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Onora il padre
14 mar 2014
Le storie di due calciatori indimenticabili: Juan Sebastián Verón e Ryan Giggs. Entrambi figli d'arte, entrambi al Manchester United, entrambi vincenti. Soltanto uno ventitré anni con la stessa maglia.
(articolo)
22 min
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IL FIGLIO DELLA STREGA

Hugo Marcelino Gottfrit lo chiamavano il Russo, credo per via della zazzera bionda; negli anni ’70 giocava da terzino sinistro per il Gimnasia y Esgrima, in Argentina. Intorno al cinquantesimo minuto del clásico de La Plata contro l'Estudiantes del marzo '75, dopo aver sofferto per tutto il primo tempo le giocate inarrestabili e irriverenti della punta avversaria gli si è avvicinato e gli ha sussurrato all’orecchio «vedi che se non la finisci di rompere tanto i coglioni giuro che ti scoppio». La punta si chiamava Juan Ramón Verón, ed era diventato padre quel giorno stesso.

All’alba il suo allenatore Carlos Bilardo, già in passato fidato compagno di squadra, lo aveva autorizzato a correre in ospedale. Jaun Ramón era salito sul suo Peugeot quattrocentoquattro e aveva raggiunto la moglie Cecilia per vedere il figlio, Juan Sebastián. Poi era tornato tra i compagni ed era sceso in campo per il derby, l’ultimo che avrebbe disputato—prima di trasferirsi in Colombia, per giocare con il Junior Barranquilla—con la maglia dei «pincharratas» (letteralmente pùncica topi, il soprannome dei giocatori dell’Estudiantes per via del fatto che i suoi fondatori erano studenti di medicina, e per i loro esperimenti facevano iniezioni alle cavie). In quel clásico Verón padre segnò la seconda rete, anche se poi la partita finì con un pareggio, tre a tre.

Juan Ramón Verón per i tifosi dell'Estudiantes era «La Bruja», la Strega; cantavano per lui: «Si ven una Bruja montada en una escoba, ése es Verón, Verón, Verón està de moda». ("Se vedete una Strega a bordo di una scopa, è Verón, Verón, Verón, è così che va di moda".) Era inconcepibile, a La Plata, non provare un sentimento di venerazione per quella punta mancina, virtuosa, rapida, destabilizzante per gli avversari, che sul finire degli anni Sessanta aveva regalato ai biancorossi la vittoria di tre Coppe Libertadores consecutive ('68, '69 e '70) e la Coppa Intercontinentale nel 1968, battendo in finale il Manchester United.

La mitica «mezza cilena» realizzata da Juan Ramón Verón nella semifinale della Libertadores del '68, contro il Racing. Anche se a me sembra una «cilena» intera.

Per come le professioni si trasmettono di padre in figlio, la visione del mondo degli sportivi è molto meno medievale, se così si può dire, di quella dei notai, dei farmacisti o dei proprietari di ristoranti. Il pallone, a casa dei calciatori, quando si parla dei figli non è sempre il campanile del paese, il centro del mondo (diversamente dai rogiti, dalle ricette o dal servizio alla francese). Casa Verón era una delle eccezioni: quando suo padre lo guardava calciare contro la parete degli spogliatoi del campo d’allenamento, pensava (sognava, desiderava) che Juan Sebastián, un giorno, sarebbe potuto essere un tutt’uno col suo ricordo mitico. Pensava che sarebbe stato bello se avesse indossato la sua maglia numero undici, vinto coi suoi colori, stretto—prima di ogni partita—un nastro bianco sopra il ginocchio come lui stesso stringeva. E poi se avesse vinto. Quanto e più di lui. Alla possibilità remota che sarebbe potuto succedere sugli stessi campi, Juan Ramón non aveva mai avuto l’ardire di pensare.

Lo si capisce bene leggendo «El lado V», la biografia di Juan Sebastián Verón (il titolo è un gioco di parole, in spagnolo le lettere B e V si leggono quasi nella stessa maniera, quindi diventa “Il Lato B”, quello segreto), dove compare anche questa scena: Juan Sebastián ha due anni. Siamo a Barranquilla, stagione 1976-1977; a bordo campo c’è la mascotte della squadra, e sventola una bandiera bianca e rossa, indossando una maschera: un testone di cartapesta, sproporzionato, da «bruja», da strega. Juan Sebastián è intimorito, stringe tra le mani una palla. Con gli occhi cerca la madre, seduta in platea per salutarla, ma così facendo non si accorge che l’uomo-strega, la mascotte, è alle sue spalle. Quando questo lo solleva di peso, tanta è la paura che Juan Sebastián corre a ripararsi nella panchina, sul lato lungo del campo. Ma non sa resistere fermo, e nonostante le raccomandazioni di non superare mai la linea tracciata dal gesso finisce per colpire una palla lunga che era uscita dal rettangolo, facendola rimbalzare nuovamente dentro. L’arbitro della partita è un cileno, il signor Mario Canessa: corre verso Juan Sebastián—sorridendo senza pietà—e lo espelle. Anche se poi ha solo due anni, Juan Sebastián.

EMANCIPAZIONE

Juan Sebastián Verón ha esordito con l’Estudiantes, la società della quale suo padre è stato una bandiera, nella stagione 1993-1994, a 18 anni. In onore del padre lo chiamavano «Brujita» (piccola strega). I «pincharratas» disputano un Clausura tremendo, retrocedono. L’anno successivo, dopo aver aiutato i biancorossi a riaffacciarsi nel campionato maggiore argentino, al termine dell’Apertura Juan Sebastián decide di lasciare La Plata e trasferirsi al Boca Juniors, dove stanno andando in scena le ultime sgualcite repliche d’uno spettacolo mondiale chiamato Diego Armando Maradona. Nella biografia di Verón c’è un passo, molto appiccicoso di retorica di melassa, un dialogo tra padre e figlio. Verón senior si rivolge al figlio: «Volevo solo dirti che il giorno in cui deciderai di tornare all’Estudiantes, come mi hai promesso, come vorrei io e vorresti anche tu, non farlo arrivare troppo tardi. È qualcosa che non puoi permetterti».

Sven-Göran Eriksson si innamora di quel centrocampista di sostanza, visionario eppure disciplinato, vedendolo giocare nel Boca. Lo chiede a Mantovani per la sua Sampdoria, e Verón si trasferisce dagli «xenéizes» (è così che vengono chiamati i giocatori del Boca in onore dei primissimi tifosi del club, tutti immigrati genovesi, «zeneizes» in dialetto ligure) a Genova: sembra un gioco del destino. Dopo un’ottima stagione coi blucerchiati Verón viene acquistato dal Parma dei Tanzi, con i quali vincerà una Coppa UEFA e una Coppa Italia prima di raggiungere, nel 1999, Eriksson, Roberto Mancini e Sinisa Mihajlović tra le fila dei biancocelesti capitolini che si apprestano a vincere il secondo scudetto della loro storia.

Nel fortissimo centrocampo della Lazio di quell’anno, uno dei meglio assortiti dell’ultimo quindicennio di calcio italiano, il compito principale di Verón è quello di dettare i tempi della squadra. Ricevere la palla e a testa alta subito trovare uno tra Stanković, Nedved, Almeyda, Simeone, Sérgio Conceiçao. A lui spetta il compito di recuperare palloni a ridosso della sua area e lanciare i compagni 40 metri più in là. Ha tra i suoi numeri prodezze balistiche e un gran tiro da fuori. Contro il Verona, all’ottava giornata di campionato segna da calcio d'angolo. Nel Derby di ritorno, con una splendida punizione regala ai suoi un successo che spalanca la discesa verso la vittoria del campionato. A Torino, contro la Juventus, in quella che a buona ragione si può definire la partita che definisce le sorti di tutto un campionato, Verón confeziona l’assist per il gol vittoria del «cholo» Simeone. Al termine di quella stagione, la Lazio potrà contare tre trofei in bacheca: Scudetto, Coppa Italia. Ma la stagione di trionfi che consacra il valore di Verón era cominciata con la Supercoppa Europea vinta nell’Agosto del 1999 contro il Manchester United campione d’Europa in carica.

Perfezione nel derby di Roma.

PADRI NATURALI, PADRI PUTATIVI

Danny Wilson e Lynne Giggs avevano trentaquattro anni in due (diciassette per uno) quando è nato il loro primo figlio Ryan. Danny era figlio di marinai mercantili originari della Sierra Leone stanziati in Galles negli anni ’20. Giocava a rugby come mediano d’apertura per il RFC di Cardiff, negli anni della leggenda Gareth Edwards. Lynne faceva la babysitter e l’aiuto cuoco in un pub del porto. Non erano sposati, a lui interessava la palla ovale, e le pinte con gli orli sbeccati. Portava i baffi, una capigliatura afro bella gonfia, le tifose impazzivano per il suo stile—per quel portamento «petto in fuori alla Cantona», come lo definirà il figlio nella sua autobiografia—e a lui piaceva far saltare i bottoni dalle asole delle loro camicette. Lynne intanto cercava di crescere al meglio il bambino, si faceva aiutare dai genitori, lavorava sodo, due occupazioni, tre se necessario.

Danny spesso si ubriacava e finiva per picchiare la compagna, e per Ryan era come se tutta l’autorevolezza che sprigionava il padre in campo, giocando a rugby, svanisse in quei momenti. «Ognuno è forgiato dall’adolescenza che vive, e quel che diventa, quello che fa, ne è il risultato. Ecco com’è andata con mio padre.»

Quando Ryan ha sette anni Danny viene ingaggiato dallo Swinton, un sobborgo dell’area metropolitana di Manchester. È un giocatore molto quotato, a quei tempi: ha una velocità e un senso dell’equilibrio spiccati, quando parte sugli esterni difficilmente si riesce a trattenerlo. Come in campo, così fuori: quando si mette in testa un’idea è come se gli avversari—o gli altri membri della famiglia—svanissero, non esistessero. Non ce n’è per nessuno. Lo sradicamento turba molto Ryan. A Cardiff nessuno aveva mai dato troppo peso al fatto che suo padre fosse nero: anzi, essere il figlio di una celebrità locale gli aveva garantito uno status privilegiato, costruito intorno come una sorta di polmone d’acciaio di benevolenza. Nei sobborghi mancuniani, invece, nonostante le sue origini africane non si notassero molto («dai, in fondo si può dire che è un po’ dei nostri, lo vedi che naso largo e che labbra grandi ha», lo scherzavano i cugini da ragazzino), arrivano le prime invettive. Per la prima volta si trova ad avere a che fare con il razzismo.

«Non mi piaceva la relazione che mio padre aveva con mia madre, ma d’altra parte l’unica persona alla quale mi ispirassi era lui. Mi piaceva il calcio, vedevo giocare Bryan Robson, Mark Hughes, li amavo, ma non c’è mai stato un calciatore che adorassi. Vedere mio padre giocare per tre, quattro anni tutte le domeniche, invece, in casa e fuori, allenarmi con lui, aveva tanto di quel talento…» Il padre, di contro, segue pochissimo gli allenamenti e le partite del figlio. Ryan è uno di quegli enfant prodige votati allo sport, è instancabile. Nei weekend gioca fino a quattro partite: tre di calcio, con tre squadre diverse (una rappresentativa scolastica, una società dilettantistica, la compagine del sobborgo di Salford), e una di rugby. In un certo senso non è diverso da milioni di ragazzini figli di sportivi: vuole solo emulare suo padre. «È stato lui il mio primo eroe.»

La Storia, da San Giuseppe in poi, straripa di padri putativi che sopperiscono alle mancanze di padri naturali in altre faccende affaccendati. C’è questo lattaio, Dennis Schofield, che ha la passione di fermare il suo furgoncino ai bordi di campetti di periferia per vedere se casomai è il giorno giusto per scoprire la "next big thing" del calcio britannico. Ogni tanto segnala prospetti interessanti, o anche semplici ragazzotti un po’ più talentuosi della media, ai dirigenti del Manchester City. Un giorno del 1981 si ferma davanti alla Grosnevor Road Primary School di Swinton. C’è una partita, i ragazzi non hanno più di otto anni, e Schofield è colpito dalla velocità di Ryan Wilson, che «correva come una gazzella e aveva la dinamite nei piedi».

Schofield chiede agli altri spettatori quali siano i genitori di quel campioncino. Gli indicano Lynne. Dennis chiede il permesso di tesserare Ryan. Lynne è titubante, è sola (nel frattempo Danny si è trasferito a Liverpool) e per lei è difficile organizzarsi per gli allenamenti. Per tutta la stagione, Schofield passa a prendere a casa Ryan e suo fratello Rhodri. Ancora oggi, racconta Schofield, una delle scene più belle della sua vita è Ryan che dopo aver segnato un gol importante gli corre incontro, e lo abbraccia.

Alex Ferguson vede per la prima volta Ryan Wilson in azione quando aveva tredici anni. «Fluttuava sul campo come un cocker spaniel che rincorre un brandello di carta stagnola spinto dal vento.» Era venuto a sapere che molte società gli avevano messo gli occhi addosso, prima tra tutti il City. È il 1986, Ryan torna dagli allenamenti e trova l’allenatore della sua squadra del cuore seduto in salotto, che discute con Lynne i termini del contratto. Sir Alex lo informa che tra lo staff dei Red Devils non solo avrebbe trovato allenatori capaci di aiutarlo con tutto ciò che aveva a che vedere con il calcio; ma anche che la porta era sempre aperta, casomai avesse avuto bisogno di aiuto fuori dal campo.

E per la prima volta sugli schermi: Ryan Wilson.

UCCIDERE IL PADRE (IN SENSO FIGURATO)

A quindici anni Ryan Wilson ha lunghe leve, il fisico sproporzionato: spalle strette, gambette da passerotto. Nel 1988 le telecamere non riprendevano ogni singolo istante di vita. Per dirla tutta, neppure si smuovevano facilmente per seguire la finale d’un torneo giovanile scolastico com’era la Granada Schools Cup. La troupe di ITV in realtà era là solo per Ryan Wilson, che—come recita la voce fuori campo che introduce il servizio mentre lui palleggia e fa degli scattini—«è sul taccuino del Manchester United». In quella partita non marca neppure un gol, ma partecipa a tutte e tre le azioni che portano il Salford alla segnatura: scende sulla fascia con una corsa fluida e ipnotica, e piazza gli assist facendolo sembrare il gesto più naturale del mondo. Ron Yeats, capo degli scout del Liverpool (la finale si gioca ad Anfield), intervistato a fine partita dice: «Se i nostri osservatori avessero saputo di lui avremmo assolutamente cercato di tesserarlo».

Intervistato a fine partita, Ryan confessa che «sì, avrei dovuto giocare per gli Under 15 del Manchester stasera; ma io volevo essere qui, perché il campo è nettamente migliore». Sugli spalti, quel giorno, c’era sua madre. Suo padre se n’era già andato di casa definitivamente da un anno. Ryan lo aveva aiutato a portare le valigie fino alla stazione. Poi aveva deciso che correre sulla fascia, macinare falcata su falcata, sarebbe stato il suo personalissimo modo di dimenticarlo.

Ryan Wilson è diventato Ryan Giggs quando aveva sedici anni. Nel 1989 i giovani del Manchester United sono in Italia per un torneo. Prima della prima partita l’arbitro entra negli spogliatoi, prende tra le mani i passaporti e inizia le operazioni di riconoscimento. «Giggs», chiama. «Sono io», risponde Ryan. I compagni sono stupiti. Giggs è il cognome della madre, Lynne. «Non credi sia stato un po’ come disonorare tuo padre, cambiarti il cognome?», gli ha chiesto un giornalista del The Guardian molto tempo dopo. Lui ha titubato un po’. «Ahm. Uhm. Ahm. Uhm. No», ha risposto infine. «Non del tutto, non davvero. È stato più un “Io sto dalla parte di mamma”, che un gesto contro mio padre». Del rugby che giocava suo padre Ryan ha conservato due insegnamenti preziosi: che bisogna correre veloci, più veloci di tutti; e che bisogna essere pronti e preparati a schivare i colpi che ti piombano addosso.

Nel Manchester che vince la Youth FA Cup del 1992, oltre a Ryan, ci sono David Beckham, Gary e Phil Neville, Nicky Butt, Paul Scholes. Una generazione di talenti legati al mister Alex Ferguson da un rapporto che trascende quello tra allenatore e calciatore. Sir Alex è mentore, mecenate, padre. Per i ragazzi che si allenano al The Cliff insieme alla prima squadra l’apprendistato consiste nel gonfiare i palloni, prima, e passare il grasso sugli scarpini, subito dopo. Su quei campi d’allenamento, la «Class of '92» si prepara al compito più complicato: crescere all’ombra dei padri per tornare a vincere, in Inghilterra e in Europa. E magari puntare a quella Coppa dei Campioni che manca da un trentennio.

Sette anni dopo, nel Maggio del 1999, quegli stessi ragazzi saliranno sul tetto d’Europa. Lo faranno in tre minuti, dopo essersene rimasti rinchiusi nello scantinato depresso dello svantaggio per più di ottanta.

Al primo minuto di recupero, sugli sviluppi di un calcio d’angolo, con Schmeichel a saltare di testa in un ultimo disperato tentativo, la palla rimbalza sulla trequarti d’attacco del Manchester. Capita sui piedi di Ryan Giggs, che cerca una struggente conclusione al volo. Il tiro è sporco, a occhio e croce per niente destinato alla porta. Sembra un calcio in avanti del rugby. Se non fosse che Teddy Sheringham la arpiona, e la trasforma nell’aurea pepita del pareggio. Due minuti più tardi Ole Gunnar Solskjaer condannerà definitivamente il Bayern Monaco.

Tre minuti tra i più incredibili della storia del calcio.

VENTITRÉ ANNI CON LA STESSA MAGLIA

Nel 1999 Giggs—a sette anni dall’esordio—era già un veterano del Manchester United, uno dei simboli della squadra. Aveva conquistato il titolo nazionale 5 volte, vinto 3 Coppe d’Inghilterra e 1 Coppa di Lega, 1 Coppa delle Coppe (da riserva) e una Supercoppa UEFA. Sono numeri con i quali qualsiasi calciatore normale potrebbe decidere di chiudere la carriera ritenendosi soddisfatto. Questa 2013-2014 è la sua ventitreesima stagione con i Red Devils. Nel corso della sua carriera ha conosciuto, per averle alzate entrambe, la Coppa Intercontinentale e la sua versione upgrade, la Coppa del Mondo per Club. Dopo il «treble» del 1999 ha raccolto altri 8 successi in Premier League, un’ulteriore Coppa d’Inghilterra. E un’altra Champions League, nella finale di Mosca del 2008 contro il Chelsea. Quella sera ha giocato la 759esima partita in carriera, superando il record di Bobby Moore. Cristiano Ronaldo, l’uomo della fascia destra, il giovane arrogante Cristiano Ronaldo, aveva sbagliato il terzo rigore. Il Chelsea, in vantaggio, aveva visto sfumare la vittoria per colpa dell’infortunio dal dischetto di John Terry. Ryan Giggs, il padrone della fascia sinistra, il trentacinquenne Giggs, calcia il settimo rigore. L’ultimo del Manchester United prima dell’errore decisivo di Anelka.

Si potrebbe subire la tentazione di pensare che sia quella, la rete più importante dell’interminabile carriera di Giggs. E invece, come scrive nella sua autobiografia, ce n’è una che «agli occhi di molti meglio definisce la mia carriera». È il 1999, replay della semifinale di ritorno di FA Cup. L’avversario è l’Arsenal e si gioca sul campo neutro dell’Aston Villa, il Villa Park di Birmingham. Giggs subentra a Blomqvist nei tempi supplementari. Non parte con il piede giusto, sbaglia due o tre palloni. Il match è inchiodato sull’1-1, ed è più la paura di sbagliare che quella di dare avvio all’azione decisiva. Giggs allora decide che la prossima palla che gli capita tra i piedi non la passa, ma prende e dribbla tutti.

Il cronista inglese si chiede in diretta quando Giggs è ancora al limite dell'area: «Può fare più di così?»

BREVE STORIA PORTATILE DELLA FAMIGLIA VERÓN ALL'OLD TRAFFORD

L’ultima vittoria in Coppa Campioni del Manchester United, l’ultima prima di quella conquistata dalla «Generazione ’92» nella fatale notte di Barcellona, era datata 1968. Al posto di Scholes, di Beckham e di Giggs c’erano i Red Devils di Law, Charlton, Best.

Nella successiva finale di Coppa Intercontinentale, quel Manchester United si trovò ad affrontare l’Estudiantes de La Plata. All’andata, in Argentina, i «pincharratas» avevano vinto per 1-0 con un gol di testa di Conigliaro. C’era grande ottimismo, nondimeno, al Theatre of Dreams. A far calare il silenzio ci pensò Verón. Juan Roman Verón. A nulla valse la rete del pari di Morgan, a tempo ormai scaduto, qualche minuto dopo l’espulsione di Geordie Best per un fallo di reazione.

Nell’estate del 2001 il Manchester United, campione d’Inghilterra per tre volte di fila, si era assicurato le prestazioni di Juan Sebastián Verón versando ventotto milioni di sterline nelle casse della Lazio. Mai un calciatore era stato pagato di più dal club mancuniano.

Al suo arrivo a Manchester, un comitato di benvenuto del club gli aveva preparato una sorpresa nel museo societario: il gagliardetto dell’Estudiantes La Plata e il match program di quella finale intercontinentale del 16 ottobre 1968. «Fu qualcosa di molto forte. Perché vidi tutto ciò che il mio vecchio aveva dato al suo club prendere una dimensione reale. Il fatto che nonostante la sconfitta all’Old Trafford avessero deciso di conservare un ricordo così vivido, anche se si era trattato di una sconfitta... stavo vedendo, là, di persona, sul luogo in cui erano successi quei fatti, ciò che mi aveva raccontato per tutta la vita».

Juan Sebastián Verón organizzò un incontro tra suo padre e Bobby Charlton. Juan Ramón non visitava Manchester dal ’68 (e non si può dire che in quell’occasione si trattò di una vera e propria visita).

Le cose a Manchester, per Juan Sebastián, non presero mai a girare come avrebbe voluto. Era l’uomo giusto, ma al momento sbagliato. Il fatto è che Verón, al Manchester United, a quel Manchester United, non serviva. Ferguson s’era innamorato dell’idea che la «brujita» potesse diventare quel che era stato per la Lazio, anche se in quel ruolo era chiuso da Scholes e Keane. Lo difese strenuamente, come fanno i padri quando non vogliono accettare l’irriducibile indisciplina dei propri figli. Ai giornalisti che ne criticavano le prestazioni, l’allenatore rispondeva «voialtri siete tutti... idioti».

«Verón era un giocatore meraviglioso, con un grande potenziale. Sebbene il suo sia stato un apporto spettacolare, semplicemente Verón non poteva giocare in quella squadra. L’ho schierato in ogni posizione. Avrei potuto allenarlo per cento anni, senza mai capire dove metterlo», ha confessato Ferguson nella sua autobiografia.

Ma forse anche Verón ha fatto poco per ambientarsi se Ferguson ricorda: «Devo confessare che mi è stato sempre molto difficile lavorare con i giocatori argentini, c’era molto patriottismo in loro, sempre con la bandiera a portata di mano. [...] Non gli interessava neppure parlare inglese. Verón a malapena mi chiamava Mister».

Sarebbe ingenuo (oltre che ingeneroso) farsi un’idea di Verón come una palla al piede per il Manchester United durante il suo periodo all’Old Trafford. Sarebbe ingenuo se non si mettesse in conto almeno una certa percentuale di reciprocità: giocare in Inghilterra, per un argentino, e farsi accettare dagli inglesi ma soprattutto dai connazionali (considerando oltretutto che a cavallo di quell’esperienza c’è stata una Coppa del Mondo, quella del 2002, che ha messo di fronte le due Nazionali) implica interpretazioni diverse dei concetti di patriottismo e tradimento.

Per Verón quello di Manchester è stato un periodo, in definitiva, felice: ha segnato reti bellissime e si è tolto lo sfizio di vincere il suo secondo titolo nazionale in carriera, la Premier League (c’è un bell’aneddoto che racconta nella sua biografia: dopo aver sconfitto il Charlton, il destino del campionato era tutto nel risultato della sfida tra Leeds e Arsenal; Verón decise di vedere quella partita da solo, in casa, allontanando la moglie Florencia, dicendole «sarò molto nervoso e potrei lanciare tutto per l'aria»).

Ceduto al Chelsea nel 2003 per la metà di quanto era stato pagato, solo un anno più tardi avrebbe fatto ritorno (fugacemente) in Italia, all’Inter, agli ordini di quel Roberto Mancini col quale aveva condiviso più d’un successo e più d’un alterco, per aggiungere al palmares due Coppe Italia e uno Scudetto (anche se non sul campo).

Nel 2006, come aveva promesso a suo padre, né troppo presto, né troppo tardi, è tornato a vestire la maglia dell’Estudiantes, in Argentina.

Quando il talento di Giggs e quello di Verón si sono incontrati a trequarti di campo.

(IN)FEDELTÀ

Il primo particolare che salta all’occhio, ad un’analisi comparata delle carriere di Verón e Giggs, è che il gallese non ha mai cambiato maglia. Non ha sentito la necessità di girare il mondo, di fare esperienze altrove, perché lo United era la squadra per la quale aveva sempre tifato. Verón, di contro, per vincere ha dovuto attraversare l’Oceano.

Ed è una coincidenza strana, che fa anche sorridere: Verón, legatissimo al padre, ha indossato molte casacche diverse, mai per più di due anni consecutivi; Giggs, invece, ha sostituito alla fedeltà per suo padre quella per la maglia. Laddove l’argentino ha avvertito l’esigenza di recidere il cordone ombelicale, Ryan Giggs l’ha sentito formarsi e lentamente rinsaldarsi, fino ad assumere i connotati di vincolo impossibile da recidere. Un nodo stretto e rosso che lo teneva unito all’uomo che l’aveva voluto al Manchester United: Alex Ferguson. Gli uomini passavano. Alcuni rapidamente. Mentre tutt’attorno era un vortice di cambi di maglia, e di facce, loro due se ne restavano fissi, come padre e figlio.

L’autocomplete di Google è ingeneroso con Ryan Giggs quando aggiunge le parole «scandalo» e «gossip» anziché quella che forse meriterebbe di più: «leggenda». Lo scandalo in questione è la relazione con la moglie del fratello minore, durata otto anni. (E non è importante approfondire la questione, ma riflettere su un aspetto sì: l’unica maniera di essere antipatico che Ryan Giggs ha avuto lungo tutta la sua carriera di calciatore è stata fare una cosa orribile come tradire al tempo stesso moglie e fratello.)

Il senso di colpa dev’essere come un crampo che s’insinua surrettizio fino alla bocca dello stomaco, un reflusso gastroesofageo che ti fa proferire le peggiori nefandezze. Su Ryan, Danny Wilson ha pontificato in lungo e largo: ha detto che gli è mancata una figura paterna, ed è per questo che s’è gettato in azioni così ignominiose. Che è stato plagiato. E poi ha detto una frase che secondo me, quando Ryan l’ha letta, deve aver pensato “Ma tu guarda, papà, da quale pulpito”: «Per la sua carriera in campo non puoi dirgli niente—quel che ha fatto sul campo è meraviglioso. Ma fuori—fuori deve prendersi le sue responsabilità».

QUESTA NON È LA FINE

Nel 2006, a trentuno anni, Verón sembrava aver esaurito i suoi anni migliori. Nonostante ciò, più di un’opzione gli si è spalancata di fronte: ha ricevuto una chiamata dal River Plate e una dal Boca. Ma lui ha scelto di tornare al club dove tutto è iniziato, all’Estudiantes, per provare a vedere se si poteva vincere, se si poteva ancora fare qualcosa per onorare il padre. Ha conquistato due titoli Apertura, 2006 e 2010, e una Libertadores. Gli è stato anche assegnato il Pallone d’oro sudamericano per due anni consecutivi, nel 2008 e nel 2009.

Nel 2010 l’Estudiantes si è giocato la finale di Coppa del Mondo per Club contro il Barcellona. Verón per i suoi compagni di squadra è molto più di un «líder», e si sente di voler fare questo discorso: «Gli uomini, nel calcio come nella vita, le opportunità se le vanno a cercare. Però, per cogliere quelle opportunità, bisogna saper sognare. E noi stiamo inseguendo un sogno come gruppo, come famiglia, come quella che ci segue dalle tribune. [...] Ripeto: là fuori c’è la nostra famiglia. Non possiamo deluderla».

Due anni dopo aver rischiato di rendere l’Estudiantes campione del mondo ancora una volta, trentadue anni dopo suo padre, Verón ha annunciato il ritiro. Era il 2012, si è congedato come si congedano tutti gli immarcescibili, con l’intento di continuare il suo lavoro nella società (da Direttore Tecnico, nella fattispecie). Sei mesi dopo è tornato sui suoi passi. Perché l’ha fatto? Per chi? Per i tifosi? Per suo padre?

Giggs, dalla sua, pur studiando per conseguire il patentino da tecnico (durante i recenti Mondiali U-20 in Turchia è anche andato a farsi una settimana di stage sul campo) non ha mai neppure fatto lontanamente cenno al momento in cui deciderà di appendere le scarpe al chiodo. Quando arriva il momento della domanda sul ritiro, perché prima o poi arriva sempre, nelle interviste, a quella domanda Ryan risponde: «Sento di poter ancora fare delle cose. Ci sono delle questioni che devo ancora risolvere. Onestamente, continuo a dire che non ci penso, e davvero non ci penso al ritiro. Me la godo, finché dura. Quando poi arriverà il momento, solo allora sarà tempo per riflettere, e per tirare le conclusioni».

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