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Giovanni Bongiorno

Le radici brasiliane delle MMA

La storia da film di come le arti marziali miste iniziarono a diventare ciò che…

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Carlos Gracie aveva avuto più di venti figli, dal primogenito Carlson all’ultima nata Kiria, mentre Hélio si era fermato a nove. Tutti i maschi crebbero a pane e jiu-jitsu, le figlie femmine sposarono quasi tutte allievi dell’Accademia Gracie. Il risultato fu che negli anni ’80 i Gracie monopolizzavano il jiu-jitsu, non solo nel loro paese ma anche all’estero. Rorion aveva aperto una palestra in California, Relson alle Hawaii, Carley in Virginia. A Rio, Carlinhos aveva aperto quella che poi sarebbe diventata la più importante Accademia di jiu-jitsu del mondo, la Gracie Barra. 

 

Ma il Gracie di spicco, “il campione di famiglia”, era Rickson, figlio di Hélio, protagonista e vincitore di due incontri di valetudo a cavallo del 1980 che rimisero la modalità di lotta sui radar del pubblico. Il suo avversario era stato Rei Zulu, un enorme lottatore di tarracá, il sistema di lotta a mani nude tradizionale delle zone rurali del nord del Brasile, assimilabile alla capoeira per la presenza di coreografie danzanti e musicali, ma che prevedeva proiezioni e pugni. Un avversario temibile, ma nulla che il campioncino di famiglia non potesse gestire. 

 

I Gracie erano tanti, si facevano notare e non stavano simpatici a tutti. In una sera del 1982, un giovanotto che si chiamava Mario Marinho Dumar colpì a tradimento con un pugno Charles Gracie, che camminava tranquillamente per la strada insieme al cuginetto Royce. Quando si scoprì che l’aggressore si allenava all’Accademia Naja, patria della muay thai carioca, Rolls, il più autorevole fra i figli di Carlos, organizzò una spedizione punitiva. L’arrivo di decine di jiujiteiro alla Naja provocò il panico, perché in quel momento si stavano svolgendo le lezioni di karate per i bambini. I genitori fuggirono con i figli, Rolls chiuse la porta di entrata e chiese la consegna di Marinho per dargli una lezione. 

 

Flávio Molina, titolare dell’Accademia Naja, era un personaggio da rotocalco: modello, desiderato da tutte le donne di Rio per il look da attore di Hollywood, era stato più volte campione sudamericano di taekwondo e di muay thai (anni dopo fu indotto della Hall of Fame della specialità), ed era considerato unanimemente lo striker più forte del Brasile. In quell’occasione, il suo onore gli impose di difendere l’integrità dell’allievo a costo di venire picchiato, cosa che ovviamente accadde, a lui e agli altri pochi lottatori di karate e taekwondo presenti. 

 

Quello che era nato come un alterco fra ragazzi diventò una rivalità fra Accademie, e pian piano una rivalità fra stili di lotta. Nei mesi seguenti i lottatori si accorsero che dovevano camminare con gli occhi bene aperti, perché potevano essere attaccati in ogni momento, soprattutto se circolavano nelle vicinanze di una palestra avversaria. Fu Robson, il secondogenito di Carlos, all’epoca Sovrintendente allo sport per la regione di Rio, ad avere l’idea di risolvere la rivalità dei due gruppi facendoli incontrare in un valetudo. L’evento, patrocinato dalla rivista Manchete, per evitare di usare il termine ancora non gradito di “valetudo” sarebbe stato chiamato “Desafio (sfida) jiu-jitsu vs. artes marciais”. 

 

Il problema di Molina fu quello di trovare combattenti all’altezza dell’evento, e la ricerca si rivelò difficile, perché la fama della durezza dei Gracie era oramai diffusa in tutta la città e non erano in molti a coltivare l’entusiasmo dello scontro con loro. Molina fu così costretto ad accettare l’offerta spontanea fattagli da tre frequentatori saltuari della sua Accademia, nessuno dei quali in realtà era un kickboxer. Il primo era il giovane figlio di un noto avvocato carioca, Marcelo Mendes, il secondo era un ragazzo di strada di nome Eugenio Tadeu che frequentava una gang nota come la Turma da Rua Bambina. 

 

Il terzo a proporsi fu Marco Ruas, un atletico ventitreenne conosciuto nelle discoteche della Zona Sud come uno dei più apprezzati buttafuori. Le sue mani enormi, usate con destrezza nel risolvere le situazioni più scabrose, erano famose nell’ambiente dei viveur della notte. Ruas si allenava un po’ ovunque. Aveva iniziato con la capoeira, poi si era appassionato alla muay thai, e la maggior parte del suo tempo la passava al Clube de Regatas Boqueirão, nel quartiere di Botafogo. Il Boqueirão, gestito da Carlos Brunocilla, oltre ad essere una palestra di culturismo, era anche il rifugio dei “valentoes” di Rio, dei combattenti più duri della città, provenienti in gran parte dagli strati più poveri della popolazione, che il sabato si incontravano per confrontarsi in un gioco sportivo che loro chiamavano “taparìa”, ovvero, schiaffeggiamento (altro non era che un valetudo “light”, con gli schiaffi al posto dei pugni). 

 

Il Boqueirão era soprattutto la Mecca della luta livre brasiliana, e fu al Boqueirão che Ruas portò gli altri due colleghi ad imparare la lotta a terra. Robson selezionò atleti sia dell’Accademia Gracie che dell’Accademia Carlson Gracie, di peso tale da creare accoppiamenti equilibrati con gli avversari. L’ex surfista Renan Pitanguy, Ignacio Aragão, Marcelo Behring e Fernando Pinduka furono i prescelti, in ordine crescente di peso. Avrebbero incontrato rispettivamente Eugenio Tadeu, Bruce Lucio (un esperto di kung fu che sostituì all’ultimo momento Marcelo Mendes), Flavio Molina e Marco Ruas. Dopo questi incontri si sarebbe svolto il main event (che era tale soltanto perché uno dei suoi lottatori era l’unico con un nome conosciuto dai giornali), fra Rei Zulu ed il rappresentante di kung fu Sergio Batarelli. 

 

Robson impose come arbitro Hélio Vigio, comunque considerato sufficientemente autorevole anche dai kickboxer; Vigio era sì un ex allievo di Hélio Gracie, ma era anche uno dei Commissari di polizia più conosciuti e temuti di Rio, uno di quelli che si era fatto le ossa arrestando ed interrogando gli oppositori politici ai tempi della dittatura militare. Si poteva presumere che avrebbe avuto un comportamento duro, ma imparziale. Le regole erano semplici: tre round da cinque minuti, vietati i soliti colpi (ditate, morsi, e simili) ed al termine dell’incontro in assenza di KO, sottomissione o desistenza, sarebbe stata decretata la parità. 

 

Il Maracanazinho fece il tutto esaurito, con più di ventimila persone presenti, la maggior parte delle quali legate al mondo del jiu-jitsu. Il clan Gracie era disposto intorno al ring. Fra di loro, una decina di guardie del corpo di Vigio, armate. Iniziarono la riunione i pesi leggeri, Eugenio e Renan. Quest’ultimo volle combattere con il gi perché si fece convincere in tal senso da “Seu Hélio”, il patriarca. Fu una cattiva idea, perché Eugenio utilizzò il vestiario dell’avversario per i suoi scopi, afferrandolo e sbilanciandolo, per poi colpirlo con pesanti pugni al volto e ginocchiate al corpo, finendolo dopo pochi minuti. La sconfitta scioccò gli appassionati di jiu-jitsu, convinti che i loro lottatori fossero imbattibili. Poi Ignacio dispose a piacimento di Lucio. Uno a uno. Era il turno di Ruas, che ricorda così il match: «Tutto era preparato perché i Gracie vincessero. Quando appoggiavo le mani alle corde, Hélio Gracie, che girava intorno al ring, me le staccava. Quando Pinduka mi diede un morso, io risposi infilandogli un dito nell’occhio, e Vigio subito mi ammonì, dicendo che se lo avessi rifatto mi avrebbe squalificato. A lui non disse nulla. Quando mi portava a terra, e io mi mettevo in full-guard, Vigio iniziava a gridargli: “Dagli una testata! Dagli una testata!”. Ma io non mollai». 

 

L’incontro fu equilibrato, con Ruas che colpiva pesantemente Pinduka finché l’incontro restava in piedi, ma con lo stesso Pinduka che spesso riusciva ad atterrare l’avversario. Finì in pareggio, perché nessuno dei due riuscì a concludere prima del limite. La sfida finale diventò così fondamentale. Se Molina fosse riuscito a battere Marcelo Behring, il jiu-jitsu avrebbe perso la sfida, e le conseguenze in termini di popolarità avrebbero potuto essere devastanti. Ma Marcelo dominò il suo avversario, portandolo a terra e sottoponendolo ad un crudele ground and pound. Mentre Robson dall’angolo gli gridava inutilmente di sottometterlo, dall’angolo di Molina il suo secondo Marcelo Mendes gettò l’asciugamano sul ring in segno di desistenza. Vigio prese l’asciugamano, si deterse il sudore dalla fronte e lo rimandò al mittente, lasciando Behring libero di continuare il massacro. «Vigio si sentiva emotivamente coinvolto» dice oggi, sorridendo, il suo compare João Alberto Barreto. Dopo pochi ma infiniti secondi di martellamento alla testa di Molina, Marcelo Mendes entrò sul ring per fermare il suo omonimo, iniziarono a volare sedie e Vigio si decise ad interrompere il match decretando la vittoria di Behring. 

 

Nel frattempo, Hélio non condivideva molto le storie che circondavano proprio Marcelo, miglior allievo e grande amico di Rickson e stava cercando di separare i due. Behring frequentava ambienti poco raccomandabili legati alla criminalità e sarebbe stato poi trovato morto con colpi d’arma da fuoco in circostanze oscure nel ’95. La palestra di Rorion andava forte e Rickson era richiesto dal fratello per dare una mano; Rickson sarebbe partito nel 1989. 

 

Ma la punta di diamante dei fratelli Gracie non aveva partecipato al Desafio, poiché non aveva alcun interesse ad affrontare avversari non alla sua altezza. Ma dal Boqueirão giungevano voci poco gradite: Rickson aveva paura di incontrare un loro lottatore? Era davvero troppo forte o le vittorie contro Rei Zulu erano state casuali? Quando alla fine qualcuno gli venne a dire che Marco Ruas l’aveva sfidato, Rickson chiamò a raccolta il meglio del jiu-jitsu e si recò al Boqueirão. In testa marciavano il generale Hélio, quasi ottantenne e marziale come sempre, insieme a Rickson; dietro di loro Marcelo Behring, Rilion, Royler e un’altra ventina di lottatori in gi. Brunocilla comprese subito il motivo dell’“invasione” e si affrettò a telefonare a Marco Ruas, dicendogli di correre alla palestra perché era arrivato Rickson per combattere, seduta stante. Ricorda Ruas: «Mi sarebbe piaciuto combattere contro Rickson, ma in una riunione ufficiale, con una borsa, e non in una palestra solo per il prestigio di questa o quella modalità di lotta. Io mi allenavo in varie palestre, ero estraneo a quella rivalità fra i Gracie e il Boqueirão. Seu Hélio, fra l’altro, sapeva che mi allenavo anche nel jiu-jitsu, perché venni a sapere che una volta era andato in quella palestra dicendo al titolare che avrebbe dovuto smettere di aiutarmi… E comunque chiesi quattro mesi di tempo». 

 

A quel punto Hélio prese carta e penna e chiese: «Se c’è qualcuno che non ha paura di Rickson, lo dica, che lo metto in lista per incontrare mio figlio». Dal gruppo della luta livre si levò una voce: «Io mi iscrivo!». Era un giovane e sconosciuto lottatore, Hugo Duarte. Ma anche lui voleva tempo per allenarsi. Frustrato, Rickson si allontanò con i suoi, senza prima aver detto a Hugo di fargli sapere quando si sentiva pronto. Dopo qualche settimana, nessuna nuova arrivò, e Rickson si attivò a modo suo: «Duarte era uno sconosciuto, non aveva senso per me sfidarlo, sarebbe stato come se il Cosmos di Pelé avesse sfidato il Ferroviario. Decisi che la questione andava risolta in strada, davanti a molta gente che avrebbe potuto riferire quel che vedeva. Dissi perciò ai miei amici di controllare gli orari nei quali la luta livre si allenava e si riposava sulla spiaggia. La spiaggia sarebbe stata il luogo adatto».

 

L’investigazione fece venire a galla che il sabato mattina la turma di Hugo andava a prendere il sole nella Praia di Pepé, sul litorale dopo Ipanema e Leblon. E così, un bel giorno, Duarte e gli altri che stavano prendendo il sole videro arrivare una processione di una quarantina di jiujiteiro in ghingheri. Dopo che Rickson gli ebbe tirato uno schiaffo a mo’ di sfida, Hugo si tolse havaianas e maglietta, e iniziò lo scontro. I compari di Rickson fecero un cerchio umano intorno ai due lottatori, tenendosi per le braccia al fine di impedire a chiunque di entrare nell’improvvisato ring di sabbia. Dopo qualche minuto Rickson riuscì a montare sulla schiena di Hugo ed iniziò a colpirlo con destri e sinistri al capo. Quando Hugo dette il segnale di resa, l’incontrò terminò. La lotta era stata ripresa dal cuginetto Ryan, e le riprese furono utilizzate, opportunamente tagliate di alcune scene (fra le quali quella in cui Duarte assestò una pesante ginocchiata al corpo di Rickson), nella videocassetta “Gracie in action” che Rorion mise in circolazione per propagandare il jiu-jitsu in America, ed è oggi la rissa di strada con più visualizzazioni su YouTube. 

 

La luta livre si sentì vittima di un agguato, e dopo pochi giorni fu l’Accademia Gracie ad essere “invasa” da decine e decine fra lottatori di luta livre e membri della Turma da Rua Bambina. «Restituimmo quello che loro avevano fatto indisturbati da sempre», commentò Hugo. Questa volta toccò a Hélio telefonare al figlio per dirgli di arrivare in fretta. Rickson ricorda: «Quando arrivai, per strada c’era una moltitudine di persone, un misto di lottatori e banditi, qualcuno di loro con la pistola. Mi feci strada con il terrore che avessero fatto del male a mio padre. Ma quando arrivai in cima alle scale, vidi mio padre che tranquillamente, rivolto a Duarte, disse: “Ecco, Rickson è arrivato”».

 

Dopo un breve faccia a faccia, i due decisero di risolvere la questione da uomini, e si portarono in un parcheggio posto dietro l’Accademia. La lotta fu brevissima, perché Rickson riuscì con facilità a portare Hugo a terra e montargli sopra. Duarte diede immediatamente il segnale di desistenza. I dubbi su chi fosse il campione di Rio si erano dissolti, e Rickson poté raggiungere il fratello Rorion a Los Angeles con una bella vittoria e l’onore intatto.

 

Per un Rickson che lasciava Rio de Janeiro, arrivava un Wallid. Nato nel 1968 a Manaus, in Amazzonia, Wallid Ismail si era trasferito poco più che quindicenne a Rio senza un cruzeiro, ma con la ferrea determinazione di imparare il jiu-jitsu dal suo idolo, Carlson Gracie. A Manaus aveva praticato l’arte marziale per qualche anno, aveva avuto la sua brava esperienza di risse a scuola, e sentiva che se voleva diventare il miglior lottatore al mondo aveva bisogno del miglior maestro al mondo. Non aveva denaro, né per pagare le lezioni, né per pagarsi un posto dove dormire, ma Carlson aveva un modo tutto suo di gestire i conti della sua Accademia in Copacabana, e se vedeva nell’allievo un possibile competitor, questi non erano problemi insormontabili.

 

La sua prova di ingresso nel mondo di Carlson consistette in qualche minuto di valetudo a mani aperte con Ricardo De La Riva, un giovane allievo di Carlson tecnicamente dotatissimo. Wallid le prese di santa ragione, ma Carlson capì che quel piccoletto peloso aveva il fuoco negli occhi, e accettò di allenarlo con la promessa di futuri ed improbabili pagamenti. Quanto al posto per dormire, la palestra di rua Figuereido Magalhaes in Copacabana era grande e Wallid si impossessò di uno spicchio di tatame, accanto a degli allievi che già vi dormivano. Presto diventò il più fedele fra gli uomini di Carlson, uno dei pochi che gli rimase fedele tutta la vita.

 

Wallid era piccolo, ma aveva un coraggio da leone, come si sarebbe visto anni dopo, nel party post-fight di UFC 13, quando si lanciò contro Tank Abbott, un fighter di dimensioni più o meno doppie rispetto alle sue, reo di aver maltrattato un anziano allenatore del brasiliano. Wallid commentò poi orgoglioso: «Gli tirai il cazzotto di fronte, non di lato, tutti lo possono confermare. Andai davanti a lui e lo colpii. Pam! Lo feci perché non aveva rispettato la gerarchia. Non si attaccano i generali, i generali vanno rispettati. Sì, era 50 chili più pesante di me, ma quando uno è sujeto homem, un uomo vero, il peso non conta».

 

Il sogno di Wallid era di confrontarsi nel valetudo, ma le riunioni languivano. Hélio era focalizzato sull’Accademia e sui campionati di jiu-jitsu. Carlson, titolare di una palestra in Copacabana e maestro di centinaia di ragazzi, era a sua volta più interessato a sconfiggere gli allievi di Hélio che non i lottatori delle altre discipline. Il gruppo della luta livre non aveva la struttura economica e i contatti per mettere in piedi un evento di rilievo. La rivalità, perciò, si rivelava solamente quando gli atleti si incontravano casualmente nei locali e lì, complice l’alcool, scoppiavano le risse. Wallid trovò la chiave per smuovere l’ambiente. Si fece intervistare dal quotidiano O Dia e ne approfittò per creare scandalo, definendo la luta livre come “una imitazione del jiu-jitsu senza gi” ed affermando che avrebbe potuto sconfiggere facilmente uno qualsiasi dei suoi praticanti. 

 

Il messaggio era forte e chiaro, i destinatari ben identificati. L’inevitabile risposta arrivò dopo poche settimane, quando – nel bel mezzo dello svolgimento del torneo di jiu-jitsu della Copa Nastra, organizzato da Carlson nel ricco quartiere di Urca, ai piedi del Pao de Acucar – Marco Ruas, Eugenio Tadeu, ed un’altra dozzina di lottatori del Boqueirão “invasero” la riunione, interrompendo i combattimenti. A capo del gruppo Hugo Duarte, oramai soprannominato “il generale della luta livre”. 

 

L’intervento di un trafelato Carlson calmò le acque, e dopo un’amichevole discussione Hugo e Carlson si misero d’accordo sul mettere in piedi una riunione esclusivamente dedicata allo scontro fra atleti delle due modalità di lotta. Carlson si impegnò a trovare i contatti giusti e una emittente per le riprese televisive. Con l’aiuto dell’impresario Carlos Docelar riuscì a far partecipare al progetto il sovrintendente generale di TV Globo, ovvero Pires Gonçalves, un ex-allievo di Rolls. TV Globo accettò di trasmettere l’incontro di sabato sera, con una possibile audience di 20 o 30 milioni di telespettatori. 

 

Era oggettivamente una svolta. Era necessario però trovare gli accoppiamenti adatti, cercando di mettere uno di fronte all’altro dei lottatori più o meno della stessa stazza. Le categorie di peso formalmente non esistevano, ma era diventata prassi quella di evitare incontri visivamente non equilibrati. Carlson aveva a disposizione un gran numero di lottatori, perché molti, anche appartenenti ad accademie rivali, chiesero di poter partecipare per dare una definitiva lezione al Boqueirão. Tutto ciò, nonostante il mondo del jiu-jitsu fosse profondamente diviso, sia per screzi personali che per scelte filosofiche. Wallid ricorda di essersi allenato varie volte perfino con gli odiati “playboy della Barra”, con ciò indicando non solo Carlinhos e Crolin, che gestivano l’Accademia Gracie Barra, così chiamata dal nome del quartiere Barra da Tijuca, ma tutto il resto del mondo Gracie, perfino il suo arcinemico Renzo. Wallid in quel momento era una “semplice” cintura marrone, e Carlson aveva dei dubbi a metterlo di fronte all’ormai navigato Tadeu, il prescelto da Duarte per combattere tra i pesi minori. Ma come ricorda orgoglioso lui stesso: «Mentre gli altri discutevano se io potevo partecipare o no, mi feci avanti e dissi che chi voleva prendere il mio posto avrebbe dovuto battermi lì, subito, davanti a tutti. E così entrai».

 

Per combattere con Marco Ruas, unanimemente considerato il più forte fra gli avversari, fu scelto il giovanissimo e promettente prospetto di Carlson, Amaury Bitetti. Fabio Gurgel, il più tecnico del gruppo, si sarebbe scontrato con il più tecnico della luta livre, Denilson Maia. Sarebbe poi toccato a Murilo Bustamante e Marcelo Mendes, entrambi figli della buona borghesia di Rio, entrambi altamente scolarizzati, ed entrambi lontanissimi dallo stereotipo dell’attaccabrighe di strada. Infine, il temutissimo Marcelo Behring, cintura nera di Rickson, quello che nel 1984 aveva massacrato Flávio Molina, avrebbe affrontato il generale Hugo Duarte. Questo era sulla carta l’incontro più importante, perché Duarte era il più noto fra gli esponenti della luta livre e perché tutti sapevano che se Behring avesse perso il suo maestro Rickson sarebbe stato costretto a tornare in Brasile a riscattarne l’onore. 

 

Ci furono anche episodi di spionaggio rosa, degni di un film. Un giorno arrivò al Boqueirão una ragazza bellissima, che chiese di potersi allenare e fu ovviamente accettata con entusiasmo. Oltre ad allenarsi, la ragazza si affezionò a diversi lottatori. Eugenio racconta che una volta, entrando in palestra ad un’ora nella quale pensava di essere l’unico presente, aveva trovato uno dei suoi colleghi impegnato sul tatame insieme alla ragazza in attività ricreative. Solo in seguito si scoprì che la tizia era stata inviata da Carlson per ottenere informazioni sui fighter e consumarli anche fisicamente per quanto possibile. «Quelli del jiu-jitsu sono sempre stati più organizzati di noi», lamenta oggi Hugo Duarte, che peraltro pare aver anch’egli apprezzato le offerte della Mata Hari carioca. 

 

Due incontri, i più interessanti, saltarono inopinatamente. Marco Ruas ricevette un’offerta per combattere a Manaus con una borsa maggiore di quella offertagli per combattere a Rio, e rinunciò. Marcelo Behring, a sua volta, si infortunò una settimana prima della riunione ed anche il suo incontro con Duarte saltò. Rimasero quindi solamente gli altri tre accoppiamenti. 

 

Il “Desafio Jiu-jitsu vs luta livre” si tenne nel 1991 al Country Club Grajaú, in un sobborgo settentrionale di Rio, che risultò pieno in ogni ordine di posti, con una grande maggioranza di tifosi di jiu-jitsu. Già dall’inizio, apparve chiaro che la serata sarebbe stata complessa. Il Grajaú Country Club aveva una capacità di tremila posti, ma si presentò almeno il triplo di spettatori. Incautamente, non era stata neppure richiesta la presenza della polizia. Gli organizzatori cercarono di velocizzare il più possibile la riunione e l’attore Antonio Grassi, cui era stato offerto un contratto per presentare l’evento, neppure salì sul ring. Il Sindaco Alencar, l’ex ministro dell’Esercito e altre autorità si ripararono in un palco nell’area VIP, insieme a Hélio Gracie, temendo che i loro posti a bordo ring potessero non risultare sicuri. 

 

Il primo incontro, fra Wallid e Eugenio, chiarì fin da subito che i lottatori erano in perfetta sintonia con il clima pesante che si respirava intorno a loro. Ovviamente, per la percezione di allora, fu una vera rissa di strada dentro un ring, un combattimento di galli all’ultimo sangue. Il regolamento, imposto da Rede Globo per minimizzare l’impatto di violenza ai telespettatori, e che vietava colpi a pugno chiuso, testate, morsi, ditate negli occhi, colpi bassi, fu subito dimenticato. Di fatto, dopo pochi minuti Eugenio aveva un sopracciglio spaccato da una testata e segni di morsi sul corpo, ma tirava pugni al volto di Wallid come in un incontro di boxe. Come previsto, Eugenio prevaleva in piedi ma quando Wallid lo portava a terra era questi ad avere la meglio. Il match terminò quando i lottatori caddero fuori dal ring in mezzo ad una folla di spettatori, che l’insufficiente servizio di sicurezza non era riuscito a tenere lontana dalle corde. Wallid, che si trovò sopra Eugenio, continuò a colpirlo anche in quella situazione per una dozzina di secondi, finché non tornò sul ring. Eugenio non poté seguirlo, perché gli spettatori iniziarono a tempestarlo di calci e pugni, mettendolo KO. L’arbitro lo contò, e al 10 diede la vittoria a Wallid. 

 

Gli incontri successivi furono ugualmente violenti. Bustamante punì severamente Mendes con una gragnola di pugni e scaraventandolo fuori dal ring. Gurgel sconfisse Maia con un ground and pound che stupì un po’ tutti perché avrebbe potuto tranquillamente sottometterlo senza provocare spargimento di sangue. Ma quella sera tutti volevano il sangue. 

 

«In questi casi, la differenza fra una rissa di strada e un combattimento sul ring è solo quella di prendere i lottatori e costruire un ring intorno a loro. Ognuno dei due gruppi voleva mostrare all’altro che era migliore. Ma non nella tecnica, nella scazzottata. Mettere delle regole? Inutile», chiosò João Alberto Barreto qualche tempo dopo.

 

Al di là del discutibile risultato dell’incontro fra Eugenio e Wallid, la luta livre aveva indubbiamente perso, e questo, fosse dovuto alla modalità in sé o al minor valore dei singoli, contribuì in maniera significativa ad accrescere la fama del jiu-jitsu come arte marziale dominante. 

 

Se è vero che le palestre di jiu-jitsu videro aumentare il numero di iscritti, è altrettanto vero però che la riunione fu invece una mannaia per il valetudo. Il Sindaco di Rio se ne andò senza commentare – «Da allora non mi ha più rivolto la parola», disse anni dopo Carlos Docelar – i giornali attaccarono pesantemente l’evento, Rede Globo fece sapere che non avrebbe più trasmesso questo genere di combattimenti, i poteri locali tornarono a negare le autorizzazioni. 

 

Il valetudo era di nuovo in punto di morte. Fortunatamente, a 5mila chilometri di distanza, Rorion stava creando il futuro. 

 

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Giovanni Bongiorno scrive di MMA e ne parla nel podcast di MMA Talks.

Avvocato grossetano, è un esperto di cultura brasiliana, dalla musica alla politica, sport compreso, di cui nei decenni è diventato conoscitore e divulgatore.