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Le radici di Omar Sivori
27 ago 2024
Un estratto dall'ultimo libro di Federico Buffa e Fabrizio Gabrielli.
(articolo)
10 min
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Foto Juventus
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Pubblichiamo un estratto da "La Milonga del Fútbol, Un secolo di calcio argentino", il nuovo libro di Federico Buffa e Fabrizio Gabrielli in libreria per Rizzoli da oggi, 27 agosto. Se volete acquistare il libro potete farlo cliccando qui.

A metà del 1951, mentre il Racing sferraglia inarrestabile verso il terzo titolo consecutivo, gli osservatori del River Plate sono impegnati in una serie di appuntamenti in giro per il Paese con l’obiettivo di scoprire gemme grezze da affinare a Núñez. Renato Cesarini, che non ha mai abbandonato il club, neppure una volta smesso di allenarlo, quando può, è sempre presente. Non tanto perché non si fida degli emissari della società, degli osservatori, quanto perché nella scoperta dei talenti si affida a un’arte rabdomantica più raffinata, e tutta sua. Nei giovani non cerca solo abilità, tecnica, attitudine: riesce a subodorare un’affinità elettiva, le vibrazioni che possono rendere un crack in potenza un suo crack in potenza. A Rosario non è andata bene: tanti gambeteadores, molta fantasia, ma per giocare nel River Plate serve qualcosa di più. Serve personalità. José Maiorano, uno dei dirigenti che è con lui a Rosario gli racconta di aver parlato con Nicolás Gualdone, un amico suo, che vive a San Nicolás.

«E dove sarebbe?»

«Ci siamo passati per venire.»

«Ah.»

«E insomma a San Nicolás c’è questa squadra che sta asfaltando tutte, e ci gioca un ragazzino davvero interessante.»

«A sentire le voci, sono tutti interessanti.»

«Sì, ma questo è diverso

«Anche se a sentire le voci, sono tutti diversi.»

San Nicolás de los Arroyos si trova nell’area della Grande Buenos Aires, anche se ormai non si può dire più che ti trovi a Buenos Aires. La capitale è duecentotrenta chilometri più a sud, sulla ruta nueve. Con un piccolo sforzo, invece, sei a Rosario: una settantina di chilometri, e ti trovi in un paesaggio più familiare: le acque marroni del fiume, il Paraná che è casa tua, di cui conosci il mormorio, il rumore bianco che ti accompagna per tutto il giorno, il placido scorrere, i riflessi di legno marcio, di fango sulle ginocchia, di spire di mostro. La deviazione, per quanto impervia, non è complicata. Sulla mappa della sua geolocalizzazione del talento, Renato Cesarini, in quel 1951, mette quindi anche San Nicolás.

San Nicolás de los Arroyos si chiama così in onore di san Nicola di Bari, quello di cui si dice che, durante il Concilio di Nicea, per proteggere le sue idee e condannare aspramente l’arianesimo, difendendo a spada tratta l’ortodossia, sia arrivato a prendere a ceffoni, in un momento d’impeto, lo stesso Ario. È piena pampa, un paesaggio che non finisce.

Lì negli anni Venti e Trenta si è passati in un soffio dalla ruralità alla modernità: prima era l’era dei bandidos rurales, uomini tra il bene e il male, giustizieri fuori dalla giustizia, e nessuno lo era come Guillermo Hoyo, il più forte, il più sfacciato. Guillermo Hoyo era un uomo che a guardarlo bene tutto avresti potuto dire tranne che potesse far male a qualcuno. Bassetto, con le lentiggini, gli occhi chiari, nella sua vita aveva fatto di tutto: il mandriano, il bracciante, e poi si era battuto per l’indipendenza della sua Argentina. Lo chiamavano “la formica nera” per la sua operosità silente. Poi, però, lo avevano accusato di una serie di omicidi raccapriccianti, tipo aver decapitato un ragazzino per il solo gusto di rubare il formaggio che stava portando da una parte all’altra del villaggio. Al di là delle atrocità, Hoyo era uno che rubava per ridistribuire, un eroe dei disagiati, un eroe romantico. Questo era Guillermo Hoyo, “la formica nera”, il più amato, il più crudele, il più temuto.

San Nicolás de los Arroyos, poi, si chiama così perché è stata costruita al centro dell’intersezione di una serie di torrenti – los arroyos – dalle acque paludose, oscure, placide.

«Yaguarón.»

I ragazzini del barrio, a San Nicolás, pronunciano questa parola con un misto di rispetto timoroso e insolenza; poi indicano il torrente, le sue spire fanghigliose. Qualcuno si mette le mani tra i capelli, quando il pallone scivola verso gli argini, rallentando la corsa.

«Yaguarón.»

C’è chi racconta che nelle notti di luna piena, se rimani sveglio, se riesci a scivolare via dalla finestra della tua camera, puoi sentire il rumore degli artigli che scavano, l’acqua del fiume che ribolle, il terreno che cede. Se ti avvicini troppo, avvertono, se ti avvicini troppo e ti sporgi per raccogliere il pallone, poi, lui spunta fuori dal fondale, ti afferra e ti porta con sé per mangiarti i polmoni. È grazie ai polmoni che lui riesce a sopravvivere sott’acqua. Ti guarda con i suoi occhi da lucertola e – zac – ti strappa i polmoni. Meglio andarsene a giocare, allora, dall’altra parte del pueblo, quella che affaccia sulle coltivazioni, dove si spalancano i pascoli, quella che sembra un’eterna, sconfinata, sprimacciata continuità di campi da calcio. Un terreno di gioco enorme, eterno, senza orizzonte, senza confini.

Enrique Omar – lo hanno chiamato così perché Omar significa “abbondanza”, in arabo – quando sente raccontare questa storia pensa che deve averci le sue ragioni, lo yaguarón, per starsene nascosto tra i ciottoli del torrente; che non può essere poi così cattivo come lo dipingono. Forse c’è qualcosa di preziosissimo, là in fondo, e il mostro non fa che il suo compito di mostro, quello che fanno tutti i mostri: proteggere. Quel tesoro, nella mente di Enrique Omar, è il sogno di diventare il calciatore più forte della pampa, anzi, di tutta l’Argentina. Anzi: di tutto il mondo.

Nascere a San Nicolás significa portartelo dentro, il genius loci. Significa essere un po’ anche tu, san Nicola. Il santo benefattore, quello che in certe parti del mondo porta i doni, quello che protegge i bambini. E le proprie idee. Son fatti così, i nicoleños: gente aspra, sfacciata, ma fedele alle proprie idee, ai propri sogni. A Adeodato Publio Sivori il padre raccontava sempre che, quando ci si era trasferito, attraversando l’oceano, non l’aveva poi mica vista così differente dalla sua Liguria. Ci aveva trovato la serenità, un ambiente in cui poter lavorare sodo, con un’asperità diversa ma comunque senza distrazioni, senza neppure il mare a rapirti lo sguardo. Un posto in cui poter essere, violentemente, se stesso. Ci aveva cresciuto i suoi figli: uno di loro, Adeodato Publio, in Argentina, aveva poi incontrato Carolina, una Tiracchia, che veniva dall’Abruzzo.

Avevano avuto cinque figli, a distanza di due anni l’uno dall’altro: il tempo di concepire, attendere come si fa quando si tiene il terreno a maggese, seminare ancora. Leonardo, Julio Nereo, Enriqueta, Carlos Alberto, Horacio. Cinque figli in otto anni. Credeva di aver finito, con i figli, Carolina, nel ’35: aveva anche acceso un cero alla Madonna perché non gliene nascessero più ma poi, a sorpresa, era arrivato il sesto, nato il 2 ottobre del ’35: Enrique Omar. Vivevano in una casa piuttosto umile, i Sivori, una di quelle case basse che ce ne sono a milioni in Argentina: otto persone sotto lo stesso tetto di questo edificio intorcolato, all’incrocio tra calle Francia e calle América, giusto un isolato più in là del cimitero. Quattro anni dopo la nascita di Enrique Omar, nel ’39, quei pochi passi a piedi, quell’isolato di distanza era diventato il percorso per andare a trovare papà: Adeodato Publio aveva lasciato questa terra, e per i Sivori le difficoltà erano diventate più difficili, e i sogni più trasognanti.

L’ascensione passa sempre attraverso un’evasione: ma per abbandonare San Nicolás serve un’occasione vera, innanzitutto. E, per questo, del tempo. Intanto, mentre scorrono placidi gli anni di un’adolescenza da pibe de barrio, Enrique Omar studia alla Scuola delle arti e dei mestieri, come fanno un po’ tutti i ragazzini che, come lui, vengono dal cuore umile della città. Alla escuela, Enrique Omar impara il mestiere di meccanico. Impara a comprendere, e riprodurre, il funzionamento di una macchina. Anche se sa, dentro di sé, che la sua inclinazione è quella di essere la rotella dell’ingranaggio non sbagliata, ma inusitata. Quella che non dovrebbe esserci, che con la sua presenza dovrebbe portare l’intera macchina a non funzionare, e che invece, sorprendentemente, per il solo fatto di esistere, ecco: la sublima.

Al potrero vogliono tutti stare in squadra con lui. E anche nessuno vuole stare in squadra con lui. È egoista, pensano. È semplicemente il più forte, pensa lui. La strada, la polvere: la pampa è il territorio perfetto in cui perfezionare l’istinto, l’intelligenza, la picardia. Tra le quattro mura di casa, dell’aula di scuola, dell’officina meccanica, in quei posti può esistere – deve, o dovrebbe, esistere – l’ordine. Ma nel calcio: nel calcio è il disordine che regge le fila. L’arte dell’imprevisto. E sono i pibes de barrio come Enrique a conoscere meglio di chiunque altro cosa significa confrontarsi, ogni giorno, con l’imprevisto. Tuo padre, da un momento all’altro, se ne va. E tu devi lottare, imparare a convivere con la precarietà: la precarietà è il comburente che innesca la combustione dell’inganno, prima che della fuga. Il calcio è ciò che succede, e bisogna essere sempre in grado di muoversi in bilico tra coscienza, incoscienza, rischio.

Enrique, a scuola, ascolta i maestri insegnare come usare le mani, mani che devono seguire ordini rigidi da parte del cervello: sega, pialla, martella, tenaglia, salda, scalpella, lima, raspa, tornisci. Impara a maneggiare la tecnica. Ma sa che sul campo, nel fulbo, gli serve qualcosa di più: capire come gestire l’imprevisto, ammaestrare il più indomito degli strumenti umani, i piedi, che se stai a sentire gli altri son buoni solo per camminare, per correre, o per fuggire. Nessuno ti insegna che puoi usarli per calciare, sfogando la cattiveria.

Con gli altri ragazzini Enrique Omar condivide l’estrazione sociale e il fatto che la loro vita non sia, ecco, precisamente ordinata. Ragazzini senza ambienti famigliari sereni, un po’ trasandati, impudenti, insolenti: che rubano le pannocchie di mais dai campi in limine al pueblo, per riversarsi poi sui campetti dove giocano fino a sera, dove si sporcano le ginocchia, la faccia. Da nessun ragazzino che per un motivo o per l’altro non è stato un po’ un bandito, o uno sfacciato, è mai uscito un calciatore geniale. Ragazzini forgiati nell’etica, nell’educazione, o pieni di pudore, non saranno mai in grado di diventare crack. Perché gli manca un po’ di maleducazione. Perché gli manca quella vis violenta, minacciosa, che hanno i gauchos della pampa, portatori sani di una mitopoietica romantica, nuova, totalmente argentina.

Genius loci: un’idiosincrasia intrasferibile, mescolanza di caratteristiche uniche, potenti, telluriche – l’aria, la carne, la pampa – e spirituali – quella maniera di sentire, di pensare, di comportarsi.

I nicoleños giocano a calcio come vivono, e viceversa. Gli argentini tutti giocano a calcio come vivono, e viceversa. Il pibe criollo è diverso fisicamente e moralmente dai ragazzi del resto del mondo, che interpretano il gioco in maniera scientifica, metodica, razionale. Il potrero sollecita istinti altri, affina talenti peculiari, e il frutto del suo seno è un intessuto di abilità, picardia, genio. Non è – non sa essere – efficiente, industriale, meccanico, come dall’altra parte dell’oceano.

Enrique Omar convoglia e irradia tutta la vivacità, la “guappitudine”, il temperamento del pibe carasucia.

Nascere a San Nicolás significa essere nel cuore pulsante della mitopoiesi argentina, molto più che a Rosario, sulle sponde del fiume su cui il generale Belgrano per la prima volta aveva fatto sventolare la bandiera albiceleste. Nascere a San Nicolás, “la città dell’accordo”, dove le forze federali e quelle indipendentiste bonaerensi si sedettero a un tavolo per poi tornare a farsi la guerra, dove si siglarono i prodromi di una costituzione che per entrare in corso avrebbe dovuto veder scorrere altro sangue, altre assi di navi divelte galleggiare sulle rive placide del Paraná, significa trovarsi al centro, pur avendo la sensazione di essere lontano da tutto.

Enrique Omar, frutto di provincia, se c’è qualcosa che desidera, che sogna ardentemente, è lasciarsi fagocitare dalle brame portegne.

Di notte, quando sua madre e i fratelli dormono, scivola via dalla finestra della sua camera, e nel caldo afoso corre verso la costanera, dove c’è il grande ombú: sotto le sue fronde rigogliose agitate dal vento caldo, negli astri metallici e bianchi cerca di capire il disegno che il destino ha in mente per lui. In lontananza, un rumore di artigli che scavano nella terra. Lo yaguarón non riuscirà mai a mangiargli i polmoni, a catturarlo, a tenerlo in quel posto per sempre. In qualche modo, con tutta la furbizia di cui dispone, riuscirà a ingannarlo, Enrique Omar, a sfilargli dalle spire il proprio talento, a portarlo verso sud, a Buenos Aires, e poi di lì, ancora oltre, chi lo sa dove.

(c) 2024 Rizzoli

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