Spedito a New York. Come un pacco Fedex. In una trade di medio livello — interessante sì, ma non certo scoppiettante — Chicago si libera del suo simbolo, rompendo una promessa che da ormai da qualche anno aveva iniziato a sfaldarsi. Non è il merito tecnico che lascia interdetti, né la tempistica. Piuttosto è il fatto che siamo costretti a fare i conti con una realtà che, per mille motivi, ci eravamo rifiutati da accettare. Come quando riguardiamo Bambi per l’ennesima volta, pur sapendo benissimo come va a finire.
C’è anche il twist, la ruga che mette pepe alla storia. La storia tra Rose e Chicago termina nel momento esatto in cui LeBron James si consacra come eroe locale, portando in dote il titolo NBA alla sua città. Un classico intramontabile, portato alla perfezione nel marketing contemporaneo. E di cui proprio Rose, con James auto-esiliatosi sulle spiagge di South Beach a tempo indeterminato, avrebbe dovuto essere protagonista indiscusso. Era il 2011. Le cose sarebbero cambiare radicalmente e rapidamente in una delle parabole discendenti più tragiche, sportivamente parlando, della storia recente dello sport statunitense. Proviamo a ripercorrerne le tappe.
Corride
Giugno 2008. Dopo anni di mediocrità, con le imprese dei three-peat ormai troppo lontane per essere vere, la Chicago del basket si risveglia. Al Draft arriva la pallina giusta, in barba all’1,7% di probabilità. Come prima scelta assoluta John Paxson prende Derrick Rose. Nato e cresciuto a Englewood, uno dei quartieri più complessi e brutali della Windy City, prima di una brillante carriera a Simeon High School — il liceo cestisticamente più prestigioso di Chicago — con il 25 sulle spalle in onore di Benji Wilson — una delle storie cestistiche più tragiche della città — e un folgorante anno di college alla Memphis di John Calipari. Dove teoricamente non avrebbe nemmeno dovuto essere ammesso, ma arrivò a un tiro libero dal vincere il titolo, dopo una stagione di dominio assoluto.
La finale di D-Rose
Ci si aspetta una play potente, atletico, capace di infiltrarsi in ogni aspetto del gioco. Le origini chicagoane aggiungono pressione, ma pure tanto fascino. Coach Vinny Del Negro chiama un isolamento per lui ogni due azioni. Vuole che pensi prima al canestro, non sopporta vedere i difensori che lo sfidano al tiro. I Bulls non sono un bel vedere ma, grazie anche a un paio di trade azzeccate, chiudono forte la stagione. Verranno eliminati in sette partite dai campioni in carica dei Celtics, in una serie da sette supplementari complessivi. Rose, nella corrida, si esalta: tiene testa a Rondo al culmine della carriera; lo stoppa pure, in uno dei momenti più iconici di Gara-6. Sono proprio quelli i lampi che ci si aspettava. Il premio di Rookie dell’anno, celebrato con la solita faccia di una tristezza contagiosa, è scontato.
Devastante
Due anni dopo, è tempo di Tim Thibodeau. Che rivoluziona tatticamente i Bulls, trasformandoli finalmente in una squadra da titolo. Chicago prende il volo nella seconda parte di stagione: a suon di difesa, fisicità, bench mob e molta transizione, i Bulls tritano qualsiasi cosa si pari davanti. E alla guida c’è lui, con lo sguardo sempre più timido, e le gambe sempre più esplosive. Capitalizzando su una difesa di squadra impenetrabile, Rose si divora chilometri di campo aperto in ogni partita. Attacca il canestro, sposta la palla in aria, schiaccia, si avvita. E nelle serate in cui entra il tiro, sempre più frequenti, limitarlo diventa complicatissimo. Impossibile non innamorarsi di lui. Per il suo basso profilo, la sua timidezza, la sua incontenibile voglia di giocare. E quel continuo rimando a Chicago, alla sua città, che fa impazzire i tifosi dei Bulls. Quasi nessuno di loro andrebbe a Englewood nemmeno sotto tortura, ma l’identità della metropoli ingoia tutto, nel pieno dell’esaltazione collettiva. Il premio di MVP è meno unanime del Rookie of the Year, ma nemmeno troppo. A 21 anni, è il più giovane di sempre a vincerlo. Con una finale di conference persa in volata contro i Miami Heat — non inganni il 4-1 finale —riportare il titolo su Lake Michigan sembra solo questione di tempo.
Crack
La stagione seguente va ancora meglio. Non tanto per Rose, che viene infastidito da vari acciacchi, quanto per i Bulls. Sempre più collaudati, a dispetto del rendimento intermittente della propria stella. E così, in un anno in cui persino John Lucas III e CJ Watson giocano un basket di livello quasi stellare, il segnale sembra chiaro. Rose rientra prima dei playoff. Chicago, ora, è la favorita, non più l’outsider. Gara-1 contro i Sixers va via liscia: Bulls in controllo, primo punto ormai in tasca. E poi succede. Il fotogramma che tutti vorrebbero rimuovere. Rose salta male in una penetrazione, si accascia al suolo. Addio al legamento crociato, addio al resto della stagione, e pure a buona parte di quella successiva. Presa di sprovvista, Chicago si scioglie. Passano dei modestissimi Sixers, con i Bulls improvvisamente dimentichi della durezza che avevano mostrato in stagione, complici i problemi fisici di Deng e Noah. Se in gennaio e febbraio giocare senza Rose li aveva resi migliori, perderlo così, all’improvviso, li pugnala mortalmente. Mentre una delle estati più calde di Chicago cala la sua morsa, parte la processione dei saluti, degli incoraggiamenti. Tornerà più forte, si dice. È il cugino del se ne vanno sempre i migliori che accompagna i funerali, ma questa volta sembra sincero. L’attesa si allunga, ma i Bulls hanno giocato troppo bene per abbattere le speranze. È sempre questione di tempo.
Crepe
Si riparte. Almeno fino a gennaio va tutto come previsto: Chicago gioca male, arranca, ma spreme le vittorie che le consentono di rimanere in bassa zona playoff. Almeno fino a che lui torna. Ecco, appunto. Quando torna? È la domanda che iniziano a fare tutti, ossessivamente, dall’anno nuovo in poi. Perché Rose tira, si allena, corre, partecipa anche alle sessioni di contatto. Ma sulla data del rientro, nonostante una campagna pubblicitaria di adidas che si sarebbe rivelata suicida, non trapela nulla. Lui parla poco o niente. Thibs e i piani alti esplorano nuove vette nell’arte delle risposte evasive. Febbraio, marzo. Dovremmo esserci. Ogni giorno sembra quello giusto. Eppure, ogni giorno, è la solita storia. Tornerà quando si sentirà pronto dicono i dirigenti. We have more than enough to win reitera l’allenatore. La squadra, ormai collaudata nel suo basket a tratti stucchevole ma ampiamente efficace, continua a lottare. Ma la città, così divisa e ghettizzata nel quotidiano quanto unita davanti allo sport, inizia a borbottare.
Le indiscrezioni filtrano come spifferi dai muri d’inverno, fomentate dalle non risposte. Si sparge voce che lui non voglia rischiare. Partono catene di analisi da Bar Sport, dall’intramontabile èsoft al più pepato non gli interessa poi tanto, forse. In tutto questo, arrivano persino le accuse del fratello alla squadra, ovviamente mal digerite dai Bulls. Ad aprile è chiaro che non rientrerà, ma il club non lo annuncia mai ufficialmente. Ogni partita si apre con il teatrino del suo riscaldamento e bocche cucite che non fanno altro che alimentare il mistero. I Bulls eliminano i Nets e se la giocano con gli Heat lanciati verso il secondo titolo. L’ottimismo, in qualche modo, rimane. Ma i mesi estivi suonano più come un’attesa al varco, che come trepidazione. A settembre Rose tornerà, e non avrà scuse. In molti iniziano a credere che abbia qualcosa di cui sdebitarsi. È sempre questione di tempo, ma il tempo stringe.
Ancora crepe
L’autunno arriva. Con esso l’attesa, finalmente, si allenta. Alla prima di pre-season c’è un clima da playoff, almeno sugli spalti. La prima entrata di Rose è un appoggio plastico. I debiti si dimenticano, sembra tutto come prima. Ma la regular season, quella in cui secondo l’adagio imperante nessuno difende e lasciano correre tutti i passi, è un’altra storia. Pieno di ruggine, Rose colleziona ferri e palle perse. La prima in casa, contro i Knicks, è un mezzo disastro, salvato solo dal morbido tiro con cui il nostro vince la partita allo scadere. Ci vuole tempo predica Thibodeau, in piena modalità Helenio Herrera. Rose ha lampi occasionali, ma sembra perennemente fuori controllo. L’attesa ha alimentato la foga, ma offuscato le letture. Più prova a ritrovare gli antichi varchi di penetrazione, più si infrange contro le difese. E poi, paradossalmente nella sua migliore partita dell’anno, un altro crack.
Proprio quando sembrava tornato lui
Questa volta siamo a Portland, lontanissimo da Chicago. E a rompersi è l’altro ginocchio. Invece di un legamento, è una meno grave rottura del menisco. Le alternative sono una pausa di due mesi, o un’operazione che chiuderà la stagione. Lui, come in molti si aspettano, sceglie di operarsi. Mesi fuori per mesi fuori, meglio continuare a pensare a lungo termine, anche quando gli istinti direbbero di fare il contrario. La nuova ondata di pietà cittadina arriva, ma è meno travolgente. Anche perché lui, dopo che i comunicati ufficiali lo hanno dato per fuori fino al 2014, confeziona un autogol clamoroso. Invece di assecondare la linea ufficiale, continua con l’evasività della stagione precedente. Tornerò quando mi sentirò bene. “Intendi l’anno prossimo, vero Derrick?” reagiscono i media locali. No, magari anche questo. E qui, le incrinature si fanno crepacci. Il Bar Sport alza la voce. Molti tifosi si sentono confusi, alcuni pure presi in giro. I Bulls rispondono a suoni di comunicati. Constatato che le conferenze stampa, pur nella loro rigidità, sono troppo rischiose, proliferano gli annunci mandati via email. Quelli che Il mio unico obiettivo è dare un titolo a questa città. Ma le retorica del territorio, che agli inizi fioriva spontaneamente, ora sembra solo l’ennesimo arrocco. Nemmeno ben riuscito. I Bulls, dopo una regular season discreta, si squagliano ai playoff. Lui continua a tirare, al mattino e prima delle partite. Ma non si vedrà mai in campo. E con Deng ceduto a metà stagione e la coesione della squadra in evidente calo, Rose passa per la prima volta in secondo piano rispetto ai destini dei Bulls. È sempre questione di tempo, ma il tempo sta per finire.
Gli ultimi vagiti
Si arriva alle ultime due stagioni. Che Rose finalmente finisce, tra un infortunio minore e l’altro, pur senza mai toccare le vette di prima. Col fisico segnato e l’esplosività limitata, Derrick prova a cambiare. Attacca con meno frequenza, attende la difesa schierata, ricorre tantissimo al tiro. È una strategia di sopravvivenza, di cui gli va dato atto. Ma cambiare stile, e farlo in maniera così radicale, non produce i risultati sperati. Ci sono buone prestazioni, spesso legate alle lune al tiro. Ma mancano tragicamente i viaggi in lunetta che tanto facevano male alle difese, mentre le palle perse rimangono tante, e l’efficienza offensiva crolla. La verità è che un giocatore che segna 20 punti con 25 tiri non fa più paura. A nessuno. Nell’altalena dei risultati, c’è spazio per qualche polemica. Come quando Rose dichiara che il suo obiettivo primario non sono i titoli, ma poter avere sufficiente integrità fisica per prendere in braccio suo figlio a fine carriera. Parola sacrosante per ogni essere umano razionale. Che però, dette in un contesto così, sollevano l’ennesimo polverone. Eppure la folla, questa volta, non si indigna nemmeno. È il segno più chiaro che i vecchi furori sono ormai dimenticati. Nel 2015 c’è la breve illusione di poter sbattere fuori i Cavs di LeBron contro tutti. Una tabellata di Derrick regala il 2-1, Gara-4 in casa potrebbe regalare l’allungo decisivo. Ma i Bulls sprecano e vengono puniti da James, nella serata in cui il Re lancia l’ammutinamento pubblico contro il suo allenatore. L’era Thibodeau si chiude per sempre. Doveva essere questione di tempo. E poi, improvvisamente, il tempo è finito.
L’ultimo D-Rose vintage
Questione di tempo
La pietra tombale è stato il totale fallimento tecnico della gestione Hoiberg, nell’ultima stagione. In cui Chicago ha mancato i playoff dopo quasi un decennio di qualificazioni consecutive, mostrando tensioni emotive e spaccature tecniche che, meglio di ogni dichiarazione, hanno messo in mostra dei danni irreparabili. Il disastroso finale di stagione, con i Bulls che hanno mancato un abbordabilissimo ottavo posto a est, ha sotterrato per sempre i proclami di gloria. Si è iniziato a parlare di ricostruzione. Proprio quella che Rose, con il suo sbarco trionfale, avrebbe dovuto accelerare e ovviamente far culminare in un titolo. Eppure, trafitti da un ultimo, disperato rigurgito di diniego della realtà, tutti hanno fatto finta di non accorgersi. Più importante pensare all’eventuale scambio di Jimmy Butler, al Draft, allo status di Noah e Gasol sul mercato dei free agent. Ma rinunciare a Rose, quello no.
Chissenefrega se quelle galoppate non sarebbero mai tornate; chissenefrega se i Bulls non si sarebbero ritrovati a lottare per il titolo. Derrick era il quotidiano. Il ricordo e la disillusione. La persona che, nel bene e nel male, aveva riempito l’immaginario di una città per quasi un decennio. Ma più si maschera il naturale corso dei fatti, più ci si condanna a un duro risveglio. Con un futuro da costruire, e non più un presente da inseguire, un giocatore del genere non faceva più parte dei piani. Saluta come un Luol Deng qualsiasi, pedina di scambio in un’anonima trade pre-Draft. Sarebbe probabilmente andato via l’estate prossima, da free agent. Questione di tempo, anche qui. Ma in un senso che nessuno immaginava. E, per una volta, gli eventi sono accaduti prima del previsto.