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On to the next one
02 mag 2016
Analisi e preview del secondo turno di playoff NBA, il periodo più sottovalutato dell’anno.
(articolo)
17 min
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Di tutti i turni di playoff, per qualche strano motivo il secondo è il mio preferito. Forse il suo segreto è la varietà che propone: innanzitutto ci sono le migliori otto squadre della NBA — perché se non sei in grado di vincere almeno una serie di playoff, non puoi considerarti tale. In più il fatto che ci siano quattro serie diverse assicura la giusta varietà di argomenti, personaggi e temi tattici da sviscerare — cosa che non accade nelle finali di conference, quando si palleggia da una serie all’altra come uno scambio di tennis a fondo campo. Come gestione dei tempi, poi, assicura quantità e qualità: le otto serie di primo turno costringono a compiere scelte dolorose per riuscire a seguire tutto — la mia, ad esempio, è stata quella di non guardare neanche un fotogramma di San Antonio-Memphis —, mentre quattro sono decisamente più gestibili con il League Pass, senza essere costretti a fare zapping da una partita all’altra in contemporanea.

Di gran lunga peggiore, in compenso, sono le tempistiche per far uscire un pezzo come questo, che vorrebbe essere di preview. Perché al momento in cui ho iniziato a scrivere — domenica pomeriggio — una partita a ovest si è già giocata (San Antonio-OKC) e un’altra se ne giocherà stanotte (Golden State-Portland), mentre dall’altra parte Cleveland e Atlanta attendono impazienti sui blocchi di partenza e l’ultima serie non so nemmeno quale sarà tra le vincenti di Miami-Charlotte e Toronto-Indiana. Quattro serie, quattro situazioni diverse. È il bello e il brutto dei playoff NBA, ma sinceramente non li scambierei con niente al mondo.

San Antonio Spurs (2) - Oklahoma City Thunder (3)

Per mia e vostra fortuna, a fare una preview della miglior serie di questo turno ci ha già pensato Zach Lowe, quindi per farvi un’idea complessiva della serie potete affidarvi a lui a occhi chiusi. Quello che possiamo fare noi, però, è tirare un po’ le somme dopo gara-1 — che al contrario di quello che gli osservatori neutrali speravano è stata tutt’altro che equilibrata.

E si poteva capire già dal primo possesso di serata che le cose per OKC non sarebbero andate bene.

Paradossalmente quella schiacciata è stata un microcosmo di tutta la partita, con la difesa di OKC totalmente in balia dei pick and roll degli Spurs. Ha iniziato Leonard attaccando il ferro (6/6 nel primo quarto per 12 punti) e poi ha soprattutto continuato LaMarcus Aldridge, che è entrato in modalità Re Mida trasformando in due punti ogni pallone ricevuto (15/15 da passaggi dei compagni, 10/10 in catch & shoot), soprattutto quelli dalle mani di Tony Parker. I loro giochi a due sono stati preparati malissimo dalla difesa di Oklahoma City, che ha scelto di proteggere l’area e di lasciare il tiro dalla media distanza a Aldridge, venendo punita severamente e ripetutamente.

Questa scelta dà la possibilità di fare un ragionamento sui tiri dalla media distanza, che notoriamente nella NBA contemporanea sono quelli meno ricercati ed efficienti. C’è una differenza notevole però tra i tiri dalla media tentati da passaggi dei compagni e quelli prodotti in proprio.

In questa grafica, una delle ultime di Kirk Goldsberry prima della chiusura di Grantland, si vede bene la differenza tra le due tipologie di tiro e la loro efficienza nella stagione 2014-15. Se poi quei palloni finiscono nelle mani di un super-tiratore dalla media come Aldridge (26/40 in questi playoff, 42.1% in carriera), lasciargli il jumper equivale alla morte — come ben sanno gli Houston Rockets, massacrati da 46 punti in gara-1 e altri 43 in gara-2 solo due anni fa.

La difesa dei Thunder ha provato ad adeguarsi nel corso della partita, ma una volta entrato in ritmo Aldridge ha continuato a tartassare dalla media, fino a segnare 38 punti in meno di 30 minuti, tra cui anche questi due in cui gli déi del basket hanno palesemente detto: “Ok, questa sera ti facciamo entrare tutto”.

Al di là di Aldridge, anche il resto degli Spurs ha macinato la difesa dei Thunder riscoprendo un Danny Green che si pensava perso: dopo aver faticato in regular season (33.2% da tre, peggior dato della carriera), nella post-season è 11/19, di cui 5/6 in gara-1. La sua precisione dall’arco è il segreto delle spaziature di San Antonio: se le difese non si possono staccare da lui, diventa difficile contenere le penetrazioni di Leonard e Parker così come la doppia minaccia (“roll” verso il canestro e “pop” per il tiro dalla media) di Duncan e Aldridge. In gara-1 l’attacco degli Spurs ha triturato gli avversari (141.8 di rating offensivo nei primi tre quarti) ai livelli dell’attacco visto nei playoff 2014 — e questa è una pessima notizia per il resto della lega, perché nella propria metà campo San Antonio ha semplicemente una delle migliori difese di sempre, capace di mettere la museruola anche a due attaccanti del livello di Kevin Durant (6/15 al tiro e -31 di plus-minus, peggiore di squadra) e Russell Westbrook (5/19, di cui solo 3/11 al ferro).

Quello che è certo è che i Thunder non hanno capito assolutamente nulla né in attacco né in difesa, prendendosi un pugno fortissimo sul naso nel primo quarto (43 punti, nuovo record di franchigia per gli Spurs) senza mai riuscire a fermare l’emorragia, finendo anche a -43 nel corso della gara. Sono riusciti a tirar fuori qualcosa da Ibaka (migliore dei suoi con 19 punti e 8/15 dal campo, di cui 3/6 da tre), ma non può passare dalle sue mani una vittoria sul campo di San Antonio, dove i Thunder finora hanno raccolto più che altro sonore sconfitte ai playoff (5 delle ultime 6 con 25 punti di scarto di media).

La situazione non è destinata a rimanere tale per il resto della serie — si spera, almeno, visto l’hype che la circondava prima di gara-1 — e gli 11 rimbalzi offensivi raccolti dovrebbero essere una costante nelle prossime partite, perché Adams e Kanter sono difficili da tagliare fuori quando tutte le attenzioni della difesa sono rivolte a Russ e KD. Però 43 punti di gap da colmare sono tanti, e non si cancellano in due giorni: Donovan ha ancora la carta del quintetto piccolo con Durant da 4 da potersi giocare, ma la batteria di esterni a disposizione è drammaticamente inaffidabile (Roberson, Waiters, Singler, Payne, Foye: 1/6 combinato nei primi tre quarti). E tutto questo senza considerare i problemi nei finali di partita denunciati in regular season e non più tardi di gara-2 contro Dallas. Ma vista questa gara-1, sarebbe un discreto successo anche solo arrivare a giocarsi la partita in the clutch.

Golden State Warriors (1) - Portland Trail Blazers (5)

Quella tra Warriors e Blazers potrebbe e dovrebbe essere la serie offensivamente più divertente delle quattro rimaste: nei quattro incontri di regular season, le squadre hanno segnato 965 punti totali, con le quattro guardie (Curry, Thompson, Lillard, McCollum) capaci di tirare col 53% da tre. Come tutto il mondo sa, purtroppo Steph Curry non sarà in campo per l’inizio di questa serie e, sebbene lui voglia rientrare già da gara-3, gli Warriors farebbero bene a pensarci seriamente prima di affrettarne il ritorno — perché se c’è una cosa che possiamo dedurre dalla gara-1 di ieri sera è che Golden State, anche senza l’MVP, ha comunque parecchi modi per battere questi Blazers.

Già, perché Curry è il sole attorno al quale girano tutti gli altri pianeti in attacco, ma è in difesa che gli Warriors possono comunque dominare questa serie, perché hanno il personale adatto per bloccare Damian Lillard e C.J. McCollum, vale a dire i due motori tutt’altro che immobili dell’attacco di Portland. Affrontare due guardie come Dame & C.J. pone un dilemma sostanziale su ogni pick and roll: rimanere in contenimento per proteggere l’area (la difesa preferita da gran parte della NBA) equivale a concedere un tiro smarcato dal palleggio, aka la soluzione preferita dei due; stargli troppo vicino equivale a farsi battere dal palleggio perché sono troppo rapidi e fantasiosi (le esitazioni di McCollum con la mano destra meriterebbero un’ala di un museo hipster a Portland) facendoli arrivare al ferro o innescando gli aiuti che liberano al tiro i vari Harkless e Aminu (che sono tiratori ondivaghi, ma non terribili).

I Clippers nella serie precedente hanno provato La Terza Via, vale a dire togliergli la palla dalle mani raddoppiando ogni pick and roll, ma sono stati uccisi — oltre che dagli infortuni di Paul e Griffin, ovvio — dagli short roll di Mason Plumlee (34 assist in 177 minuti nella serie). Anche Kerr se possibile ha raddoppiato le guardie, ma invece di mettere Bogut su Plumlee come tradizione vorrebbe, lo ha messo su un esterno come Harkless, che non ha le capacità per battere una difesa come quella degli Warriors neanche in situazioni di 4 contro 3 e può essere “battezzato” al tiro, mantenendo intatta la protezione del ferro (2/18 dei Blazers nei tiri contestati da Bogut e Green, 7/24 nell’ultimo metro di campo).

Un esempio su tutti: Bogut che polverizza Plumlee

Oltre a questo, i campioni in carica hanno tre difensori perimetrali d’élite come Livingston, Thompson e Iguodala che sovrastano per fisico e altezza le due point guard dei Blazers e possono attaccarli incessantemente nell’altra metà campo. Trovare un posto dove nascondere Lillard e McCollum è la chiave della serie per Portland se vuole avere una speranza di vittoria: Lillard concede una quindicina abbondante di centimetri a Livingston (non fidatevi dell’1.91 riportato da NBA.com: il numero 0 dei Blazers arriverà all’1.85 a star larghi) ma è abbastanza tosto per fare a sportellate con Livingston o quantomeno farlo ricevere lontano dal post basso (dove è probabilmente la miglior point guard della NBA).

L’accoppiamento tra Thompson e McCollum, invece, non è sostenibile per Stotts: Klay è entrato subito in ritmo (18 punti nel primo quarto) e non si è più fermato fino a raggiungere quota 37 (suo career high ai playoff), portando a tre la striscia di partite consecutive con 7 triple segnate (nuovo record in post-season) per un complessivo 21/36 dall’arco, contro il 21/90 degli avversari di Golden State nello stesso lasso di tempo. Gli Warriors si sono adattati a giocare senza Steph aumentando ancora di più la circolazione di palla per trovare i tiri a cui sono abituati: in questi playoff hanno assistito il 69% dei canestri e tenuto una media attorno ai 340 passaggi a partita (in regular season era di 323), cercando e trovando ripetutamente Thompson che è semplicemente inarrestabile quando può tirare senza dover mettere palla per terra (76% di percentuale effettiva nei tiri catch & shoot in questi playoff), mentre si ferma solo al 24% di eFG nei palleggio-arresto-e-tiro, specialità di Chef Curry.

Crazy shooting, già. Più tutto il resto.

Mettere Harkless sulle sue piste è un aggiustamento atteso già da gara-2, spostando McCollum su Barnes e sperando di non pagare troppo dazio. Perché gli Warriors sono terrificanti nell’identificare qualsiasi difetto e punto debole degli avversari e farglieli pagare carissimi, senza concederne nessuno. Anche senza Curry, una squadra del genere è difficile da affrontare per chiunque.

Cleveland Cavaliers (1) - Atlanta Hawks (4)

È strano: questa serie l’abbiamo vista solamente un anno fa eppure, nonostante i protagonisti in campo siano pressoché gli stessi, i ruoli delle due squadre sono totalmente invertiti. Nelle finali di conference della scorsa stagione gli Hawks erano la squadra offensiva con il miglior record a est e il fattore campo a favore, mentre i Cavs — senza Kevin Love e con un Kyrie Irving alle prese con diversi problemi fisici — si erano reinventati in corso d’opera come squadra operaia e difensiva attorno a un LeBron James in modalità Padre & Padrone. Quest’anno si affrontano di nuovo, ma è Cleveland ad avere un attacco atomico (il 4° in regular season, il 2° di questi playoff) e Atlanta a poter contare sulla seconda miglior difesa della regular season dietro San Antonio.

Soprattutto, è la situazione fisica a essere diversa: gli Hawks della scorsa stagione erano arrivati in finale di conference con un roster parecchio incerottato — Thabo Sefolosha con una gamba rotta per colpa della polizia di New York, Paul Millsap con una spalla in disordine, Kyle Korver fuori in gara-2 con una caviglia a pezzi, DeMarre Carroll in campo nonostante un ginocchio malconcio — mentre quest’anno sono tutti sani. E pur avendo vinto in sei partite la serie con Boston, gli Hawks arrivano a questo secondo turno con molta più fiducia in loro stessi rispetto a un anno fa, quando ebbero diversi problemi a eliminare Brooklyn e Washington (a lungo senza Wall).

Certo, tutto bello, ma il problema della scorsa stagione rimane: come si batte LeBron James? Gli Hawks sono reduci da sette sconfitte consecutive contro i Cavs (quattro su quattro negli scorsi playoff, tre su tre in regular season, di cui le ultime due ad aprile) e James sembra tenersi sempre da parte una tripla doppia da sfoderare contro di loro (30+11+9 di media negli scorsi playoff, 27+11+7.7 col 58% al tiro in stagione). Magari è la presenza di Kent Bazemore aka l’uomo di Under Armour a motivarlo particolarmente, o il fatto che riconosca in loro un avversario degno nella Eastern Conference. Fatto sta che la staffetta formata da Bazemore, Sefolosha e probabilmente Millsap (sui cambi sistematici e nel caso in cui James venga usato da 4) avrà le mani piene anche quest’anno — ma il dato da tenere sotto controllo, più che i punti, sono gli assist del Prescelto: è sempre meglio cercare di fronteggiare Iso-LeBron (invitandolo a giocare uno contro tutti, meglio se tirando da fuori l’area visto che le percentuali sono al 28%) piuttosto che Playmaking-LeBron (anche perché il resto dei Cavs sta tirando a livelli impensabili da tre, col 41.3% di squadra su 34.5 tentativi a partita).

La simpatica gara-3 delle scorse finali di conference

Proprio la combinazione dell’auto-nominatosi “carro armato” (8.8 tiri a partita al ferro e 14 punti in vernice di media contro Detroit) e i suoi “cecchini” (J.R. Smith-Kyrie Irving-Kevin Love: 10.6 triple segnate a partita col 47%) rende l’attacco dei Cavs così atomico, senza poi considerare la vera kryptonite degli Hawks, vale a dire Tristan Thompson. Nella serie dell’anno scorso il lungo canadese ha cambiato la serie con la sua capacità di cambiare su tutti i pick and roll — esponendo le mancanze al tiro dal palleggio di Jeff Teague e Dennis Schröder — e di dominare a rimbalzo offensivo — il vero tallone d’Achille dell’altrimenti ottimo sistema difensivo di Atlanta.

Gli Hawks eseguono magnificamente in difesa grazie a cinque giocatori intelligenti e versatili, in grado di negare i punti in transizione degli avversari quanto quelli in area, forzando tantissime palle perse leggendo le linee di passaggio e concedendo pochi tiri liberi. Il problema molto spesso è quello di chiudere i possessi difensivi con un rimbalzo (25° in regular season sotto il proprio tabellone) e di mantenere alta l’energia, anche perché la rotazione è a sette/otto uomini in base all’emoji che Mike Scott presenta in campo di volta in volta.

Se la difesa è il punto di forza, certamente però l’attacco non è uno di debolezza. Come scritto qualche giorno fa da Daniele V. Morrone, gli Hawks vanno a ondate, ma quando arrivano sono difficili da fermare perché “hanno giocatori forti, abilità e velocità in tutte e cinque posizioni”, come li ha tratteggiati Brad Stevens. E per quanto Millsap e Horford, in quanto All-Star, abbiano più riconoscimenti, è la presenza di Kyle Korver a cambiare gli Hawks: per larga parte della stagione ha fatto fatica al tiro (sotto il 40% tra dicembre e gennaio), ma in questi playoff è tornato al “consueto” 45.7% da tre e con lui in campo il Net Rating è di +11.7, il miglior dato di squadra confermato da quello in sua mancanza (un terrificante -5.8 con il secondo, Teague, a -0.3).

Sarà interessante osservare come gli Hawks cercheranno di sfruttare le mancanze difensive di Irving e Love (aspettiamoci molti pick and roll che li coinvolgano direttamente) e allo stesso tempo come si adegueranno su di loro in difesa quando la palla è nelle mani di LeBron. Perché un conto è cercare di farsi battere da Jonas Jerebko e Evan Turner, e un altro è avere a che fare con due All-Star che assaporano realmente per la prima volta un palcoscenico del genere.

Toronto Raptors (2) vs Miami Heat (3)

Il rumore che sentite provenire da lontano è il sospiro di sollievo che hanno tirato Raptors e Heat dopo le gare-7 di ieri notte. Per entrambe le squadre, infatti, un’eliminazione al primo turno sarebbe stata un’enorme delusione: per Toronto perché la scimmia sulla spalla del non aver mai vinto una serie al meglio delle 7 aveva raggiunto dimensioni King Kong-esche; per Miami perché sprecare un vantaggio di 2-0 avrebbe voluto dire perdere l’occasione per arrivare in finale di conference con questo gruppo — che è tutt’altro che certo rimarrà intatto nella prossima stagione.

A mettere a posto tutto ci ha pensato un Dwyane Wade vintage in gara-6, zittendo l’ennesimo tifoso zelante a bordo campo, il purtroppo famoso Purple Shirt Man.

Le vittorie però sono arrivate in maniera diametralmente opposta: gli Heat hanno avuto comodamente ragione degli Hornets — arrivati stanchi, rotti e demoralizzati dopo aver sprecato l’occasione della vita in casa — rifilandogli 33 punti e ritrovando un Goran Dragic coinvolto e aggressivo che si pensava perso; i Raptors, invece, hanno fatto sudare i propri tifosi fino all’ultimo, subendo un parziale di 15-2 nell’ultimo quarto dopo che sembravano aver finalmente vinto partita e serie (e avendo fortuna nell’ultimo possesso di Indiana, nel quale c’era un enorme fallo di DeRozan su Mahinmi sotto canestro che avrebbe potuto portare al -1).

Sarà interessante vedere con quale atteggiamento mentale si presenteranno i Raptors, ovverosia se la vittoria al primo turno li appagherà o se al contrario li libererà di tutti i limiti denunciati contro Indiana. Dal punto di vista tattico, invece, c’è bisogno che Lowry e DeRozan giochino molto meglio di quanto fatto finora: i due All-Stars hanno chiuso la prima serie con percentuali pressoché identiche (31% dal campo, 16% da tre) e se DeRozan in gara-5 e 7 è andato due volte sopra quota 30 — ma con 54 tiri tentati, di cui 32 ieri notte —, Lowry ha palesemente qualche problema al gomito perché non riesce più a segnare un tiro da fuori (25% di eFG nei catch & shoot, 36% nel palleggio-arresto-tiro).

Questo è un grosso problema per Toronto, perché non avere pericolosità al tiro permette a Whiteside di aspettarli in area su tutti i pick and roll, di fatto chiudendo ogni via per raggiungere il ferro e quindi ingolfando l’intero attacco dei Raptors — che già di per sé non brilla per efficacia e fantasia. Togliere Whiteside dal campo — caricandolo di falli o facendogli pagare ogni letargica difesa sul pick and roll come fatto da Charlotte — è la priorità numero 1 per Toronto, che potrebbe anche provare a dare qualche possesso in post a Valanciunas (così, per vedere che effetto fa provare qualcosa che non coinvolga necessariamente le guardie). Whiteside è andato migliorando nel corso della serie contro gli Hornets, culminando in una gara-7 in cui è stato pressoché perfetto tatticamente, inglobando le penetrazioni di Kemba Walker fatte convogliare su di lui dalla difesa di Spoelstra. Ma il suo livello di concentrazione è quantomeno ondivago quando è lontano dal pallone, e i Raptors hanno l’obbligo di trovare il modo per sfruttarlo.

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Gara-5, ultimo quarto: Whiteside rimane troppo staccato da Batum e gli concede la tripla. Spoelstra, esasperato, gli fa segno con la mano di avanzare di un passo la copertura di quel pick and roll.

Nell’altra metà campo, sarà interessante vedere che risultati si avranno dalla marcatura di Wade: DeRozan ha troppe responsabilità offensive per potersi occupare della stella degli Heat, che verrà preso in consegna dai Difensori Perimetrali Scelti, DeMarre Carroll (ma quali sono le sue reali condizioni?) e il sorprendente rookie Norman Powell (+7.6 su 100 possessi con lui in campo nella serie contro Indiana, quando di squadra hanno chiuso a -4.4), con magari qualche possesso tutto energia & entusiasmo del pestifero Cory Joseph.

A entrambe le squadre piace chiudere le partite con quattro esterni in campo e un solo lungo di ruolo: il più delle volte Toronto ha scelto Biyombo invece che Valanciunas per proteggere meglio il ferro e avere una minaccia nei lob a centro area, mentre Miami ha ormai trovato la sua quadratura con Luol Deng e Joe Johnson nei ruoli di ala (che hanno un vantaggio fisico rispetto agli esterni dei Raptors, decisamente più piccoli se Carroll non sta bene) più uno tra Dragic e Richardson in base all’andamento della partita. Con una situazione del genere, a spuntarla sarà la squadra che forzerà il maggior numero di aiuti e raddoppi: il pick and roll tra Wade e Whiteside coinvolge uno dei più esperti gestori di possessi negli ultimi minuti e un terrificante rollante verso il canestro (1.35 punti per possesso, solo Aldridge meglio di lui nei playoff), il che pone di per sé dei diversi problemi.

Quattro serie, otto squadre, un miliardo di temi e di personaggi diversi, nessuna squadra che parte già battuta: come si fa a non amare il secondo turno dei playoff NBA?

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