Se ci pensate, non c’è molta differenza tra il mestiere del calciatore e quello dell’attore. Non solo perché, per molti appassionati, il calcio è ormai soprattutto uno spettacolo televisivo, e quindi i calciatori si muovono nella cornice di una TV esattamente come gli attori. Ma anche perché la loro mimica del corpo, il loro modo di correre, di cadere, di protestare, è unica, e assorbita dall’inconscio dei tifosi che saprebbero distinguere due giocatori da un singolo frame.
Ogni settimana, cioè, il calciatore va in scena e dà una rappresentazione della propria persona, vestendosi con i colori della squadra e, nei casi più eclatanti, “recitando se stesso” in modo così riconoscibile da diventare un brand.
Forse la differenza più grande è che nel calcio non c’è una linea netta che separa l’attore dal personaggio. Le dichiarazioni, gli avvenimenti, le notizie, persino i post sui social media vengono letti sempre in un’ottica di campo: tutto quello che a disposizione dell’appassionato serve a spiegare i diversi momenti di forma del giocatore, o persino i risultati di un’intera squadra. In un mondo strutturato in questo modo, per i calciatori è davvero possibile rompere la quarta parete e rapportarsi a chi li guarda in maniera sincera?
Questo potrebbe spiegare perché i calciatori sono così gelosi della propria immagine, così attenti a controllarla, persino dopo la fine della loro carriera (la famosa legacy). E magari è sempre per questo che spesso vengono fraintesi.
È questa la forza che spinge i calciatori a conformarsi, a confondersi in un contesto che, nonostante le spinte ad aprirsi degli ultimi anni, non ama parlare. E meno che mai ama parlare di cose difficili, come il razzismo, l’omofobia o i conflitti di genere.
Per questo ho usato storie apparentemente diverse - tra cui quelle di George Best, Graeme Le Soux e Justin Fashanu - che raccontano di come i calciatori che hanno tentato di opporsi a conformismo e omofobia, o che anche solo erano o apparivano “diversi”, hanno finito per essere derisi dal pubblico e dalla stampa, e in molti casi emarginati.
Sono storie come queste a ricordarci come un calcio in cui i protagonisti vengono spogliati di qualsiasi caratteristica non conforme all’immaginario di base - con l’idea degli sportivi forti e silenziosi - in sostanza è un sistema violento.
Parte I. George Best come esempio del “diverso” nel calcio
George Best oggi è un’icona che accomuna nostalgici e bomberisti e internet pullula di citazioni e aneddoti sulla sua vita sregolata, così in contrasto con il mondo grigio e automatizzato del professionismo attuale. Quando si parla di lui si finisce sempre per citarlo ripetendo come un mantra la frase: “Ho speso tutti i miei soldi per alcol, scommesse e donne. Ma almeno non l’ho sprecati” - anche se non è nemmeno sicuro che l’abbia mai pronunciata, perché la stessa citazione è stata attribuita in tempi diversi anche ad altri tre artisti del gioco malvisti dal calcio inglese: Stan Bowles, Rodney Marsh e Frank Worthington.
Il punto è che, in realtà, George Best era molto meno ammirato quand’era in vita. Una parte del mondo del calcio gli rimproverava di aver gettato via il suo talento per seguire le futilità del successo, e prima che morisse lo considerava un narcisista egocentrico. Il Daily Mail, ad esempio, un paio d’anni prima della sua morte si chiedeva perché fosse trattato da eroe, visto il suo passato da alcolista e violento: “Ho saputo che Best è disprezzato da molti calciatori a lui contemporanei, che lo vedono come un viziato, un capriccioso e un sopravvalutato. Best non è affatto una canaglia amorevole tormentata dai suoi problemi, ma in realtà una persona noiosa e autoindulgente incapace di riconoscere il suo orribile comportamento”.
Quando sarà costretto a sottoporsi a un trapianto di fegato, nel 2002, per salvarsi temporaneamente dagli effetti dell’alcolismo (morirà solo tre anni più tardi), molti finirono per notare che l’operazione era stata pagata interamente dal servizio sanitario pubblico inglese e che magari quel fegato sarebbe potuto andare a qualcun altro. Soprattutto quando Best, inevitabilmente, ricominciò a bere.
«Una volta sono stato un intero anno senza ubriacarmi e quindi, con una logica che solo un alcolista sarebbe in grado di capire, sono uscito a festeggiare con una sbronza», ha dichiarato in un’intervista concessa al Telegraph nel settembre del 2001 in occasione dell’uscita della sua autobiografia Blessed (letteralmente: “benedetto”), dove Best aveva parlato anche di depressione e aveva ammesso di aver pensato di suicidarsi nel 1998, inghiottendo un’intera bottiglia di pastiglie di Nurofen.
Nell’intervista, tra le altre cose, si parla di sua madre, Ann Best, che non riusciva a sopportare il peso della fama del figlio e che, come il figlio, morì relativamente giovane per complicazioni legate all’alcolismo. «Era molto difficile per lei avere a che fare con gli sconosciuti. All’inizio la sua morte mi ha colpito terribilmente perché pensavo fosse colpa mia. È una cosa terribile, il senso di colpa».
Anche George Best faceva fatica a gestire la fama e lo mandava ai pazzi che degli sconosciuti lo fermassero per consigliargli come risolvere i suoi problemi. Era una bolla che lo faceva sentire solo. Sempre in quell’intervista è citata anche la sorella Carol che racconta dell’incubo rappresentato da giornalisti e curiosi ogni volta che il fratello tornava a Belfast: «Amavamo quando George veniva a trovarci, ma alla fine era un sollievo quando se ne andava».
Secondo alcuni, la storia di George Best si può leggere come un lento suicidio, una ritirata tragica da una vita che lo aveva isolato dalle persone che avrebbero potuto aiutarlo. Forse è per questo che nelle interviste, dietro l’ironia, sembra sempre far trasparire un profondo bisogno di sentirsi accettato per quello che era, e cioè una persona talmente fragile e incapace di risolvere i suoi problemi da farsi mettere nello stomaco degli impianti anti-alcol che lo avrebbero fatto sentire malissimo non appena avesse bevuto di nuovo.
Foto di Leonard Burt / Stringer
Il solo fatto di parlare di se stesso, però, lo faceva apparire diverso e i giornali inglesi preferivano concentrarsi sull’iconicità delle sue frasi e cavalcare la sua immagine di artista maledetto, forse perché il risentimento verso un calciatore che si comporta come tale vende molte copie. In Best lo scollamento tra attore e personaggio era tale che lui stesso faceva fatica riguardarsi giocare in TV, come se non si riconoscesse. «Non sono mai riuscito ad identificarmi con la persona sullo schermo», ha detto una volta. «Non sono mai riuscito a farci i conti: era come se stesse succedendo a qualcun altro».
Persino nella bella intervista del Telegraph, Best è costretto a difendersi dal pettegolezzo di non avere più un soldo («Quando leggo sui giornali che faccio fatica ad arrivare a fine mese mi viene da ridere. Penso che siano tutti invidiosi. Adoro quando le persone sono invidiose»), e a un certo punto si legge: “Anche una valutazione clemente di George Best dovrebbe ammettere che è stato immaturo, egocentrico, vanesio, cocciuto e forse cinico nel modo in cui ha fatto un sacco di soldi parlando della sua malattia”, dove la malattia è per l’appunto l’alcolismo.
«Uso la stampa quanto la stampa usa me», dice Best con una consapevolezza per certi versi drammatica. D’altra parte, era stato abituato a dover trattare con la stampa fin dall’inizio della sua carriera, e questo perché era diverso anche esteriormente da quello a cui erano abituati gli spettatori. Al contrario della stragrande maggioranza dei giocatori del tempo aveva i capelli lunghi, la faccia sbarbata e un’eleganza innata che il calcio inglese ha sempre guardato con sospetto.
Ma soprattutto gli faceva schifo la vita dei calciatori, lo annoiava terribilmente, e non si faceva problemi a mettere in mostra la sua ricchezza, qualcosa che nel mondo del calcio - fino a qualche tempo fa, oggi vale solo per alcuni - era considerato un peccato mortale. Si vestiva bene, comprava macchine di lusso ed era si accompagnato sempre da donne bellissime. In più, fu uno dei primi ad arrotondare lo stipendio con un’innumerevole serie di sponsor, tra cui una marca di reggiseni.
Fa strano pensare che ciò che adesso è assolutamente normale per un calciatore di alto livello, allora era invece motivo più che sufficiente per trasformarlo nel bersaglio perfetto dei tifosi, che lo punivano mettendo in discussione la sua sessualità. “Georgie Best super-star / Walks like a woman / And he wears a bra”, cantavano i tifosi sulle note di Jesus Christ Superstar. Georgie Best super-star / Cammina come una donna / E indossa un reggiseno. «Fortunatamente quelle sono due cose che non ho mai fatto», dice lui nell’intervista al Telegraph.
Il calcio inglese (ma non solo, ovviamente) ha una lunga storia di violenza nei confronti dei suoi giocatori più eccentrici, sia in campo che fuori, e il sesso è stato quasi sempre al centro del discorso.
“Where’s your handbag Charlie George?”, dov’è la tua borsetta Charlie George, cantavano i tifosi avversari negli anni ‘70 in direzione dell’attaccante dell’Arsenal, che sfoggiava un taglio alla Beatles. Glenn Hoddle, leggendario centrocampista del Tottenham, era invece chiamato Glenda, o ancora più esplicitamente poof - cioè frocio, ricchione - più o meno per lo stesso motivo.
Più recentemente è stato invece Hector Bellerin ad essere bersaglio di insulti omofobi. Il terzino spagnolo dell’Arsenal viene spesso chiamato “lesbica” dai tifosi avversari per i suoi capelli lunghi e la passione per la moda, e per un momento ha chiuso i suoi account social per gli insulti omofobi. «È impossibile che qualcuno sia apertamente gay nel mondo del calcio», ha detto Bellerin. «Il problema è che le persone hanno un’idea di come un calciatore dovrebbe apparire, di come dovrebbe comportarsi, di cosa dovrebbe parlare».
Il diverso, quindi, è tutto ciò che esce dai confini dell’immaginario e dalla morale comune, quasi sempre influenzata dalla religione e da un certo conservatorismo più o meno esplicito. E dato che non c’è niente di più diverso, in un mondo machista, di un gay, le due cose diventano una sola.
Parte II. Quando l’omofobia è esplicita
Nel calcio degli anni ’90 la storia di discriminazione più conosciuta è quella di Graeme Le Saux, che per anni venne rincorso dal coro “Le Saux, takes it up the arse”, cioè Le Saux lo prende nel culo. I compagni di squadra e gli avversari non potevano sopportare quel suo cognome francese, né il fatto che leggesse un quotidiano liberal come il Guardian, e si appigliavano a un pettegolezzo nato dopo un viaggio in tenda fatto assieme a un suo compagno di squadra, Ken Monkou.
Una volta, durante un Chelsea-Liverpool del 1999, iniziò a essere provocato da Robbie Fowler che, mentre Le Saux si apprestava a battere un calcio d’angolo, iniziò a piegarsi in avanti mostrandogli e indicandosi il culo. Le Saux cercò di attirare l’attenzione dell’arbitro, rifiutandosi di battere il calcio piazzato, ma alla fine solo lui venne ammonito, per perdita di tempo.
Allora si avvicinò a Fowler e gli disse: «Robbie, c’è mia moglie sugli spalti». Al che, l’attaccante del Liverpool rispose: «Anche Elton John era sposato!».
Le Saux, che poi è diventato membro dell’Inclusion Advisory Board della Football Association (una commissione che cerca di favorire l’inclusione delle diversità nel calcio), ha dichiarato di aver provato a salvarsi cercando di recitare la parte del macho sul campo, ma di non essere riuscito a cambiare le cose se non alla fine della sua carriera, e di aver provato una “sensazione di grande sollievo” al momento del ritiro.
Sappiamo queste cose principalmente perché l’ex difensore del Chelsea le ha raccontate nella sua autobiografia, pubblicata dopo il suo ritiro, e dalle sue dichiarazioni sembra essere evidente che la possibilità di parlarne quand’era ancora in attività non è stata mai presa in considerazione.
«Mi sono domandato se fosse diffamatorio essere chiamato omosessuale, dato che non lo ero», racconta Le Saux. «Ma nel calcio penso che lo sia, perché uno si deve difendere: ammettere di essere gay può voler dire la fine della tua carriera».
Quello di Le Saux si può leggere in prima battuta come un “atto di accusa”, come lui stesso l’ha definito, nei confronti del calcio. Un ambiente talmente ostile per gli omosessuali da poter mettere fine a una carriera. Il che è sicuramente vero, se prendiamo in considerazione il trattamento che hanno subito persone come Carlo Carcano, uno degli allenatori più vincenti nella storia della Juventus e della Serie A, il cui ricordo - persino quello - è stato cancellato per via del suo orientamento sessuale.
Ma la storia di Le Saux si può leggere anche a un altro livello: cosa significa il fatto che un calciatore non riesce neanche a parlare apertamente della sofferenza derivante da un’umiliazione pubblica, e preferisce recitare una parte pensata solo per chi lo guarda?
Il caso di Le Saux è paradigmatica perché rivela in che modo il mondo del calcio guardi a quello della comunicazione, e cioè esclusivamente come a uno strumento di difesa della propria reputazione, e quindi della propria carriera. Un rapporto che appiattisce spesso il discorso sportivo e umano, mettendolo su binari retorici sempre uguali, facendo somigliare tutte le interviste dei calciatori tra di loro, con un spirito conformista che nasconde la violenza latente.
Per questo i calciatori sono considerati come figure pubbliche “noiose”, se non addirittura banali e superficiali, circoscritte a quel mondo di begli oggetti e celebrazioni che sarà magari lontano dalla realtà materiale dei loro spettatori ma che in qualche modo combacia con l’immaginario della maggioranza. In questo senso, però, dobbiamo chiederci se non siano i calciatori per primi a sentirsi a disagio, ad avvertire come una minaccia alla propria vita professionale (o alla propria tranquillità) qualsiasi problematizzazione.
Insomma il caso Le Saux ci lascia con la domanda: è più difficile giocare parlando apertamente di omofobia e del dolore che si prova quando si viene discriminati, o subendo insulti e discriminazioni in silenzio per tutta la propria carriera? È più facile parlare dei propri problemi o fingere di essere un’altra persona, fino al punto in cui l’unico modo per discuterne è smettere di fare il proprio lavoro?
In teoria, dovrebbe essere più difficile fingere e subire gli insulti, ma se così non è non dovremmo forse mettere in discussione il sistema stesso all’interno di cui parliamo?
Parte III. Essere gay e calciatori
Le Saux ovviamente non è stato l’unico giocatore vittima di omofobia. Interrogato sulla questione da Gary Lineker, anche Thomas Hitzlsperger, centrocampista tedesco che ha annunciato pubblicamente di essere omosessuale nel 2014, circa un anno dopo il suo ritiro, ha dichiarato di non aver mai pensato di poterlo fare mentre era in attività.
«Solo negli ultimi anni della mia carriera ho scoperto di essere gay. Avevo una relazione con una donna che durava da molti anni e quando ci siamo lasciati sono stato solo per alcuni anni. Poi verso la fine della mia carriera l’ho scoperto: questo sono io, sono gay. Ma non volevo ancora parlarne perché ero dedito al calcio, ed era la mia vita privata».
Certo, la sessualità di un calciatore non è affare di nessuno, se non del diretto interessato, ma c’è una sfumatura più sottile di cui bisogna tenere conto quando si ragiona su casi particolari come quello di Hitzlsperger, che deriva dalla visione d’insieme, e cioè il fatto che la vita del calciatore sembra incompatibile con una rappresentazione sincera di se stessi. Come presupposto comune e implicito a tutti, etero e omosessuali.
Un’idea talmente radicata che anche storie che derivano da un clima culturale peculiare, come quella di Douglas Braga, giocatore brasiliano così impaurito dalle ripercussioni che avrebbe potuto subire per via della sua omosessualità che ha deciso di interrompere bruscamente la propria carriera all’età di 21 anni, sembrano avere un respiro universale.
«Era una scelta tra l’essere se stessi e l’essere calciatori. Era semplicemente impossibile essere entrambi», ha detto alla BBC, e sembra che le sue parole risuonino ben oltre il racconto aperto della propria sessualità, anche se vanno lette nel contesto di un paese come il Brasile dove persino i giudici dicono che il calcio non è uno sport per gay.
Ma anche nel calcio occidentale d’élite, in cui la comunicazione è diventato un aspetto centrale e le società calcistiche somigliano sempre più a delle media company, e dove i giocatori sono spesso seguiti da agenzie che ne curano l’immagine, da esperti di comunicazione che scrivono sui social a loro nome e tengono aggiornati i fan sulla propria vita privata in tempo reale, un dibattito aperto sulla sessualità non sembra essere possibile.
Il che è paradossale: com’è possibile che in un’epoca in cui il calcio sembra voler sempre più parlare di se stesso, in cui il discorso è sempre più chiuso, ristretto e autoreferenziale, questo tema non sia ancora emerso? Diciamolo con altre parole: non è importante sapere quali o quanti calciatori siano omosessuali, ma com’è possibile che uno sport con una così grande influenza e importanza nella nostra società, non affronti in nessun modo un problema così urgente e attuale come quello dell’omofobia?
Probabilmente la stessa genesi del gioco, derivante da un’idea malata del sesso, influenza ancora la logica machista alla base di ogni discorso su calcio e omofobia, ed eventuali calciatori omosessuali verrebbero messi automaticamente nella posizione di dover giustificare se stessi, perché gli verrebbe appiccicata un’immagine stereotipata di uomini a cui manca qualcosa, uomini forse senza cattiveria, senza agonismo.
Il calcio è nato nei college britannici sotto forma di educazione semi-militare, e come antidoto all’individualismo, al pensiero critico e alla stessa idea di sessualità. Come ha spiegato lo storico inglese J. A. Mangan, la mascolinità nata con il calcio dei college britannici non negava l’omosessualità, che non era nemmeno presa in considerazione, ma il sesso nella sua totalità. E questo carattere non è mai davvero sparito.
Anzi, è proprio la volontà di club e giocatori di tenere sotto controllo la propria immagine ad aver reso ancora più stantio il discorso pubblico. E ancora una volta notiamo quanto è paradossale la situazione: il fatto stesso che non sia possibile riconoscere a colpo d’occhio tra calciatori etero e omosessuali, e dopo decenni in cui si fa finta che non ci siano calciatori omosessuali ma sappiamo per certo che è così, dovrebbe tranquillizzare tutti sul fatto che non esistono reali differenze.
«[Noi calciatori] Siamo dei grandi attori perché abbiamo paura di far sapere alle persone chi siamo davvero», ha dichiarato al Guardian Robbie Rogers, calciatore statunitense che nel 2013 si è ritirato apposta per fare coming out. «Siamo stati istruiti dai nostri agenti su come fare le interviste, su come presentare noi stessi. Non c’è stato un calciatore che [da quando ho fatto coming out] mi abbia detto: “Robbie, grazie, anche io sono gay…”. Non so se qualcuno lo farà mai».
Foto di Jeff Gross / Getty Images
Rogers, che negli Stati Uniti aveva vinto la MLS Cup con i Columbus Crew, si è ritirato quando la sua carriera sembrava sul punto di spegnersi in Inghilterra, dopo due esperienze poco positive prima al Leeds e poi in prestito allo Stevenage, al quarto livello della piramide del calcio inglese. Dopo il coming out, però, è stato chiamato dai Los Angeles Galaxy, che lo hanno riportato negli Stati Uniti per altre quattro stagioni.
Quando gli viene chiesto se gli sarebbe piaciuto rimanere nella storia come uno degli atleti ad aver contribuito ad abbattere una barriera sociale - come lo sono stati Jackie Robinson e Muhammad Ali con il razzismo negli Stati Uniti - lui però ha risposto: «Dovrei essere forte abbastanza ma non so se è quello che voglio davvero. Vogliosolo essere un calciatore. Non voglio avere a che fare con il circo. E le persone che poi vengono a vederti solo perché sei gay? Non sono sicuro di voler fare interviste tutti i giorni in cui ti chiedono: “Com’è farsi la doccia con altri ragazzi?”».
Ed è tanto più strano, e significativo del potere violento, per quanto latente, dell’omofobia nel calcio, che Rogers si faccia quel tipo di domande dopo aver fatto coming out.
Forse è l’ossessione del calcio di voler controllare e manipolare la propria immagine a renderlo uno sport così conservatore, perché i calciatori sanno che le loro prestazioni e i risultati delle loro squadre saranno guardati attraverso il prisma delle loro faccende personali, e dei pettegolezzi che vi girano intorno. E nessuno vuole essere considerato responsabile.
Le tendenze più conservatrici e violente del mondo del calcio - alimentate e in qualche modo sopite dalle risposte sempre uguali dei calciatori - emergono quando invece un calciatore osa non rispettare il copione: esprimendosi sul razzismo o qualsiasi altra questione politica o tematica sociale. Tutte cose di cui un calciatore non parla per preservare se stesso.
Parte IV. Quando la violenza è impossibile da ignorare, la storia di Justin Fashanu
Il calcio, quindi, porta i primi protagonisti a negare se stessi. Tutti, in un certo senso, ma in particolare quelli diversi. Per quanto riguarda l’omosessualità e la violenza nichilista, disumana, di cui è capace il mondo del calcio, la testimonianza più esplicita viene dalla storia di due fratelli, John e Justin Fashanu.
Justin Fashanu è stato il primo giocatore di colore del calcio inglese ad essere venduto per un milione di sterline, e già solo questo è stato un motivo sufficiente per renderlo il bersaglio di molti tifosi inglesi. Nel documentario Forbidden Games (disponibile su Netflix) lo si vede in un’intervista a bordo campo dopo un allenamento, quando stava iniziando a farsi notare al Norwich, la squadra che ha cresciuto lui e suo fratello John, mentre un giornalista gli chiede cosa ne pensi dei cori razzisti che lo perseguitavano.
«Se sei un giocatore che risalta, perché hai una tua personalità o semplicemente perché sei diverso da tutti gli altri sul campo, finirai per essere preso di mira», risponde.
All’inizio la sua storia sembra quella del predestinato: segna diversi gol con la maglia del Norwich, diventa la stella della squadra e non si fa problemi nell’ostentare la sua ricchezza. Compra diverse macchine di lusso, si fa vedere in giro con donne appariscenti. Raggiunge l’apice della sua carriera nel febbraio del 1980, quando segna il gol con cui lo ricordiamo ancora oggi, contro il Liverpool, in casa.
È spalle alla porta ed è costretto a ricevere un passaggio difficile al limite dell’area, con un difensore che sembra sul punto di anticiparlo. Fashanu si alza la palla con l’esterno destro, tenendo l’avversario alle spalle, e con un movimento continuo, poco prima che il pallone torni a terra, lo colpisce con il collo sinistro pieno, disegnando una traiettoria perfetta che si infila accanto al palo alla destra del portiere. Sarà eletto gol della stagione 1979-80 dalla BBC e sarà uno dei motivi che porteranno il leggendario Nottingham Forest di Brian Clough a puntare su di lui.
A Nottingham le cose però non vanno come previsto. Fashanu sbaglia diversi gol sotto porta e nella piccola cittadina inglese ci mette poco a diffondersi la voce che è un assiduo frequentatore di club per gay.
Brian Clough, infastidito dalle voci, ha raccontato nella sua autobiografia di averlo preso da parte negli spogliatoi e di avergli chiesto:
«Dove vai se vuoi un pezzo di pane?».
«Al forno, suppongo», ha risposto Fashanu.
«E dove vai se vuoi un cosciotto d’agnello?»
«Dal macellaio»
«E allora perché continui ad andare in quei cazzo di club per froci?»
Di lì a poco viene allontanato dalla squadra, prima in prestito al Southamtpon, poi venduto al Notts County e infine al Brighton & Hove Albion, dove rimedia un brutto infortunio al ginocchio che lo costringe ad andare negli Stati Uniti per una lunga riabilitazione che finirà per prosciugare le sue finanze.
Caduto improvvisamente in disgrazia, Justin Fashanu si avvicina alla religione cristiana, diventando un born again christian e dichiarando pubblicamente di aver ripudiato il denaro. Non possiamo sapere se la sua svolta fosse sincera o solo un modo per farsi accettare da un mondo in cui ormai era ai margini. Di fatto, però, la sua carriera ad alti livelli finisce con il fallimento al Nottingham.
Torna a giocare negli Stati Uniti, e poi in Canada, prima di iniziare un lungo purgatorio nelle serie minori inglesi. Nel marzo del 1990 viene ingaggiato dal Leyton Orient, nella Serie C inglese, dove arriva in gravi difficoltà economiche. L’allenatore del Leyton Orient del tempo, Frank Clark, dice che il fatto che fosse gay allora era un open secret e che avesse provato ripetutamente a convincerlo a fare coming out, ma che ne fosse terrorizzato.
Eppure pochi mesi dopo vende l’esclusiva sul suo coming out per 70mila sterline al Sun, che titola: “£1m Football Star: I AM GAY”. Nel pezzo, tra le altre cose, si rivela che Justin Fashanu è andato a letto con un parlamentare inglese, David Atkinson.
Poco dopo i giornalisti iniziano a chiedere a Justin Fashanu se non ha paura che il suo coming out possa danneggiare la carriera del fratello minore, John Fashanu, che dopo essere cresciuto con lui al Norwich si era affermato al Wimbledon, in prima divisione, proprio nel momento in cui la sua carriera andava allo sfascio.
John Fashanu si sentiva effettivamente in pericolo per via della nube mediatica che si era addensata intorno a Justin e una volta dichiarò: «Non è che tutti i calciatori se ne escono dicendo: “A me piacciono le donne, a me piacciono gli uomini”. Quelli sono affari loro. Adesso [Justin, ndr] dovrà fare i conti con le conseguenze».
Una settimana dopo, rilasciò un’esclusiva alla rivista The Voice, che poi decise di pubblicare l’articolo con il titolo: “John Fashanu: My Gay Brother is an outcast”. Cioè un derelitto, un reietto. Justin successivamente dichiarerà che il fratello gli aveva offerto una cifra considerevole di denaro per non fare pubblicamente il suo coming out.
Da quel momento, le loro due carriere prendono strade simmetricamente opposte. John, dopo aver chiuso la sua carriera più che dignitosamente all’Aston Villa divenne addirittura un personaggio televisivo, presentando il programma Gladiators. Justin, forse in un disperato tentativo di rilanciare la sua carriera, cercò di ricostruirsi un’immagine pubblica intraprendendo una relazione di facciata con l’attrice televisiva Julie Goodyear, e vendendo ai giornali gli scoop sulla sua vita privata. Persino facendosi vedere in appartamenti lussuosi e macchine appariscenti, nonostante versasse sempre in condizioni economiche poco stabili.
Secondo alcuni, Justin Fashanu faceva di tutto per apparire sulla stampa e a un certo punto rimase coinvolto in uno dei tanti scandali sessuali che scosse il partito conservatore britannico agli inizi degli anni ’90, dopo la morte del parlamentare Stephen Milligan, che fu ritrovato senza vita nudo e con un paio di calze da donna addosso.
Terrorizzato dalla piega degli eventi, Justin Fashanu smentì tutte le indiscrezioni che continuavano ad uscire sui giornali sulle sue presunte relazioni con altri parlamentari, arrivando anche a dire che la rivelazione fatta al Sun sul suo rapporto con Atkinson fosse in realtà inventata. «Avrei dovuto negare tutto subito», disse ai giornalisti assiepati fuori da casa sua vestito di tutto punto «Ma credevo fosse un modo per fare soldi facili perché pensavano che fossi coinvolto».
Dopo aver di fatto ammesso di aver manipolato la stampa per denaro, Justin Fashanu divenne effettivamente un outcast. Gli Hearts of Midlothian, dove si era trasferito nel 1993, si affrettarono ad allontanarlo e lui fu costretto a tornare negli Stati Uniti, pur di trovare una squadra che gli consentisse di giocare. Dopo alcune esperienze minori, Justin Fashanu nel 1997 annunciò la fine della sua carriera da calciatore diventando allenatore del Maryland Mania, una squadra che faceva parte della vecchia Serie B statunitense.
Dopo pochi mesi, nel marzo del 1998, Justin Fashanu venne però accusato da un ragazzo di 17 anni di averlo violentato, praticandogli del sesso orale dopo averlo drogato. Ma prima che la polizia arrivasse al suo appartamento, dove secondo il ragazzo era avvenuto il fatto, Justin Fashanu era già scappato in Inghilterra. Fu ritrovato a Shoreditch, nella periferia orientale di Londra, impiccato all’interno di un garage abbandonato.
Vicino al suo corpo fu ritrovato un messaggio d’addio, che inizia così: “Essere gay e una celebrità allo stesso tempo è così difficile, ma tutti hanno difficoltà al momento, quindi non posso lamentarmi”.
C’è una parte del documentario Forbidden Games che secondo me è particolarmente significativa. È un estratto di un’intervista genitori adottivi di Justin Fashanu (che era stato abbandonato insieme al fratello dalla madre Pearl, che pensava di non potergli garantire una vita dignitosa), realizzata nel momento in cui il suo futuro da calciatore sembrava poter brillare di luce propria.
«Pensate che la sua stabilità personale possa risentire del successo che sta avendo?», gli viene chiesto. A rispondere è la madre adottiva, Betty Jackson, una donna austera, ovviamente bianca, con gli occhiali spessi e una pesante catena dorata al collo, seduta su un divano di velluto, con dei rosoni ricamati che assomigliano a quelli che si vedrebbero sulle vetrate di una chiesa gotica. «Non mi preoccupo per lui, è un ragazzo molto equilibrato, sensibile. Sa bene che non durerà a lungo. Arriverà il momento in cui tornerà a essere nessuno».
È una frase che non è solo tristemente profetica rispetto alla carriera e alla vita di Justin Fashanu - che oggi ricordano in pochi - ma che incornicia bene anche ciò che generalmente ci si aspetta dai calciatori. E cioè, che appaiano per un attimo nei nostri stadi, e sui nostri schermi, per intrattenerci. E che in breve tempo tornino ad essere nessuno.
Ma sono la stessa vita di Justin Fashanu e i suoi tentativi di salvare la propria carriera dando in pasto alla stampa un’immagine di sé fuorviante, a fare da monito per il mondo del calcio, ancora oggi.
Mentre scrivevo questo articolo, Viktor Fischer, calciatore 24enne in forza al Copenaghen, ha risposto nel post-partita ai cori omofobi che avevano provato a colpirlo in campo. «Ho sentito diversi cori contro di me, che mi definivano omosessuale. Ma non è questo il problema. Non me ne frega niente se mi chiamano in un modo o nell'altro. Il problema è che la parola omosessuale viene utilizzata come insulto», ha detto Fischer «C'è un problema culturale nel calcio, che si basa sull’essere duri, sul silenzio, perché questo ti dovrebbe rendere forte».
Solo nei prossimi anni sapremo se anche il calcio d’élite avrà lo stesso coraggio per essere così sincero con il pubblico, che fino ad adesso è stato abituato dalla stampa a trattare i calciatori più come simulacri che come persone vere e proprie.