondo della Seconda Guerra Mondiale, in cui uno aveva campato vendendo sigarette di contrabbando alla stazione Termini, un altro uccidendo conigli sulle montagne in Abruzzo. Sono nato all’inizio anni Ottanta e nella mia vita ho vissuto qualche cambiamento: mio nonno vendeva macchine da scrivere, sono cresciuto senza cellulare e mi sono diplomato senza internet. Sapevo che a un certo punto il mondo intorno a me sarebbe cambiato e mi sarei sentito tagliato fuori, perché lo avevo visto succedere alle persone a cui volevo bene: a mio nonno che a un certo punto ha smesso di vendere macchine da scrivere e a mio padre quando a settant’anni pensava che i post su Facebook fossero rivolti a lui: ogni video di YouTube, ogni articolo condiviso, ogni post che commentava l’attualità politica, leggeva il suo intero feed come la casella dei messaggi diretti. Non pensavo però che mi sarei sentito parte del passato così da un giorno all’altro, a neanche quarant’anni: un mondo in cui non è sicuro giocare a calcio con gli amici non è più il mondo.
Il giorno della partita c’era sempre qualcuno che si tirava indietro. Perché magari pioveva o faceva freddo. Perché giocavamo troppo presto o troppo tardi. Per un impegno lavorativo improvviso, un problema alla macchina, o qualcosa di più serio – una volta a uno del gruppo è morto il cane il giorno della partita. Mi manca l’ansia di avere un giocatore in meno, a volte persino due. Nessuno di noi era l’organizzatore ufficiale del calciotto, ringraziando dio, l’ansia era condivisa: scarrellavamo le nostre rubriche WhatsApp e ci aggiornavamo appena uno trovava un amico disposto a venire con poco preavviso; oppure scrivevamo post pubblici sperando che per una volta Facebook fosse veramente utile a qualcosa.
Nei periodi migliori invece eravamo troppi e quelli arrivati troppo tardi sul gruppo restavano fuori. Avevamo creato un sistema che non era perfetto ma ci sembrava quanto meno il più giusto possibile: avevamo un gruppo chiuso in cui uno di noi pubblicava il venerdì un post per la partita del lunedì dopo e nei commenti ci si segnava per rientrare nei sedici. Se qualcuno rimaneva fuori veniva automaticamente iscritto alla partita della settimana successiva.
Avevamo un’applicazione che chiamavamo «Cervellone» dove inserire i valori dei giocatori per fargli calcolare le formazioni più equilibrate: le pubblicavamo qualche ora prima della partita e passavamo il resto del tempo a litigare dicendoci che erano squilibrate. Il Cervellone tendeva a creare partite «attacco contro difesa», ma alla fine aveva quasi sempre ragione: venivano fuori partite tese che finivano con uno o due gol di scarto al massimo. Dopo un po’ il Cervellone sembrava conoscerci meglio di quanto ci conoscessimo noi stessi: se aveva messo insieme una squadra che dopo aver segnato tre gol di fila si rilassava, in qualche modo aveva compensato con una squadra magari meno tecnica ma con il carattere per recuperare lo svantaggio.
L’ora della partita sembrava non arrivare mai e poi, all’improvviso, mi accorgevo che se non mi fossi sbrigato ad andare a casa a fare la borsa sarei arrivato in ritardo. In realtà arrivavo sempre in anticipo, uno dei primi. A volte così in anticipo che nello spogliatoio ascoltavo musica o leggevo aspettando arrivasse almeno un’altra persona prima di cominciare a cambiarmi. Una delle cose che mi manca di più, oggi, è uscire di casa con la borsa a tracolla e quella specie di fretta infantile che mi faceva svegliare all’alba i giorni della partita quando avevo dodici o tredici anni.
Giocavamo sempre nello stesso posto con un magazziniere straniero di cattivo umore. I primi tempi noi protestavamo perché non ci lasciava giocare dieci minuti in più e lui ci odiava perché una volta uno di noi si era portato le chiavi a casa dopo la doccia e le aveva perse. È bastato che un giorno gli chiedessimo «come va» perché il nostro rapporto cambiasse, continuava a essere di cattivo umore ma c’era cordialità, ogni tanto scambiavamo due parole prima o dopo la partita. Come era facile immaginare anche prima che ce lo dicesse (ma certe cose ce le devono raccontare perché diventino reali) la sua vita è piuttosto faticosa e non ha molte garanzie, mi chiedo come se la sta cavando in questo periodo.
Quando facevamo le squadre sceglievamo anche il colore della maglie, così da non dover indossare i «fratini» sudati della partita prima, ma c’era sempre qualcuno che si presentava con la maglia verde, gialla o arancione. Uno giocava con la bandana in testa e gli occhiali, un’altro con dei pantaloncini corti che pareva un giocatore di basket degli anni ‘70. I collezionisti sfoggiavano le loro maglie più belle e ricercate: nazionali il più remote possibile, oppure vecchi design di grandi squadre, River, Barça, Inter, con sopra giocatori culto (Overmars, Fiore, D’Ambrosio), non c’era nessun Messi, nessun Totti. Mi mancano quegli spogliatoi senza riscaldamento. Mi manca sentire freddo d’inverno, quando toglievo il maglione e restavo a torso nudo prima di infilare la maglia termica. Mi manca anche il freddo delle panche metalliche sotto le cosce mentre infilavo i calzini. Mi manca mettere gli scarpini stretti, con le unghie dei piedi che iniziavano subito a farmi male.
Nei pochi metri che andavano dallo spogliatoio al campo mi sentivo sempre pieno di energia – mi immaginavo entrare sul tappeto d’erba di quarta generazione con la corsa fiera di Ballack, pur consapevole che visto dall’esterno ero solo uno con i capelli grigi che correva piano con le ginocchia sempre più basse. Se c’era già qualcuno in campo facevamo qualche giro correndo e parlando (mi manca sapere come vanno i loro lavori, oggi ho paura a chiederglielo) poi ci scaldavamo con un paio di lanci e passaggi brevi. Oppure, una cosa che faccio da sempre, alzavo un campanile il più alto possibile e la persona più vicina doveva provare a stopparla. Poi, quando eravamo abbastanza in campo ma non ancora tutti, calciavamo in porta anche se eravamo freddi. Ho visto fare grandissimi gol nel riscaldamento, palle messe di esterno collo sotto l’incrocio più lontano come se niente fosse, a gente che magari in partita mandava tiri simili in fallo laterale.
Mi manca fare la conta per la porta, anche se trovo ridicolo che non avessimo dei portieri di ruolo. Io sono incapace tra i pali, ma ce ne erano almeno un paio peggiori di me. Uno di noi aveva problemi seri a vedere il pallone quando arrivava troppo veloce, un altro si faceva passare i tiri rasoterra sotto la suola. Mi manca persino incazzarmi dopo aver subito un gol di questo tipo. Ogni volta che cambiava il portiere cambiava anche il resto della formazione. Alcuni specialisti potevano fare solo uno o due ruoli ma in genere ognuno di noi cambiava posizione più volte nella stessa partita.
Era impossibile sapere in anticipo come la maggiore di noi avrebbe giocato, la forbice tra la nostra prestazione migliore e la peggiore era troppo ampia. I più scarsi tra di noi hanno segnato alcuni dei gol più belli che io ricordi, allo stesso tempo i migliori hanno fatto perdere la propria squadra una dozzina di volte con prestazioni deludenti. Io, dopo il primo pallone toccato mi dicevo «ecco, oggi non è giornata», oppure l’esatto contrario, ma quasi sempre mi sbagliavo. Dovevo giocare fino alla fine per capire che tipo di giornata sarebbe stata.
Mi manca calciare in porta da lontanissimo. Calciavo sempre, soprattutto al volo. Dentro di me c’è un piccolo Lampard disposto a fallire mille volte per gioirne una sola. Quando calciavo la palla oltre la rete che affacciava sulla strada dovevo fare un giro lungo, percorrere due lati del campo sul marciapiede, stando attento a non scivolare con i tacchetti di plastica, sperando che la palla non si fosse infilata in qualche buco in cui l’avrei mai trovata o che nessuno l’avesse rubata, piegandomi a cercare sotto le auto parcheggiate, come quando avevo sei anni.
Alcuni del gruppo hanno iniziato a fare sport a trent’anni, altri hanno giocato da giovani. Ma anche quelli che avevano imparato giocando, settimana dopo settimana, erano riusciti a capire come allargare i gomiti mentre correvano così da tenere a distanza l’avversario, come entrare nei contrasti in modo da non farsi male e non lasciare che la palla gli venisse sottratta senza lottare. In area di rigore i più alti si marcavano a vicenda e anche se nessuno di noi è scorretto c’era spesso della maleducazione nel modo in cui ci spingevamo per prendere posizione.
I gol di testa, d’altra parte, erano rarissimi, anche perché pochi di noi sapevano crossare bene. C’erano partite in cui faticavamo a fare due passaggi di fila, in cui nessuno stoppava decentemente un pallone. Altre in cui costruivamo l’azione dalla difesa e andavamo in porta con una trama di passaggi che avrebbe reso orgoglioso Guardiola. Magari uno di noi si cacava un gol da mezzo metro dalla porta e cinque minuti dopo un altro la metteva sotto l’incrocio da poco dopo il centrocampo. Quasi dopo ogni gol c’era un abbraccio sentito, quando poi segnavamo gol importanti a fine partita capitava anche che ci ammucchiassimo tutti l’uno sopra all’altro come i calciatori «veri». In quei momenti sapevamo di essere ridicoli, ma non ce ne fregava un cazzo.
Mi manca quello che non correva se non gli passa la palla e giocava solo di prima, quando possibile di tacco. Oppure quello che quando alzavo la testa per passargliela scappava il più lontano possibile neanche fossi stato Pirlo, io, e lui Bergkamp. O, ancora, quello che abbassava la testa e trascinava a spallate la difesa avversaria verso la propria area. Mi mancano quei due o tre che entravano duro, quello che se aveva piovuto scivolava sull’erba bagnata anche se noi dopo gli dicevamo che era pericoloso. Ma anche quello che dopo ogni fallo subìto gridava come Ronaldo il 21 novembre 1999. A qualcuno magari mancano le mie grida di rimprovero, chissà.
C’erano volte in cui discutevo per ogni fallo e finivo a chiamare punizioni per ripicca. Uscivo dal campo frustrato e ci mettevo un po’ prima di uscire da quella modalità inutilmente ipercompetiva. Ma c’erano anche partite in cui ero contento pur avendo perso, pur avendo giocato male. C’era sempre la settimana dopo per rifarsi. Quando l’ora di gioco stava per scadere, fuori dal cancelletto d’ingresso del campo cominciavano ad assemblarsi quelli della partita dopo: ci facevano giocare con un’ansia nuova, che ci dava qualche energia in più. Quando la voce dal megafono ci diceva che la nostra ora era finita noi continuavamo a giocare lo stesso, ogni azione era «l’ultima azione», finche quelli del turno successivo aprivano la porta e occupavano il campo o il magazziniere veniva a chiamarci di persona con la sua faccia incazzata.
Alla fine ci stringevamo la mano e sbattevamo l’uno il proprio petto sudato su quello dell’altro. Facevamo la doccia prestandoci le ciabatte, i phon, a volte anche gli asciugamani. L’acqua degli spogliatoi aveva qualcosa di viscido dentro che la rendeva oleosa, non passavamo troppo sotto il getto. Ogni tanto qualcuno aveva dimenticato le mutande e andava via con i pantaloni «a pelle». Raccoglievamo i soldi sulle panche, mancava sempre qualche euro. D’inverno, uscendo dal vapore dello spogliatoio, il freddo era scioccante e se ero venuto in motorino mi maledivo. A volte pioveva persino.
Da quando ho sei anni sono lento a farmi la doccia e ancora recentemente uscivo sempre tra gli ultimi. Qualcuno se n’era già andato salutando, qualcun altro era fuori con una birra in mano o una sigaretta in bocca. Commentavamo la partita prima di tornare a casa ma avremmo proseguito anche nei giorni successivi, di persona con quelli che vedevo e sul gruppo con gli altri. A turno, uno di noi scriveva le pagelle su Facebook: erano più o meno scritte bene e ricercate e alcune erano dei veri capolavori, anche se talmente autoreferenziali che sarebbe inutile riportarne stralci.
Torneremo mai a giocare? E che calciotto sarà? Uno senza doccia in comune, senza abbracci dopo i gol, con il trash-talking attutito dalle mascherine? Un calciotto senza contatto giocato da gente che non sa stoppare un pallone? Sarà come la musica senza concerti Ho chiesto ai miei compagni di calciotto cosa gli manca delle nostre partite in questo periodo. Uno di loro mi ha scritto: «Vivo in una dimensione sempre proiettata alla prossima azione, alla prossima partita e, anche se ho 38 anni, nella prossima cosa in cui posso “migliorare”. Questa prospettiva mi manca un botto». Non è detto che ci sarà una prossima azione, una prossima partita, un’altra occasione per migliorarsi. Il calciotto è diventato il nostro passato, una cosa che facevamo.
Da quando eravamo semplici fidanzati conviventi, quando torno a casa dopo una partita mia moglie mi chiede: «Allora, come è andata?». Se mi vede silenzioso aggiunge: «Hai perso?». Ultimamente però le delusioni erano poche, per lo più le dicevo chi era venuto a giocare e se c’erano novità sulla vita di qualcuno la aggiornavo. Poi lasciavo che l’adrenalina calasse e che mi venisse sonno. Entravo in casa zoppicando, mangiavo controvoglia a volte e facevo un po' di stretching prima di sdraiarmi (nei periodi di maggiore fatica mi capitava di svegliarmi per un crampo al piede o a un polpaccio). Una volta a letto chiudevo gli occhi e rivedevo le azioni migliori e quelle peggiori della mia partita. Un tunnel fatto o subito, un tiro in cui avevo preso la palla particolarmente bene, un lancio riuscito. Cose di questo tipo mi tenevano compagnia mentre mi addormentavo.
Adesso invece, ogni tanto, cerco di ricordare a occhi chiusi la strada che facevo per arrivare al campo. Tra il sonno e la veglia ricostruisco il percorso per intero: i semafori a cui mi fermavo, le strade alternative se trovavo traffico, quelle in cui cercavo parcheggio quando ero in macchina. Ricordando il percorso riesco a ricreare dentro di me l’anticipazione di quei momenti, il mio corpo dà materialità al ricordo, per qualche istante prima di addormentarmi mi sentivo ancora come quando stavo per giocare a calciotto.