Volevano le Olimpiadi e volevano la guerra, a Tokyo, alla fine degli anni Trenta. Andò a finire che le Olimpiadi, previste dal 21 settembre al 6 ottobre 1940, non arrivarono mai e la guerra non se ne andava più, conclusa solo cinque anni più tardi con le bombe atomiche lanciate dagli americani su Hiroshima e Nagasaki. Fu così che prima di Tokyo 2020, edizione rinviata e poi svuotata, di atleti e pubblico, dalla pandemia, gli ultimi Giochi olimpici a essere rinviati - e infine annullati - sono stati quelli di Tokyo 1940. Quattro anni dopo, per la verità, saltarono anche quelli del 1944 assegnati a Londra, ma che si svolgessero davvero, con l’Europa in fiamme, lo sbarco in Normandia appena concluso e Hitler ancora in vita, non ci credeva nessuno.
Nel 1936, invece, a Tokyo ci credevano eccome. E anche il Comitato Olimpico Internazionale, da sempre indotto ad assegnare i Giochi dove si spostano potere e denaro. I giapponesi, come tutto il resto del mondo, avevano appena visto come la Germania nazista era riuscita a imprimere il proprio marchio sulle Olimpiadi di Berlino ’36 e avevano fatto di tutto per ottenere i Giochi del 1940. Anzi, riuscirono a farsi assegnare anche i Giochi invernali, che avrebbero dovuto tenersi a Sapporo. Nel 1940 i giapponesi festeggiavano i 2600 anni dell’Impero. Era un’occasione unica per celebrare la loro grandeur e la colsero al volo, convincendo il CIO a sceglierli, nonostante di spirito olimpico in quel Giappone ce ne fosse poco, pochissimo.
D’altronde l’alternativa più probabile, a leggere i resoconti dell’epoca, era l’Italia fascista di Mussolini. Per far desistere il Duce e spianare la strada alla candidatura di Tokyo, il Giappone fece due proposte, molto poco olimpiche, poi accolte dal dittatore italiano: un sostegno alla candidatura di Roma per i Giochi del 1944 e la cessazione immediata, da parte dell’Impero, della vendita di armi agli etiopi, all’epoca alla disperata difesa del loro territorio dopo l’occupazione italiana. Per la seconda edizione consecutiva sarebbe stato quindi un regime totalitario a issare la bandiera a cinque cerchi.
Ma gli antichi greci ci hanno insegnato che quando iniziano i Giochi ogni guerra deve fermarsi. Quella, invece, era l’epoca in cui le guerre non solo sembravano inevitabili, ma lo diventavano. E così, quasi per paradosso, l’Olimpiade fermata dalla guerra, divenne l’unica disputata solo da prigionieri di guerra, per di più nel Paese simbolo di quell’epoca aggressiva e disgraziata, la Germania nazista. Quel che restava dei Giochi si tenne, in qualche modo e in gran segreto, sul finire dell’estate del 1940 in uno Stalag (così si chiamavano i lager dei prigionieri di guerra) di Norimberga. Ma il lungo giro che li portò lì era ancora lungo e doveva passare - senza fermate - da Helsinki.
Il Giappone, in pieno delirio espansionista, aveva invaso la Manciuria cinese già nel 1931, cercando di sfondare a più riprese verso Pechino. Quell’occupazione lontana non destò grande interesse a Occidente, ma nel 1937 iniziò una vera e propria guerra, impossibile da ignorare. A quel punto i Paesi scandinavi, gli statunitensi e i britannici bussarono alle porte del CIO per dire che loro erano pronti a boicottare le Olimpiadi. Dopo un anno di silenzi imbarazzanti alla fine fu il Giappone, provato nelle casse e nel morale, a decidere di farsi da parte. Tokyo 1940 divenne così Helsinki 1940, la città che aveva sfidato Tokyo e perso per 37 voti a 26 con tanto di accuse di corruzione, visti alcuni favori e regali fatti dai funzionari giapponesi ad alcuni membri del CIO.
Cambiò tutto, a cominciare dai poster promozionali: i giapponesi avevano previsto un’alternanza di immagini bucoliche e marziali, con il Monte Fuji, le donne col kimono floreale e minacciosi uomini in uniforme, i finlandesi scelsero il loro atleta simbolo, il mezzofondista Paavo Nurmi, leggenda capace di vincere nove medaglie d’oro e tre d’argento in tre diverse edizioni olimpiche (1920, 1924, 1928): era rappresentato come una statua - ovviamente nell’atto di correre - davanti a un mappamondo che segnalava la posizione della Finlandia. Quello stesso poster, a cui vennero poi cambiate solo le date, divenne il manifesto di Helsinki 1952, l’Olimpiade assegnata ai finnici come risarcimento una volta finita la Seconda Guerra Mondiale.
Come Tokyo 1940 anche Helsinki 1940 venne quindi spazzata via da una guerra, a essere più precisi dall’invasione dei sovietici, che nel marzo di quell’anno lasciarono un Paese devastato a soli quattro mesi dall’accensione del braciere olimpico. Ma a quel punto a bruciare era l’Europa intera. Le Olimpiadi riprenderanno solamente nel 1948, ripartendo da Londra.
Chi non rinunciò mai, in tempi di guerra, al sogno olimpico, furono i prigionieri dello Stalag di Langwasser, oggi un quartiere di Norimberga. In quel lager per soldati catturati c’erano uomini di diverse nazionalità: jugoslavi, belgi, olandesi, francesi, norvegesi, britannici e polacchi, uno in particolare, Teodor Niewiadomski, a cui dobbiamo non solo l’idea, ma anche memorie e cimeli dell’unica Olimpiade - sebbene non ufficiale - disputata in un campo di prigionia.
Fu proprio Niewiadomski a raccontare in un libro come pensare ai Giochi che nessuno poteva e voleva più organizzare fu un modo per restare vivi in un luogo dove morire era un’opzione molto più semplice. Il libro si intitola “Olimpiada, której nie było” - in italiano, “Le Olimpiadi che non sono mai esistite” -, perché nel momento in cui si svolgevano, lo sapevano in pochissimi: i prigionieri, un parroco, un medico compiacente, inservienti il cui silenzio veniva comprato a suon di pacchetti di sigarette, e - ma qui si entra forse nella leggenda - una guardia carceraria il cui grande amore sarebbe stata un’olimpionica dei Giochi del 1932.
Quel che è certo è che i prigionieri fecero di tutto per far assomigliare quelle Olimpiadi fatte - loro malgrado - in casa (altrui) a quelle vere. La bandiera olimpica era inizialmente la camicia bianca di un prigioniero su cui furono applicati cinque cerchi ritagliati da pacchetti di sigarette e colorati con le matite, ne arrivò poi una seconda fatta di stracci colorati donati dalla Croce Rossa. Tutto era fatto con quel che c’era nel campo di prigionia, e cioè quasi niente: le medaglie erano di cartone o di metalli di recupero, le coppe erano le stesse gavette in cui si mangiava, i gagliardetti venivano tenuti insieme dal filo spinato, come le medaglie, con cui alcuni si ferirono durante la premiazione.
Ma se la realtà poneva dei limiti, la fantasia no: per l’evento venne anche composto appositamente un inno da uno dei prigionieri, Wacław Gasiorowski, parrucchiere e musicista per hobby, che aveva anche promesso tagli gratis per i medagliati. Lo stesso Niewiadomski, il De Coubertin dello Stalag, imparò a suonare gli inni dei Paesi di tutti gli atleti in gara con un’armonica a bocca. La torcia olimpica era un barattolo pieno di grasso appeso a un palo che bruciava sotto le cure di un soldato francese. La riunione decisiva ebbe luogo in una stanza dell’ospedale sulla cui porta un paramedico alsaziano, di nome Richard Virion, aveva fatto scrivere “Severamente vietato entrare. Pericolo tifo”. Le guardie avevano ovviamente paura di un eventuale contagio e stavano ben lontane.
Dentro quella stanza però non c’era una malattia, ma sette prigionieri - tutti di nazionalità diverse - che stabilivano le ultime regole e la lista definitiva delle competizione prima del via ufficiale, che sarebbe stato dato da un prigioniero britannico, George O’Brian, il giorno dopo, il 1° settembre 1940: una data che agli appassionati di storia dirà qualcosa, è il giorno in cui Hitler, esattamente un anno prima, invase la Polonia, dando di fatto il via alla Seconda Guerra Mondiale.
Le gare durarono una settimana e c’era veramente di tutto, anche se come prima cosa bisognava decidere quali sport tenere fuori: tra questi la scherma, ritenuta troppo pericolosa, e il salto con l’asta, che avrebbe potuto essere una buona idea da parte di qualcuno per fuggire, facendo alla fine scoprire tutti.
Le Olimpiadi dello Stalag non potevano iniziare peggio. La gara inaugurale avrebbe dovuto essere una partita di pallavolo tra polacchi e belgi giocata durante la pausa pranzo, quando la maggior parte dei tedeschi era a mensa. I prigionieri mascherarono il campo tra la biancheria stesa dietro l’ospedale, mentre il pallone - come molti altri attrezzi di gioco - fu procurato da un parroco norvegese. La rete era un filo con maglie e calzini appesi. Un soldato in ritardo per il pranzo vide i prigionieri giocare (con il Belgio in vantaggi per 7-1) e li mise in punizione.
Le Olimpiadi potevano finire lì, ma i prigionieri non si arresero, affinarono le loro tecniche per non farsi scoprire dai nazisti e riuscirono a portare a termine le gare. Tra queste anche il tiro con l’arco, ricavando l’attrezzatura lavorando rami di salice piangente, chiodi e piume d’oca. Vinse un soldato francese del Senegal.
C’era anche il lancio del peso, che non era un peso, ma una grossa pietra di cinque chili. L’oro andò a uno slavo che scagliò il peso a 11,20 metri di distanza, Niewiadomski arrivò secondo. Proprio un soldato con la pietra in mano, che compariva dietro al filo spinato, fu poi scelto per la copertina del libro di Niewiadomski, che diventò un film chiamato “Olimpiada 40” girato dal regista polacco Andrzej Kotkowski. Candidato dal suo Paese per gli Oscar del 1980 non venne preso in considerazione, d’altronde - si sa - l’importante è partecipare.
I ricordi di Niewiadomski, quelli di altri prigionieri e il film hanno creato una mitologia attorno a queste gare. Di sicuro si sa che tra le competizioni svolte c’è una gara di ciclismo da fermi, fatta su una cyclette di fortuna, e vinta - come prevedibile - da un belga. Alcuni oggetti di quella e altre gare sono sopravvissuti al passare del tempo e ora sono custoditi al museo dello Sport di Varsavia e a Danzica. Nonostante una lunga battaglia al CIO condotta negli anni da alcuni dei partecipanti, quell’edizione - sebbene talvolta citata a mo’ di curiosità storica - non è mai stata considerata valida nonostante il suo alto valore simbolico.
C’era poi il salto in lungo, in cui si impose un norvegese. C’era la boxe, poi interrotta perché le condizioni degli atleti erano talmente precarie che per un pugno si rischiava di morire. E c’era una disciplina che era quasi una sfida a tutto quel che i prigionieri stavano passando in quel campo. Si chiamava il salto a rana ed era in realtà una punizione che veniva solitamente assegnata dai carcerieri.
Per questo motivo fu anche l’unica competizione a svolgersi alla luce del sole, non destando troppi sospetti. Si doveva saltare a piedi uniti, flettendo le ginocchia e tenendo le mani sopra la testa per 50 metri. Un esercizio faticoso, ma che riassumeva lo spirito di quell’Olimpiade, nata per sentirsi ancora vivi, per tenere la mente occupata e alimentare uno spirito di fratellanza tra popoli che la guerra aveva quasi del tutto annientato.
A quella gara assistette, per caso, anche uno dei carcerieri considerati più violenti, tale Schlappke, quasi incredulo per l’impegno messo da alcuni prigionieri. A vincere è Niewiadomski. Schlappke si avvicinò verso di lui pensando di congratularsi con un prigioniero capace di rispettare le regole del campo meglio degli altri, invece si stava congratulando - senza saperlo - con il capo dei ribelli, l’uomo che aveva inventato dal nulla un’Olimpiade in un luogo che era il suo esatto contrario.