Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche. In questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse.
«Ci sono più cose in cielo e in terra di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia» dice Amleto a Orazio. E di cose ce ne sono state tante anche in Olanda-Argentina, che per tre ore quasi piene è stata il cielo e la terra, il basso e l’alto, il diabolico e il divino, la morte e la resurrezione. Tre ore di spettacolo in cui il calcio è stata solo una parte della storia, anzi forse solo la scusa per mettere in scena un dramma degno della penna di Shakespeare, tra terzini folletti, eroi bassini, cattivi giganti, allenatori mefistofelici e una rivalità ancestrale sfociata nel conflitto.
Ma partiamo dall’inizio, anzi no: partiamo dal passaggio.
Messi vede lo spazio
A ricevere per primo è Nahuel Molina, appena dopo il centrocampo, coi piedi quasi sulla linea laterale. Blind per una volta gli è alle spalle e allora lui parte dritto, ma dopo pochi passi gli si para davanti Aké. Molina non dribbla, è umile, si gira verso il centro, entra dentro al campo, scarica per Messi e continua a correre. Ancora non lo sa, ma è qui che ha fatto gol.
Sono trentaquattro minuti che l’Olanda si danna l’anima per non far ricevere Messi, che spende De Jong e Aké quasi totalmente per quello, e il compito sta funzionando. Messi ha ricevuto pochissimi palloni e fatto niente con quelli che ha avuto. Anche qui, non sembra poter andare diversamente. Quando riceve ha davanti mezza Olanda e almeno 40 metri di campo, ma Aké è stato distratto da Molina e di Blind si è liberato col controllo. Dalla sua mattonella - una zona indefinita sulla destra del campo da dove negli ultimi quindici anni ha dominato il calcio - Messi può partire palla al piede, il corpo rivolto alla porta, il sinistro che conduce verso il centro.
Aké si sbraccia per rientrare, avverte la minaccia, cerca di lanciarsi sulla bomba, ma ormai è tardi. A Messi non serve neanche lasciarselo alle spalle, anzi non gli serve neanche guardare: c’è una traccia che è venuta a formarsi tra i suoi piedi e il suo cervello ed è una traccia che collega lui e Molina, che intanto si è andato a infilare tra la difesa dell’Olanda e, davvero, chissà chi gliel’ha detto. La palla si stacca dal suo sinistro, passa prima tra le gambe di Aké, poi in mezzo a tutte quelle maglie arancioni, fino ad arrivare lì dove era attesa e dove Molina fa il suo, insaccando con la punta.
Ma nessuno guarda il gol, perché sarebbe come guardare il dito e non la luna. Quel passaggio è la risposta alla domanda perché Messi sì e gli altri no. C’è qualcosa in quella visione che va oltre il comprensibile, che si infila nella sfera del messianico. L’aveva scritto Osvaldo Soriano, nell’ultima pagina del suo Futbol: «Ci sono tre tipi di calciatori» e se nei primi due ci stanno quasi tutti, è nel terzo che c’è Messi, «quelli che creano un nuovo spazio dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio. “Questi sono i profeti. I poeti del gioco”».
Ed è ironico, ma anche rivelatorio, che Messi abbia, solo col suo talento, creato uno spazio che non c’era proprio contro la squadra che, invece, ha teorizzato la ricerca dello spazio come concetto collettivo. È l’eterno contrasto tra il singolo e la coralità, tra battere sei avversari con i movimenti di una squadra o farlo con il passaggio geniale di un singolo. Un contrasto che Olanda e Argentina hanno spesso rappresentato nel calcio, fino ad arrivare a uno scontro che è più culturale che sportivo, ma che ieri per molti minuti era apparso sopito.
Di questa partita abbiamo discusso su Che partita hai visto, il nostro podcast riservato agli abbonati. Ci si abbona qui.
Da una parte Scaloni, accanto a Messi, aveva addirittura cambiato modulo, passando dal 4-3-3 al 3-5-2 per meglio controllare le fiammate in transizione dell’Olanda, dall’altra l’Olanda aveva accettato di farsi controllare, di lasciar scivolare i minuti come se non avesse armi a sua disposizione. E allora in una partita vuota è stato normale che a riempire lo spazio fosse soprattutto Messi, come quando al 58' aveva trasformato un pallone sporco a centrocampo in un filtrante che aveva aperto le acque al contropiede dell’Argentina, malamente sprecato da un passaggio sciagurato di Mac Allister per De Paul.
Le imprecisioni tecniche si amplificano in queste partite, raddoppiate dal peso del pallone ed è difficile prevedere chi riuscirà a ribellarsi. Per l’Argentina è stato Acuna, uno dei meno appariscenti fin qui, che con una sterzata al momento giusto si è guadagnato il rigore che sembrava aver chiuso la partita. Dopo aver segnato, la partita era così in controllo dell’Argentina che Messi caracollando si era avvicinato alla panchina di Van Gaal e aveva esultato con le mani aperte dietro le orecchie, imitando l’esultanza tipica di Riquelme, detta anche “Topo Gigio”.
Un’esultanza come un’altra, forse, ma più probabilmente una vendetta molto fredda per tutti quei calciatori argentini passati per l’odio di Van Gaal. Se quelle mani dietro le orecchie dovevano essere la fine di qualcosa, era stato l’opposto.
Le due torri
Wout Weghorst è alto 30 centimetri più di Messi, nell’ultima stagione ha segnato due gol col Burnley e poi è volato in Turchia, al Besiktas. Per molti di noi era appena un ricordo sbiadito, per l’Olanda uno dei 26 convocati, portato da Van Gaal per quelle idee strane che hanno i CT e che nessuno capisce fino in fondo. Quando è entrato in campo, a dodici minuti dalla fine, tutti stavano aspettando solo il fischio finale di questa partita bruttina per celebrare ancora una volta Messi. Anche nella bruttezza, però, il calcio lascia sempre uno spiraglio al cambiamento, permette a chi comanda di ribaltare tutto con una mossa e Van Gaal quella mossa l’ha fatta con Weghorst.
Ed è stata una mossa controintuitiva, disperata ma anche cinica. Due torri dentro l’area di rigore (era già entrato Luuk de Jong, praticamente un colpo di testa con i piedi), qualche altro giocatore al limite dell’area per prendere le seconde palle e il resto a crossare. Così facendo l’Olanda aveva risolto i suoi problemi nella risalita del pallone, semplicemente rinunciando a provarla in favore della ricerca del minor numero di passaggi per arrivare dentro l’area di rigore.
Il gol che ha dimezzato lo svantaggio è indicativo dello stato delle cose: in 40 secondi l’Olanda ha crossato quattro volte dalla trequarti, fino a trovare quello che cercava. Se infatti i primi tre cross sono stati respinti dalla difesa dell’Argentina, collassata a difesa degli ultimi sedici metri, l’ultimo, il quarto, è finito sulla testa di Weghorst (197 centimetri) su cui Lisandro Martinez (175 centimetri) non ha potuto nulla.
L’Argentina di Scaloni è una squadra solida, ma anche emotiva. Dopo il gol subìto avrebbe potuto smorzare i toni, far valere un assetto più equilibrato, giocare col cronometro palleggiando, stanando lo schieramento estremo dell’Olanda che aveva portato anche Van Dijk a fare il centravanti. Ma l’Argentina non ha fatto niente di tutto questo, come lo scorpione con la rana ha seguito la sua natura, ha alzato i toni, cercato lo scontro. A pochi secondo dal novantesimo Paredes prima ha fatto un brutto fallo, poi tirato una violenta pallonata contro la panchina avversaria, da cui è nata la prima di molte risse. Forse Paredes pensava fosse finita, che il recupero sarebbe durato lo spazio di un paio di cross e di altrettante spazzate, ma - anche se ce l’eravamo scordati - il calcio in Qatar ha deciso di darsi recuperi lunghissimi.
Matthias Hangst/Getty Images
Nei dieci minuti rimanenti, quelli accordati da Lahoz (che dopo la partita sarà criticato sia dagli argentini che dagli olandesi) c’è stata quasi un’altra partita ancora, una tensione enorme e motivata che ha creato poco o nulla che non fossero altri cross e moltissimi falli, ma che ha lasciato l’idea che tutto potesse accadere. Tutto, ma non forse quello che è realmente accaduto. Al centesimo German Pezzella collassa su Weghorst (ancora lui) al limite dell'area, regalando un'ultima occasione all’Olanda. È una punizione interessante, di quelle che - ogni tanto - ci chiediamo a chi affideremmo se ne valesse la nostra vita. Per gli olandesi non era la vita, ma voleva dire rimanere o non rimanere dentro al Mondiale, che - so che è strano dirlo - ogni quattro anni sembra la stessa cosa che rimanere in vita. A chi avrebbe affidato la sua Van Gaal? Al destro di Gakpo? A quello di Berghuis? O al sinistro di Koopmeiners? O forse a uno schema mutuato dal Wolfsburg 2019?
Koopmeiners finta il tiro, la barriera salta, l’olandese mette una palla bassa e lenta verso il centro, dove c’è Weghorst (sempre lui) che controlla spalle alla porta, usa Enzo Fernandes per girarsi e col sinistro spedire l’Argentina all’inferno.
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Uno scontro culturale
Se l’Olanda ce l’avesse fatta, conosceremmo già tutta la storia di questo schema. Chi l’ha pensato, chi ha deciso di usarlo all’ultimo secondo di una partita da dentro e fuori, come il diavolo Van Gaal aveva fatto il diavolo di nuovo. Certo, il gesto resta, la risposta razionale olandese al caos creativo degli argentini, la linea retta in una partita di scarabocchi. Il gol di Weghorst ha dato altri trenta minuti all’Olanda - e a noi spettatori - ma non la spinta che ci si poteva aspettare.
L’Argentina ci ha messo quindici minuti ad accettare quello che era successo, ma nel secondo tempo supplementare è stata forse la miglior versione di sé stessa. È raro che una squadra provi a vincere una partita con i rigori così vicini, ma la squadra di Scaloni ha avuto il coraggio di provarci, che è stato anche e soprattutto il coraggio di rischiare. A messo dentro Di Maria per Lisandro Martinez, ha sfiorato il gol con Lautaro un paio di volte, col Fideo direttamente da calcio d’angolo, ha preso un palo piuttosto incredibile con Enzo Fernandez proprio al centoventesimo. Ha lasciato spazi anche: in un paio di ripartenze l’Olanda avrebbe potuto fare male, sfruttare delle situazioni in parità numerica. Ma a quel punto gli olandesi sono apparsi scarichi, non hanno avuto la forza di completare la propria rimonta, accontentandosi dei rigori, convinti dal loro allenatore che lì avrebbero avuto un vantaggio. Ma così non è stato.
È inutile mettersi a raccontare qui la lotteria dei rigori, l’epilogo di uno spettacolo anche troppo intenso. L’Argentina ha vinto grazie alle prime due parate di Emiliano Martinez, uno con la faccia consumata da eroe improvvisato. Se vogliamo cercare qualcosa di razionale in questo finale, si potrebbe dire che la squadra di Scaloni ha vinto grazie ai quindici minuti precedenti, all’inerzia positiva che si sono attirati provando a vincere, perché provare a vincere aiuta a vincere. Ma possiamo anche smarcarci dal razionale, per entrare nell’empatia. Questa versione dell’Argentina, per sopravvivere, mi sembra abbia bisogno di un nemico, di caricarsi di significati, di vivere nell'eterna tensione che precede il crollo.
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Tutto quello che è successo prima, durante e dopo i rigori, da i calciatori olandesi che hanno accerchiato Lautaro a l'esultanza degli argentini in faccia agli olandesi, dagli insulti di Emiliano Martinez a Van Gaal alle parole dell'allenatore olandese, tutto è sembrato in qualche modo naturale, il necessario sfogo di una rivalità che è storica, e in qualche modo anche culturale. Magari alla fine Olanda-Argentina verrà ricordata come la partita con il record di ammonizioni in un Mondiale, come una sfida povera di contenuti e ricca di scaramucce. Eppure, alla fine, è una partita che ci ha lasciato soddisfatti, che ci ha ricordato perché i Mondiali sono una cosa diversa, dove non capiterà mai di trovare la bellezza sportiva di un quarto di Champions League, ma dove può succedere che tutto si ribalta, che quello che credevamo vero si riveli falso.
Se volete trovarci una lezione, qualcosa che l'Argentina si può portare dietro, è che - in tutto questo caos - Messi è la persona che ci si è trovata meglio. L’avreste immaginato solo qualche anno fa? Un Messi che reagisce alle provocazioni, che si sporca di fango insieme ai suoi compagni, che ferma il pallone con le mani, che dopo la partita imbruttisce a tutta la panchina olandese. L'ultimo Messi, quello teoricamente più divino, che diventa improvvisamente più terreno.