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Che esperienza è stata seguire i Giochi Olimpici dal vivo
14 ago 2024
Un piccolo resoconto di quello che abbiamo vissuto a Parigi 2024.
(articolo)
18 min
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Sono stato dodici giorni alle Olimpiadi di Parigi, ho seguito dal vivo 27 eventi di 17 discipline in 11 impianti diversi e - tra una medaglia e l’altra - mi sono visto passare tutta la vita davanti. Dicono che sia quel che ti succede mentre stai morendo. Ma io non mi sono mai sentito così vivo.

È stata un’inevitabile indigestione di madeleines a cui sinceramente non ero pronto. Niente come le Olimpiadi, con la loro cadenza regolare, ti obbliga a fare i conti con il tempo che passa. E così, mentre allo Stade de France assistevo al primo salto di Mattia Furlani, quello che alla fine gli varrà la medaglia di bronzo, ripensavo al me bambino innamorato dell’eleganza di Carl Lewis a Los Angeles ’84. Erano gli anni delle sale giochi e del Commodore64 in cui spopolava Track&Field, quel videogame con dentro atleti a 8-bit tutti rigorosamente con i baffi che correvano, saltavano e lanciavano solo in cambio di un tuo sforzo sovrumano, picchiettando velocissimamente su due tasti (in sala giochi) o scrollando un joystick a destra e sinistra (a casa). Nessun altro gioco ne ha mai rotti così tanti.

Los Angeles ’84 fu il mio precoce battesimo olimpico, con facce e nomi che ricordo ancora oggi nonostante avessi solo 6 anni: il lottatore Vincenzo Maenza, il pugile Maurizio Stecca, la saltatrice Sara Simeoni, la mezzofondista Gabriella Dorio, il tiratore a volo Luciano Giovannetti, il pentatleta Daniele Masala, per non dire del “due con” dei fratelli Abbagnale e di Peppiniello Di Capua per cui costrinsi mia mamma a comprarmi e poi cucirmi uno scudetto dell’Italia sopra una canotta bianca del mercato, fingendo - innanzitutto con me stesso - che quella maglia fosse davvero la loro.

Poi arrivò Seul ’88, la cavalcata di Gelindo Bordin nella maratona, la sconfitta 4-0 dell’Italia del calcio contro lo Zambia, con quella divisa tutta arancione elettrico che pareva uscita da un videogioco, il sangue di Greg Louganis che - dopo aver sbattuto la testa contro il trampolino - colora di rosso la piscina olimpica con il suo sangue. E poi ancora l’innamoramento per Diana Bianchedi, oro a squadre nel fioretto a Barcellona ’92, la commozione per Mohammed Ali e la sua mano resa tremolante dal Parkinson mentre accende il fuoco olimpico di Atlanta, le spaghettate notturne con gli amici per vedere Sydney 2000. Era ancora tutto lì, compreso l’inconfondibile odore delle estati degli anni Ottanta, che chissà dov’era finito.

Tutto è tornato a galla quando sono entrato nel maestoso Grand Palais, dove ho assistito al mio primo evento, la sciabola maschile a squadre. Non potevo immaginare un luogo migliore per entrare dentro le Olimpiadi e non uscirne più, nemmeno ora che sono tornato a casa.

Lì faccio subito una prima scoperta: quando l'Italia perde nei quarti di finale contro l’Ungheria, mi dispiace, ma non quanto immaginavo. C’è talmente tanto altro da osservare e di cui godere che partigianeria e medagliere nazionale passano subito in secondo piano: e così resto rapito da un tifoso egiziano tutto solo, con la sua bandiera, a sfidare gli incitamenti del pubblico francese ingigantiti dall’eco del Grand Palais mentre in pedana i padroni di casa vincono in rimonta sugli africani.

Andrà più o meno sempre così, vai a vedere una gara e dopo un po’ non ti ricordi più da dove venga o come si chiami ha vinto, ma ti resta appiccicato alla memoria altro: un tifoso, uno sconfitto, un momento, una sensazione. Delle semifinali del tennis maschile al Roland Garros non ricordo più un singolo punto, eppure i miei scatenati vicini con una bandiera della Spagna con dentro il logo del Real Betis sì, come il momento in cui l’arbitro è costretto a fermare l’incontro tra Djokovic e Musetti dopo che i francesi sugli spalti hanno iniziato a intonare la Marsigliese - perché, a qualche chilometro di distanza, il nuotatore casa Léon Marchand ha vinto l’ennesimo oro della sua Olimpiade - infischiandosene dei codici del tennis e della sacralità dei suoi gesti.

Ai Giochi tutto si può ribaltare e vivi sulla tua pelle quel che già accade in tv quando stai sul divano di casa: e cioè che alle Olimpiadi - e solo alle Olimpiadi - una gara di ginnastica ritmica o di judo può valere più di un quarto di finale di calcio tra Argentina e Francia. Così è stato anche al Roland Garros, dove sgattaiolare senza biglietto dentro al Suzanne Lenglen con un amico - complice un volontario messo lì per non farci passare che ci ha fatto passare - per vedere l’ultimo game della semifinale del doppio Errani e Paolini è stato più emozionate che l’intero incontro tra Alcaraz e Auger-Aliassime. E la finale di doppio misto tra cechi e cinesi, con gli spalti abbandonati per metà, più divertente del match che l’ha preceduta tra Musetti e Djokovic.

Durante la premiazione, lo speaker sbaglierà anche il nome del ceco Tomas Machac, chiamandolo Malach. A lui, con l’oro al collo, comunque pareva interessare poco. Ha baciato in bocca la compagna di doppio, Katerina Siniakova, che era stata anche compagna di vita, ma ora non più. O forse no, chissà, ha detto lui subito dopo.

Non avrei dovuto nemmeno essere al Roland Garros: fino alla sera prima io e un amico avevamo in tasca il biglietto del Basket 3 contro 3 in Place de la Concorde. Dopo la qualificazione di Musetti in semifinale avevamo deciso di trovare a tutti i costi un biglietto per le gare serali del Roland Garros e l’abbiamo trovato. La questione biglietti è strana: senti dire da mesi prima che sono finiti e invece, insistendo un po’, saltavano quasi sempre fuori (tranne che per gli Usa di Basket e poco altro), finale dei 100 metri compresa. E così ti ritrovavi con amici e sconosciuti a fare come si faceva da piccoli con le figurine: tu cos’hai? Due pallanuoto? Scambi una pallanuoto con un tuffi? Mi dai un Francia-Canada di basket per un Serbia-Australia? E un Brasile-Usa per un Italia-Turchia di pallavolo?

La complicità che si è formata tra chi c’era è rara e genuina, ed è proprio vero, come dicono i brasiliani, che la gentilezza genera gentilezza (“Gentileza gera gentileza”). Bisogna dare merito ai francesi e in particolare modo ai parigini di aver creato un ambiente morbido e accogliente in una città da sempre diffidente e altera: i sorrisi e la disponibilità dei volontari ti facevano venire voglia di essere come loro, comportarti come loro. Al di là di quello che ha scritto molta stampa, in particolare italiana, incattivita (gente, temo, che ancora fa battute sui bidet e rivuole indietro La Gioconda), Parigi è stata una grande festa, magari non perfetta, ma certi fiumi d’inchiostro - va detto - erano ben più melmosi dell’acqua della Senna.

Parigi è stata un esempio di umanità al suo meglio. E chi sostiene il contrario, due cose: non c’era, oppure mente. Perché, come ha detto bene – con realismo e senza retorica – il presidente del Cio, Thomas Bach, durante la cerimonia di chiusura, «le Olimpiadi non possono certo creare la pace, ma possono creare una cultura della pace in grado di ispirare il mondo». L’abbiamo vista, l’abbiamo toccata, eravamo noi. Ed è stato bellissimo.

Ho visto formarsi amicizie istantanee sugli spalti di Invalides, durante il tiro con l’arco maschile, tra un turco e un coreano; a Champ-de-Mars, durante la gare di lotta libera e greco-romana, ho assistito, nella fila davanti alla mia, a una scena di reciproco entusiasmo tra una fisioterapista della squadra ecuadoriana e una velista polacca che non si erano mai incontrate prima. La prima si è visibilmente emozionata per il fatto che la seconda, arrivata ottava in una finale olimpica di vela, ora ha un diploma olimpico (consegnato, appunto, fino agli ottavi classificati), l’altra, da un momento all’altro è diventata un’ultrà di Lucia Yepez, detta La Tigra, il cui benessere psicofisico passava proprio per le mani della giovane fisioterapista, una ragazza così entusiasta di essere lì che ho iniziato a tifare per La Tigra anch’io (prenderà alla fine l’argento).

La lotta è stata una delle tante epifanie della mia Olimpiade, perché, tra le discipline che ho visto dal vivo, è quella che più mi ha rimandato a qualcosa di ancestrale, alle Olimpiadi antiche a uno sport che non ha bisogno di nulla più che di due sfidanti. Ammetto di non averci capito niente con i punteggi e del perché una mossa valeva un punto e l’altra quattro. Ma se pretendere di essere esperti di tutti gli sport è follia, mettersi lì e provare a comprenderne il fascino si può fare. E certo mi sarò senz’altro perso qualcosa di tecnicamente rilevante, ma ho avuto in cambio molto altro. Vedere la lotta da vicino mi ha permesso di indagare la bellezza dei corpi in movimento: parliamo di uno sport in cui il contatto è tutto, dove si sfiora la compenetrazione dei corpi, con teste che svaniscono nei petti altrui per poi ricomparire, dove un momento sei sopra a dominare l’avversario e quello dopo sotto ad annaspare, è una lezione di anatomia e insieme di storia dell’arte, perché i lottatori non sono altro che statue che riprendono vita, riportando tutto all’origine. Sono uscito da lì quasi inebetito da un’esperienza totalmente nuova, rivelatrice. Tutto è stato ribilanciato, un’ora più tardi, da uno sport in cui il fisico conta meno, molto meno, il tennis tavolo. Non a caso tra i partecipanti c’era anche una signora di 61anni, la cinese, ma lussemburghese di passaporto, Xi Nia Lian.

Grazie alle insistenze di un amico sono andato a vedere il nuovo pupillo dei francesi, Félix Lebrun, che con la Francia si giocava l’ingresso in semifinale contro il Brasile: nemmeno maggiorenne, mingherlino, capelli fuori moda - tagliati corti e male, da farti venire il dubbio che sia il risultato di un fai da te casalingo - occhialetti da ragioniere fantozziano e un’aria da nerd alla riscossa che ha trascinato con sé tutta la Francia, impazzita per lui fino a riempire un palazzetto di cori (dove è diventato ancor più familiarmente Fefé) e bandiere. Lebrun era reduce dal bronzo nella prova individuale, festeggiato però come un oro, perché le vittorie non sono tutte uguali e non è e non sarà mai il peso della medaglia a decretarne il valore.

A propositi di bronzi che valgono più di un oro, a Vaires-sur-Marne, un adorabile paesino a un’ora di treno da Parigi pieno di villette con giardino - location perfetta per una di quelle serie crime in cui dopo un po’ di puntate ci sono già stati più omicidi che abitanti - ho assistito a una delle scene più belle della mia Olimpiade. Non ci volevo nemmeno andare quella mattina a vedere le finali di canoa e kayak sprint, perché per arrivarci avrei dovuto alzarmi presto e lì c’ero già stato a vedere il canottaggio. Finite le gare mi ero detto che era una di quelle cose divertenti che non avrei fatto mai più, perché era troppo lontano, perché faceva troppo caldo e si vedeva troppo male. Poi però, per fortuna, sono andato, perché alla fine volevo rivedere quella gara olimpica che sembrava più una festa campestre, con la gente adagiata sul prato, inconsapevolmente pronta, se solo ci fosse un altro Seurat in giro, a diventare protagonista di un’altra “domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte”.

Una volta lì scopro che il problema non era il canottaggio ma il posto infame che mi aveva assegnato il computer (unica pecca del sistema biglietti è che tu sceglievi una delle 4 categorie, con prezzi molto diversi, e poi il posto ti veniva assegnato in modo automatico, con il risultato che a seconda dell’evento, uno col biglietto di quarta categoria poteva vedere meglio di uno che si era pagato la prima).

Da una posizione perfetta (pagando un biglietto di terza categoria, esattamente come la volta in cui non ho visto quasi niente) ho potuto vedere, tra le altre, la finale del kayak doppio donne 500 metri, gara di cui non mi fregava assolutamente nulla prima che partisse e nemmeno poi troppo all’arrivo. Poi però è finita che le ungheresi Pupp e Fojt si sono ritrovate a giocarsi il bronzo al fotofinish con le tedesche Paszek e Hake. Mentre le prime, convinte di essere arrivate dietro, giravano per il piccolo molo d’arrivo sconsolate, le altre due – non certe della medaglia – si buttavano a terra, piangevano e pregavano. Ma non a favore di telecamera e pubblico, à la Tamberi: erano disperate e basta. L’esito era così incerto che nemmeno dopo dieci minuti si sapeva chi fossero le terze e chi le quarte e così si è deciso – eccezionalmente – di far partire la gara successiva.

Quando è arrivato il risultato, si è scoperto che era stato assegnato il bronzo a entrambe le coppie, che da quel momento si sciolgono, sorridono, si abbracciano tra loro quattro e non si staccano più: abbracciate mentre salgono sul podio, durante la premiazione e anche dopo. Per quanto ne so potrebbero ancora essere abbracciate ora che è passata quasi una settimana. E vederle non era solo bello, era la porta socchiusa verso una possibilità che andava oltre la gara. E che non è un unicum. Lo stesso atteggiamento l’ho rivisto nelle maratonete arrivate nei primi posti che andavano con le braccia larghe incontro alle ultime al traguardo come fossero sorelline che si erano perse per strada. Dagli spalti di Invalides abbiamo sostenuto tutte, compresa l’ultimissima, Kinzang Lhamo, atleta del Bhutan che non arrivava mai. Vista passare sul maxischermo sotto la Torre Eiffel a circa due chilometri dal traguardo, l’aspettavamo ormai come Beckett ci faceva aspettare Godot. A un certo punto Lhamo ricompare sullo schermo, ma cammina, con i tifosi oltre le transenne che vanno più veloci di lei. Ricomincerà a correre solo in vista dell’arrivo, tagliando il traguardo in 3 ore 52 minuti e 59 secondi (un’amica che ha fatto la maratona di New York a livello amatoriale, mi ha detto che ci ha messo 3 ore e 47) vale a dire un’ora e mezza dopo la vincitrice, circa un’ora dopo le altre. Per aspettarla, la premiazione è stata continuamente rinviata di dieci minuti in dieci minuti («A breve ci sarà la premiazione», indicava il maxischermo) e poi spostata per sfinimento in serata all'interno della cerimonia di chiusura.

Nel frattempo io mi ero già scapicollato verso l’Arena Sud 1 per non tardare alla finale di pallavolo femminile tra Italia e Usa, un evento di cui si è già detto e scritto tutto. Però è stato bello scoprire fin da Italia-Olanda, seconda partita del girone, che la supremazia italiana era schiacciante non soltanto in campo, ma anche a livello musicale. A ogni punto azzurro c’era una canzone italiana diversa a celebrarlo, e si passava da Rino Gaetano a Dargen D’Amico, da Raffaella Carrà ad Annalisa. Dopo un paio di canzoni olandesi, invece, la regia si rifugiava sui grandi classici internazionali, per mancanza di materiale all’altezza, si suppone. Succederà lo stesso, due volte, anche con la Turchia. In finale, dove la musica americana l’avevano, eccome, si è suonata - per ovvi motivi - comunque molto di più quella italiana, con l’ultimo punto suggellato da una “Sarà perché ti amo” cantata sia in campo che fuori.

Anche lì, però, quando Velasco salta tra le braccia di Bernardi, ho rivisto passarmi davanti pezzi di vita passata, le delusioni olimpiche della nazionale maschile a Barcellona e Atlanta, viste davanti alla tv insieme a persone che oggi non ci sono più e tutte gli altri exploit riusciti, sfiorati o clamorosamente mancati dalle altre nostre squadre: la pallanuoto, il calcio, il basket olimpico.

Un altro pezzo di vita mi è passato davanti quando ho deviato dal solito percorso Parigi-Stade de France per passare da Saint-Denis città, banlieue nord e comune che ospita lo stadio. Lì ho vissuto per otto mesi, nel 2002, da studente Erasmus e lì sono tornato per vedere cos’era cambiato. La risposta è: tutto. E dovrei - come da prassi - dire che mi dispiace, lamentarmi di com’era meglio allora. E invece va benissimo così, perché nemmeno io sono più lo stesso, mentre le Olimpiadi rimangono in fondo sempre uguali. Per quello ci rifugiamo lì, ogni quattro anni, in questo tempo sospeso in cui la continuità interna viene data da secondi e centimetri che noi quotidianamente non viviamo, quelli dei record e di competizioni che in qualche modo restano concatenate l’una all’altra, imperturbabili dinnanzi alle nostre vite, che spesso, tra un quadriennio e l’altro vengono invece stravolte.

Niente mi ha dato pace interiore come vedere l’atletica leggera dal vivo, che di per sé sarebbe quasi stressante, visto che in tv la regia te la fanno gli altri e sugli spalti devi fartela da solo, con spesso tre gare in contemporanea e non sempre qualcuno che ti avvisa del dove sta succedendo la cosa più importante. Ogni tanto ti perdi un salto, o un lancio, ma che importa. Conta esserci. Tanto alla fine i 100 metri non se li perde nessuno. Anzi, qualcuno forse sì, perché nel giorno della finale maschile, pensando di essere più furbo degli altri sono andato dalla mia tribuna - dove la pista si vedeva bene ma era sul lato opposto dello stadio - sono andato nella tribuna davanti alle corsie convinto che mettendomi in piedi, dietro chi era seduto, potessi godermi la gara. Solo che ci eravamo fatti furbi in tanti, talmente tanti che alla fine non s’era fatto furbo nessuno: l’organizzazione aveva messo delle transenne a protezione delle tribune e nessuno poteva vedere niente. Io, il tempo per tornare al mio posto in caso di fallimento me l’ero calcolato, e me la sono vista. Altri, chissà.

Poi, certo, è stato stupendo assistere a quella che è LA GARA delle Olimpiadi eppure mi tengo più care altre istantanee, come l’argento di Battocletti, il salto in lungo che sognavo da bambino, la lenta e pesante discesa del martello o l’esperienza estetica delle staffette. Di tutto quel che avrei voluto vedere dentro quello stadio mi sono perso solo il volo di Duplantis, ma va benissimo così: l’ho visto su un maxischermo di una piazza parigina, mentre cenavo e scherzavo con amici e tutt’intorno c’erano bambini che giocavano, anziane che facevano l’uncinetto e un’atmosfera che nel complesso ricordava una sagra di Paese anche se eravamo a due passi del centro di quella che in quel momento era la capitale del mondo.

Di queste Olimpiadi mi è restato e mi resterà molto più di quel che posso ricordare. Un dubbio, innanzitutto, perché il gelato di cui mi sono innamorato, il Super Twister (una specie di Calippo arrotolato ai gusti di arancia, limone e fragola), dagli stessi stand ufficiali costava 3 euro e 20 al Grand Palais, 3 euro e 50 allo Stade de France e Invalides e 4 euro alla piscina de La Défense?

Ricorderò la doppia Marsigliese cantata a squarciagola per Marchand dopo il doppio trionfo a distanza di una manciata di minuti nei 200 rana e nei 200 farfalla (con il “Marchons, marchons…” sostituito da “Marchand, Marchand”), la coppia di fidanzati, lui con la maglia del Cagliari e lei con quella della Serbia, i due neo-sposini coreani, con l’abito nuziale addosso, che - all’entrata della metro di La Tour-Maubourg vengono inondati di gadget dai volontari fino a non sapere dove metterli, i manifesti appesi un po’ ovunque con la scritta “Rimpiazzare il capitalismo con una siesta”, gli svizzeri, con i campanacci d’ordinanza, avvolti da vestiti cuciti solo con la loro bandiera nazionale, le due tifose delle Far Oer, a Parigi con tanto di bandiera per tifare una nazione che nemmeno c’era (il loro eroe, un canottiere, gareggia per la Danimarca), gli americani che durante Usa-Giappone femminile di calcio urlavano “De-fense, de-fense” ogni volta che attaccavano le avversarie e fischiavano qualsiasi passaggio all’indietro, anche i più sensati, come un qualsiasi hater di De Zerbi; e poi ancora la bandiera serba gigante esposta fuori da un bar davanti al palazzetto di Bercy, talmente grande da coprirne l’entrata, una ragazza in alta uniforme che alza lo sguardo dal basso all’alto e mi fa l’occhiolino mentre tra le mani stringe la bandiera sudcoreana pochi secondi prima che venga issata quando si accorge che la sto fotografando da un punto invisibile al resto dello stadio e alle telecamere, quattro amici olandesi tutti con la maglia di Weghorst, le passeggiate sugli Champs-Élysées per una volta senza macchine, le gigantografie di Gorbaciov e Reagan all’ingresso di un negozio di abiti usati, il mio posto scontato “a visibilità ridotta” per la pallanuoto, talmente ridotta che a malapena vedevo l’acqua (poi mi sono spostato), e quell’immagine vagamente poetica della ragazza a bordo piscina che guardava il vuoto con i capelli bagnati e il costume, e che - indifferente a tutto - a un certo punto, mai chiaro, si tuffava, raccoglieva con estrema calma una palla rimasta per un po’ nel corridoio esterno o dietro le porte, la riconsegnava a chi di dovere e poi tornava al suo posto, guardando dritta davanti a sé, come se non esistessero i pallanotisti, i tifosi, le Olimpiadi, niente; o finire per caso in mezzo alla torcida messicana dei tuffi, festeggiando e tifando anch’io in mezzo a loro il bronzo per un atleta che non avevo nemmeno mai sentito nominare, Osmar Olvera Ibarra.

Le Olimpiadi sono così, assurde: ti ritrovi a fare cose che mai avresti immaginato, come vedere un incontro di boxe su un ring montato sul centrale del Roland Garros e tifare per un pugile uzbeko di cui nemmeno riesci a pronunciare il nome, applaudire nello stesso giorno un’atleta palestinese e sostenere poco dopo un americano, l’arciere Brady Ellison, con l’aspetto da bevitore di birra del Midwest, che cede nello shoot-off (uno spareggio in cui si tira una freccia ciascuno e chi va più vicino al centro vince) dopo aver inanellato tre tiri perfetti (10-10-10) contro il sudcoreano Kim Woojin che speravo perdesse anche se non mi aveva mai fatto niente.

Metà dei parigini nel frattempo se n’era andata, preoccupata dai Giochi, ma tanti tra loro loro, una volta accortisi dell’errore e della festa in corso, volevano tornare indietro. Chi c’era se l’è davvero voluta godere fino in fondo, condividendo tutto: sorrisi, informazioni, biglietti e creme solari (fondamentali). Non ho mai visto così tanta gente tutta assieme remare nella stessa direzione, gente che arrivava da ogni angolo del mondo e in molti casi non aveva in comune nulla, se non l’esserci qui e ora. E provare a tirare fuori la versione migliore di sé per il bene di tutti.

Come spesso succede, a riassumere tutto ci pensa una canzonetta senza pretese, per di più pubblicata ormai oltre 50 anni fa, nel maggio del 1969 (per dire, non eravamo ancora stati sulla Luna), e per qualche strano giro del destino tornata ultimamente in auge: “Sweet Caroline” di Neil Diamond, una delle più suonate dagli altoparlanti e cantate dal pubblico durante tutta l’Olimpiade, amata per il suo irresistibile coro “oh-oh-oh”. Tutti si concentravano solo su quello. Eppure a un certo punto dice: «Good times never seemed so good». I bei tempi non sono mai sembrati così belli.

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