«Ma non ci è mai venuto in mente che è proprio nella fedeltà che si potrebbe trovare una risposta diversa? No, non la fedeltà alle istituzioni, e neanche alle regole del buon senso antico, ma la fedeltà a noi stessi»
Giorgio Gaber, nel monologo che introduceIl Dilemma
Il suo volto sofferto, eroso da mille battaglie, non soltanto sportive, è diventato in fretta una delle immagini simbolo di un Mondiale che ha abbandonato la retorica del supereroe per riabbracciare una dimensione più umana. Appoggiato a una stampella, mentre impartisce istruzioni ai suoi, Oscar Washington Tabárez ha conquistato, a 71 anni, tutte quelle prime pagine che non aveva ricevuto in quasi quarant’anni di carriera. Alla quarta Coppa del Mondo alla guida della Celeste, sta sfidando sé stesso e la malattia che da qualche anno lo fiacca giorno dopo giorno, ora dopo ora. In cambio, sta ricevendo dai suoi giocatori tutto quello che possono dargli.
Ha continuato ad aggiustare l’Uruguay con il passare delle partite, dimostrando una capacità di reinventarsi come tecnico, pur partendo da principi solidi e da una cerniera difensiva fra le più solide dell’epoca recente. Si prende gioco del tempo che passa, andando avanti come una delle sue citazioni preferite: «Lei è all'orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare». Mossi dal suo esempio, in campo si vedono degli uomini pronti a morire sul terreno di gioco. Da Edinson Cavani, che ha spremuto ogni fibra del suo corpo, all’ultima delle riserve. Tutto per una maglia, tutto per il Maestro.
Foto di Dean Mounthropolous / Getty Images.
Insegnare, in campo e fuori
Oscar Washington Tabárez nasce a Montevideo il 3 marzo del 1947, in una famiglia umile ma non povera: «Non ci mancava il necessario. Sono cresciuto, ho frequentato le scuole di base e ho avuto modo di studiare anche oltre. Come spesso accadeva a quei tempi, mio padre andava a lavorare e mia madre rimaneva a casa a occuparsi dei bambini». È il più grande di tre fratelli: Williams ha tre anni in meno, Walter ben otto. Papà Oscar lavora in una fabbrica di prodotti derivati dal latte, quando torna a casa ha sempre qualcosa da mettere sul tavolo per la cena. Il calcio entra subito nella sua vita, con le partite infinite giocate insieme ai coetanei sulle strade al limite tra il Cerrito de la Victoria e il Brazo Oriental. «Da piccolo ero per tutti Washington, iniziarono a chiamarmi Oscar soltanto al liceo. Mia madre si è dedicata interamente a noi tre. Con una costanza più viscerale che razionale ci spingeva a studiare e ci ha dato la possibilità di proseguire. Williams scelse di iniziare a lavorare, Walter è diventato un maestro.
Oggi è direttore del Collegio San Francisco e lavora in una scuola pubblica a La Teja». Nella crescita di Washington è fondamentale il cugino Miguel Angel, una sorta di fratello maggiore. «Ancora non camminavo e già era al mio fianco. Vivevamo vicini, è stato una specie di tutore per me. Era il mio idolo, sapeva giocare benissimo a tutto, non solo a calcio. Ma lo ammiravo non soltanto per quello che sapeva fare, ma per la persona che era. Collezionavamo insieme le figurine, una volta lasciò l’album a casa mia perché mi piaceva sfogliarlo durante la notte. Il giorno successivo, per la smania che avevo di mostrarlo a tutti, lo portai a scuola e me lo rubarono. Non sapevo come dirglielo, presi coraggio e gli dissi la verità. Non si arrabbiò, non mi disse nulla».
Il padre di Miguel Angel, zio Ismael, allena el Ciclón del Cerrito. Washington non è all’altezza del cugino, gioca poco. In quelle rare occasioni, deve anche subire le voci maligne dei compagni, convinti che scenda in campo soltanto in qualità di nipote dell’allenatore. Sogna un futuro da goleador ma scende a patti con la realtà. «Tutti i bambini sognano di essere protagonisti. Mi piaceva giocare attaccante ma non era cosa. Durante la mia adolescenza iniziai a giocare in difesa con un club del Cerrito, El Faro, e lì iniziò tutto. Mai ho pensato di avere realmente un’opportunità nel mondo del calcio».
Non c’è solo il calcio, però. Washington continua a studiare e sceglie di intraprendere il Magisterio, per diventare insegnante. «Scelsi non senza perplessità, un po’ spinto dalla presenza di alcuni miei compagni. Dopo il contatto con i bambini, sparirono tutti i dubbi. Spesso si parla di una vocazione per questo mestiere, io non l’ho avuta. È cresciuta dopo, quando mi sono trovato a insegnare». Tabárez si divide tra i libri e il campo, nel 1967 approda al Sud América. Riesce a debuttare in Primera contro il Racing al Parque Roberto, contro il cugino Hamlet. «Un’emozione incredibile, finì 1-1. Tutto quello che ho fatto da calciatore non lo avevo immaginato neanche nei miei sogni più rosei». In quella squadra c’è uno degli eroi del Maracanazo, Alcides Ghiggia. «Parlava poco, aveva già più di 40 anni eppure andava a una velocità fuori dal comune».
Gli studi proseguono parallelamente e Tabárez diventa insegnante. Gli toccano in sorte le scuole delle aree più povere della capitale. Quartieri umili, dove crescono i figli degli operai. «Ricordo ancora la mia prima volta in una scuola dove erano concentrati molti bambini bisognosi. Vidi una piccola che tolse la buccia a una banana e la gettò in terra. Mi avvicinai per dirle che avrebbe dovuto gettarla nel cestino quando accorse un’altra bambina, che raccolse la buccia e la mangiò». La visione del mondo del Maestro si forma in questi anni. «Al primo anno con i bambini dovevo inventare dei giochi cantati, e iniziai a maturare qualche dubbio sulla mia scelta. Ma poi, andando avanti e iniziando a insegnare le cose concrete, capii che era la decisione giusta. Appena ebbi modo, visto che non avevo un peso, acquistai il libro Psicologia evolutiva dell’infanzia e dell’adolescenza, di Otto Engelmayer. Mi incantava! Era un volume prezioso, che ora immagino sia molto superato». Tabárez studia, insegna, gioca. E conosce Silvia, la donna della sua vita. «Era carnevale, stava con un’amica. Mi avvicinai, parlammo, ballammo un pochino». Si sposano il 18 aprile del 1969, e undici mesi più tardi nasce Laura, la primogenita.
«Mettere al mondo un figlio è una delle esperienze fondamentali della vita, un momento di felicità indescrivibile. Gli occhi del padre, della madre, dei nonni, degli zii, sono tutti per il nuovo arrivato. Eravamo giovani, ci conoscevamo da soli due anni. Come ogni coppia, avevamo dei progetti e delle illusioni. Due anni dopo Laura arrivò Tania, un anno e mezzo più tardi Valeria, poi dopo un bel po’ di anni toccò a Melissa e la nostra famiglia si completò. Avevo iniziato a giocare a calcio come mestiere nel 1967, ma il mio contratto non era straordinario, la fonte principale di sostentamento era lo stipendio di Silvia. Ci piaceva toglierci qualche sfizio, ho sempre amato la musica classica. Una volta comprammo un disco nel quale era inclusa Sogno d’amore, di Liszt, che ci faceva impazzire. Ma non avevamo i soldi per comprare il giradischi. Solo dopo un po’ di tempo riuscimmo ad acquistarlo. Eravamo una coppia strana. Lei tifosa del Peñarol, io di famiglia bolsa (così vengono chiamati i tifosi del Nacional de Montevideo)».
La carriera di Washington prosegue fino in Primera, ma è tormentata dagli infortuni. Arriva per un momento ad assaporare la maglia della Celeste nel suo periodo migliore, con i Wanderers: una sola presenza, in un’amichevole a scopi solidali, e l’ennesimo problema fisico. Per una stagione gioca in Messico, al Puebla. Per Tabárez è un periodo durissimo, segnato dalla nostalgia della sua famiglia. «Mi ricordo quando ho visto Silvia all’aeroporto, dopo due mesi di assenza. Era lì, in piedi, con le tre piccoline vestite uguali. Il sollievo di quel giorno lo porto ancora nel cuore». È un anno terribile, perché alla piccola Tania viene diagnosticata la distrofia muscolare. «Fu una sensazione bruttissima. Volevo, dovevo tornare in Uruguay. Non potevo rimanere lontano, dovevo stare con la mia famiglia. Ma il Puebla non voleva lasciarmi andare. Ci fu una lunga trattativa e alla fine mi mollarono». Ma l’esito di una seconda biopsia riporta il sereno: «Non era distrofia. Non sapevo cosa fare con quel dottore. Se abbracciarlo, insultarlo, picchiarlo. Rimasi pietrificato, ma dentro ero un vulcano». Nel 1979, a 32 anni, le ginocchia di Washington non ne possono più delle tante operazioni. Prende da parte Silvia, le comunica l’intenzione di ritirarsi. «Chiusi la mia carriera senza avere un peso da parte. Avevo soltanto accumulato i soldi per comprare una casa».
Una nuova vita in panchina
Tabárez termina la sua carriera al Bella Vista e c’è da mettere sul tavolo il pane quotidiano. «Quando le dissi che intendevo smettere, Silvia mi disse soltanto una cosa: “E come faremo a mangiare?”. Continuai a lavorare nella scuola pubblica e anche in un collegio cattolico finanziato da una fondazione tedesca. Non ho vissuto male il ritiro. Non ero stato un giocatore di alto livello, ho passato quasi tutta la mia carriera da infortunato e questo ha attenuato la sofferenza quando ho dovuto smettere».
Proprio mentre Silvia rimane incinta per la quarta volta, Tabárez si iscrive al corso per allenatori. Ma è un programma in radio a cambiargli la vita. «Era il gennaio del 1980. Stavo ascoltando la radio prima di una partita del Peñarol quando venne intervistato Pepe Etchegoyen. Cercava allenatori per il settore giovanile del club. Disse di non volere soltanto gente che avesse confidenza con il mondo del calcio, ma che avesse studiato. Scattò qualcosa. Aspettai che Silvia e le bambine andassero a dormire e iniziai a scrivere. Il giorno dopo arrivai a casa di Etchegoyen. “Pepe, non so se si ricorda di me, se mi riconosce”, gli dissi. “Hola, Tabárez, come va?”, rispose. Gli lasciai tutto quello che avevo scritto in quella notte e tornai a casa. Una volta arrivato, c’era Silvia ad accogliermi. “Ti ha chiamato due volte Etchegoyen”, disse».
Etchegoyen vuole offrire a Tabárez un ruolo come allenatore, ma la squadra di tecnici è completa. Praticamente in contemporanea, i dirigenti del Bella Vista fanno lo stesso: vogliono affidargli il ruolo di responsabile del settore giovanile del club. Washington richiama Etchegoyen, gli spiega la situazione, ed è proprio Pepe a dargli il benestare. Tabárez inizia a lavorare e il destino mette sulla sua strada il collaboratore perfetto. Ha bisogno di un preparatore atletico e gli viene fatto il nome di José Herrera, el Profe. Due uomini alle prime armi nel mestiere che si alleano e procedono, passo dopo passo. «Me lo ha presentato Jorge Paz, che era il preparatore atletico della prima squadra. Ricordo ancora che dopo poche ore mi aiutò a correggere un esercizio che stavo facendo svolgere ai ragazzi. Era quello di cui avevo bisogno».
Nonostante il buon lavoro con le giovanili, il Bella Vista non dà a Tabárez l’occasione per allenare la prima squadra. Nel 1983 riceve la chiamata della Federazione per allenare l’U-20. Ai Giochi Panamericani, a Caracas, l’Uruguay vince la medaglia d’oro, battendo 2-1 il Guatemala e 1-0 il Brasile di un imberbe Dunga nel gironcino finale a tre squadre. È un successo che accende i riflettori su Tabárez, e non a caso arrivano le chiamate del Danubio (1983-84) e dei Montevideo Wanderers (1984-85). Quest’ultima è un’annata decisiva per il futuro del Maestro, che incontra altri tre uomini cruciali: il portiere Celso Otero, il difensore Mario Rebollo e il dottor Alberto Pan. Sul campo l’avventura non è delle migliori, ma regala a Tabárez la possibilità di cementare il rapporto con tre pilastri del suo futuro staff. Pur avendo portato il club alla qualificazione in Libertadores, viene licenziato nel 1986. È un esonero che ferisce il gruppo. Per diversi mesi, alcuni calciatori si ritrovano in visita a casa di Tabárez, gustando del mate e parlando di calcio.
Gli incontri si bloccano di colpo nel 1987, perché il Maestro riceve la chiamata del Peñarol. Dopo una prima metà degli anni ’80 scintillante, la società aurinegra è alle prese con problemi economici e deve ripensare la sua struttura di squadra, consegnando nelle mani del tecnico uruguaiano una rosa dall’età media bassissima. Lo scenario perfetto per un allenatore che è anche un maestro di vita. «Ero il portiere e il capitano della squadra – racconta Eduardo Pereira – ed eravamo reduci da due vittorie in campionato quando al tecnico Maspoli proposero un contratto in Colombia, che accettò. Il Maestro fu la prima scelta del presidente Damiani. Le linee guida di Tabárez erano così chiare che non c’era neanche bisogno che le spiegasse. Era uno in più nel nostro gruppo, come se fosse un calciatore, anche se il suo ruolo era quello del capo. Sapeva darci fiducia, credevamo in tutto quello che ci diceva». Al Peñarol, Tabárez ritrova un ragazzino che aveva già visto nelle giovanili del Bella Vista: Diego Aguirre. «La mia storia con il Maestro è curiosa. Nel 1980, quando avevo 15 anni, venni chiamato per un provino al Bella Vista.
Sul campo c’erano el Profe Herrera e Tabárez, mi scelsero insieme a tre miei amici, anche se dopo una ventina di giorni lasciammo il club per tornare a giocare nella squadra del nostro liceo. Quando l’ho ritrovato al Peñarol, abbiamo subito parlato di quell’episodio. Mi colpì il fatto che si ricordava ancora i nomi dei miei tre amici, che non avevano fatto carriera nel mondo del calcio. Non ci potevo credere. Il Maestro è stato sempre la stessa persona. Misurato, rispettoso, mai una parola fuori posto. Viviamo in un mondo in cui è molto facile parlare male di giocatori o allenatori, ma non ho mai sentito il Maestro dire una cattiveria su qualcuno». Il Peñarol vola in finale di Libertadores, dove ad attenderlo c’è l’América de Cali, alla sua terza finale consecutiva dopo due brucianti sconfitte. Si mette male per il Maestro, perché la prima sfida viene vinta 2-0 dai colombiani. Per il regolamento dell’epoca, non si gioca andata/ritorno: al Peñarol basta vincere la seconda partita per garantirsi la possibilità di una “bella” in campo neutro. Al Centenario de Montevideo, Cabañas gela i 53.000 tifosi di casa dopo neanche 20 minuti. Serve un'impresa, e l'impresa arriva. Aguirre pareggia a 20' dalla fine, Villar trova il gol-vittoria all'87'.
Il 31 ottobre del 1987, a Santiago del Cile, Peñarol e América de Cali si giocano tutto. I colombiani hanno un vantaggio non da poco: in caso di parità dopo regolamentari e supplementari, vincerebbero la Copa grazie al gol segnato in Uruguay. I 90' finiscono 0-0, e il supplementare non cambia le carte in tavola. Fino al 120', quando Diego Aguirre, il ragazzino del Bella Vista, inventa la rete che fa esplodere il tifo aurinegro.
Il riepilogo della tripla finale di Libertadores. A 4’26” partono le immagini della finalissima di Santiago.
La Celeste, il Boca, l’Italia
Il trionfo continentale apre al Maestro le porte della Celeste, dopo aver perso ai supplementari la Coppa Intercontinentale contro il Porto, in una bufera di neve che ben poco si addiceva ai suoi ragazzi. Tabárez prende le redini dell’Uruguay al termine di una breve esperienza al Deportivo Cali. «Venivamo da una partecipazione al Mondiale 1986 dopo due mancate qualificazioni, l’aria che si respirava intorno alla nazionale non era positiva». Eppure il talento non manca, da Francescoli a Ruben Sosa. Il primo test è la Coppa America 1989, giocata in Brasile. L’Uruguay entra nel girone finale a quattro squadre, batte il Paraguay 3-0 (Francescoli, Atzamendi, Paz) e si sbarazza con personalità dell’Argentina, con una doppietta di Sosa, in una partita in cui Maradona va vicino a un gol assurdo da 50 metri, negato soltanto dalla traversa. Il Brasile, trascinato da Romario e Bebeto, vince le sue due partite. Il 16 luglio del 1989, i 148.000 del Maracanà festeggiano il gol di Romario che piega l’Uruguay e regala ai verdeoro il trofeo. È una delle reti manifesto delle capacità mistiche e velenose del Baixinho in area di rigore, uno scatto improvviso ad anticipare l’uscita di Zeoli su un cross da destra.
La Coppa del Mondo è un’altra cosa, e Tabárez vuole, per prima cosa, cambiare l’immagine data dall’Uruguay a livello globale. «La preparazione al Mondiale ci rimise a contatto con il calcio europeo. Organizzammo un’amichevole con l’Inghilterra a Wembley ed ebbi modo di parlare con un nostro connazionale che viveva lì. Mi disse: «Non avete idea di quello che si dice del nostro calcio dal 1986». Ci trattarono come animali, in un paese che dal punto di vista del giornalismo lascia molto a desiderare». L’Uruguay gioca bene e vince (1-2), interrompendo una serie positiva inglese che a Wembley durava dal 1984. È un’amichevole spettacolare, condita dagli splendidi gol realizzati da Barnes e Perdomo. Ai Mondiali, la Celeste supera il girone e inciampa al cospetto dell’Italia, tradita dal mese di grazia di Totò Schillaci.
Il missile insensato di Schillaci, il colpo di testa di Serena. È l’ultima panchina Celeste per il Maestro prima del ritorno nel 2006.
In soli due anni, il Maestro ha cambiato pelle all’Uruguay, trasformando quella che veniva vista come una banda di picchiatori in una squadra capace di imporre il proprio gioco, affidandosi a un raffinato possesso palla. Un principio di gioco, quello della ricerca del possesso palla, che ricorre spesso nella prima parte della carriera da allenatore di Tabárez. La prima esperienza con la Celeste dura 34 partite, e la vittoria sulla Corea del Sud nei gironi di Italia ’90 è un ritorno al successo mondiale per l’Uruguay, a secco di successi in Coppa del Mondo dal 1970. Per vincere un’altra gara a un Mondiale bisognerà aspettare il suo ritorno.
Nel 1991 accetta la rovente panchina del Boca Juniors, senza titoli da un decennio abbondante. Vince il torneo Apertura 1992, dando consapevolezza nei propri mezzi alla squadra. «Ho sempre dato più importanza alla persuasione che all’imposizione. È importante che l’alunno, o nel caso di una squadra il giocatore, dia un significato a quello che sta facendo. Il calciatore deve crescere sentendosi indipendente».
C’è l’Italia nel destino del Maestro, che nel 1994 si accasa al Cagliari. Per la stampa italiana, da sempre alla ricerca di personaggi, Tabárez è un animale strano, difficile da comprendere eppure estremamente affascinante. Finisce subito nel mirino dei colleghi, con Cellino accusato di aver scelto un tecnico straniero invece di aver puntato sui tanti disoccupati italiani. «Non mi interessa cosa pensano gli altri, ho preso Tabárez perché mi ispira fiducia e sono sicuro che farà divertire i tifosi», tuona il patron. Il Maestro voleva l’Europa a tutti i costi. «Dopo aver vinto il titolo con il Boca ho ricevuto moltissime richieste dal Sud America ma le ho rifiutate perché mi ero messo in testa di venire in Europa. Sono stato fermo un anno, a dicembre ho conosciuto Cellino in spiaggia. Abbiamo parlato tanto di calcio e oggi il mio sogno finalmente si avvera».
Regala pillole di filosofia durante interviste che lo vedono costretto a parlare del più e del meno, della sua idea di calcio più che di quella di vita. «Non avrò nessun problema con i calciatori. Non esistono due uomini uguali, ma i calciatori sono simili in tutti i paesi. L’italiano che ammiro di più è Baresi, perché è un simbolo, un leader umile e sobrio, che ha dato un’immagine diversa al suo ruolo». Rimane due stagioni, lasciando sempre il Cagliari a metà classifica. Nelle conferenze stampa cita Vargas Llosa e Galeano, dà risposte spiazzanti a giornalisti che vogliono soltanto sapere se Firicano è o meno un difensore da grande squadra. «Il giocatore ideale non esiste, perché l’ideale è l’opposto della realtà. E un allenatore deve saper guidare la realtà».
Mette in campo un modulo particolare, con la difesa a 5, due uomini in mezzo al campo e tre giocatori offensivi, due dei quali chiamati a un grande sforzo sulle corsie. «Quando facciamo buoni risultati mi dite che siamo una squadra d’attacco, ma non è vero. Il calcio è attacco e difesa, e difendere non è una mala parola. Molti dicono di giocare all’attacco solo per farsi un’immagine, ma difendersi è un’arte, se lo si fa senza cattiveria». Nel calcio, come nella vita, ama i rivoluzionari. «I migliori non sono per forza quelli che vincono, ma anche quelli che fanno una cosa per primi. Come Sacchi con il suo Milan, un punto ineludibile nella storia del calcio italiano». La sera si rilassa nella villa sul mare fuori città, con Silvia e le quattro figlie, sempre al suo fianco. Parla dei sardi che soffrono e degli extracomunitari in crisi. «Ho votato progressista e credo che il Sessantotto sia stato importante perché in ogni società serve uno spirito critico contro la sclerotizzazione delle istituzioni, altrimenti si cade nella dittatura, come in Uruguay nel 1973. Sto sempre con chi difende la gente che soffre, quelli senza casa e senza lavoro. Qui a Cagliari vedo tanti extracomunitari soli, pieni di freddo, disperati. È triste».
Il suo biennio non passa inosservato e viene scelto da un Milan forse troppo grande per la sua figura. Così grande che è destinato a implodere, e chi tornerà in rossonero nell’anno e mezzo successivo non riuscirà a fare di meglio: prima Sacchi, poi Capello. Una delle sue prime dichiarazioni fa capire immediatamente l’aria che tira: «Sto aprendo occhi e orecchie, ma cerco di chiudere la bocca. Capello ha fatto meraviglie, sarà dura fare meglio. Non voglio stravolgere nulla, in fondo non è un peccato imitare le cose buone del passato. Ora tocca a me e so già che vincere qui è più importante di tutto quello che ho fatto finora». Berlusconi non si presenta al raduno ma affida una lettera al Maestro, in cui delinea i punti chiave del Milan che verrà. Il contenuto viene svelato a inizio agosto, è un decalogo con i principi che il tecnico deve rispettare e far rispettare.
Ogni anello, perfino il più debole, deve essere coinvolto nel risultato finale, compreso il barman di Milanello che non deve servire bevande ghiacciate perché sa di compiere una missione utile all’organico.
Tutti devono difendere l’immagine del club.
Con i giocatori dovrà mostrarsi fermo e risoluto.
Dovrà comunicare tempestivamente ogni sua decisione.
Oltre alla sostanza, è importante la forma.
La salute psicofisica dei giocatori è patrimonio della società e richiede la massima cura da parte del tecnico.
Va stimolata la collaborazione dei giocatori nella valutazione di determinate situazioni tattiche.
I campionati e le coppe si vincono in allenamento.
Bisogna mantenere alto l’impegno dei giocatori e tenere con i mass media rapporti con grande attenzione, occorre massima cautela per evitare deformazioni anche strumentali.
La società è garante del rapporto società-squadra-tifosi.
È una storia d’amore che non può durare. Non dura. Perde la Supercoppa nella notte di Batistuta e dell’immortale «Te amo Irina!», regge undici giornate di campionato. L’utopia del Maestro, che a Cagliari era stato ribattezzato il Filosofo, forse nel ricordo di Manlio Scopigno, viene cancellata a Piacenza dalla brutalità della rovesciata di Pasquale Luiso, uno umano, troppo umano. È il passo d’addio, con lo striscione Tabárez, no gracias dei tifosi milanisti. Sente il fiato di Sacchi sul collo e anticipa di qualche ora i dirigenti. «Ho deciso di dare le dimissioni e sono state accettate.
Quando una squadra esprime un calcio surrealista come nel primo tempo di Piacenza bisogna cambiare. Davo per scontate certe cose e mi ci sono appoggiato come un punto di forza, invece quelle cose non c’erano più e non sono riuscito a cambiarle, a sistemarle. Per quanto sia molto autocritico, credo che sarebbe stato difficile per chiunque fare bene in questa situazione. Insomma, non considero che il mio arrivo sia stata la causa di tutti i guai del Milan». Riparte dall’Oviedo, poi torna al Cagliari. Quindi Velez e Boca Juniors. Resta fermo quattro anni e riceve la chiamata della Celeste. Il Maestro deve rimettere le cose a posto, ancora una volta.
El Proceso
L’Uruguay, dopo l’addio di Tabárez, ha saltato i Mondiali 1994, 1998 e 2006, rimediando una triste eliminazione ai gironi nel 2002. Come nel gennaio del 1980, il Maestro prende carta e penna e inizia a scrivere. Con lui c’è lo staff di sempre. El Profe Herrera, Celso Otero, Mario Rebollo. Ne esce un documento che cambia la storia del calcio uruguaiano. Si intitola Institucionalización de los procesos de las selecciones nacionales y de la formación de sus futbolistas.
Parte da un concetto semplice: l’Uruguay, per quella che è la sua condizione demografica e di economia calcistica, rispetto alle altre nazionali sudamericane è più soggetto a vedere emigrare presto in Europa o in altri paesi del Sud America i suoi calciatori. Il livello del campionato uruguaiano non è così alto da essere allenante, tantomeno quello delle giovanili. Il documento, che viene ribattezzato Proceso Tabárez, prevede la rivoluzione delle squadre nazionali uruguaiane, a partire dall’Under-15, e punta forte sulla formazione dei giovani a livello umano prima che sportivo. «Abbiamo dovuto vedere quello che avevamo e quello che non avevamo. Il calciatore dell’Uruguay ha le sue fondamenta in un bambino che sogna di giocare in nazionale. Dobbiamo cavalcare questo sogno. Diego Lugano, prima di andare in Sudafrica per il Mondiale, ha detto: “Io vado per diventare campione del mondo. Se era quello che sognavo da bambino, perché dovrei smettere di farlo ora che ho la possibilità di giocare in Coppa del Mondo?”. L’ho sempre trovato un ragionamento fantastico. Non è una questione di vanità, ma di rispetto per la storia personale di ognuno».
Sotto la guida del Maestro, l’Uruguay torna al Mondiale nel 2010, e lo fa stupendo il mondo, cadendo soltanto in semifinale contro l’Olanda, senza gli squalificati Suarez e Lugano. Quando torna in patria con la squadra viene accolto come un eroe. Parla alla folla accorsa in piazza a Montevideo e al presidente Mujica, in un discorso che ha fatto la storia. «Siamo sorpresi, stupiti, colpiti, emozionati. Ma soprattutto grati, molto grati. Questi ragazzi meritavano un riconoscimento, ma tutto questo ha superato la nostra immaginazione. Non ci sono parole per descrivere quello a cui stiamo assistendo oggi. È più che giusto festeggiare le partite vinte, i trionfi, ma voi avete dimostrato anche un'altra cosa, ed è questo il messaggio che vorrei far passare: non sono solo i risultati a dare valore a ciò che facciamo. Il successo non è rappresentato soltanto dalla vittoria, ma anche dalle difficoltà che si incontrano per ottenerla e la lotta di tutti i giorni, dallo spirito che serve per porsi nuove sfide e poterle superare. Il cammino è la ricompensa. Grazie, grazie, grazie. Uruguay nomás!».
Un anno più tardi, l’Uruguay si presenta alla Coppa America che si tiene in Argentina. Dopo un girone sornione, con due pareggi e una vittoria, il tabellone prevede proprio il derby del Rio de la Plata ai quarti di finale. Rispetto alla Celeste che stiamo vedendo a Russia 2018, è una squadra basata su concetti diversi. L’esperienza in Italia ha fatto capire al Maestro che ci sono tanti tipi di calcio, non un’unica via per il successo. «Spesso si parte da un assunto errato, che il possesso del pallone porti a un maggior numero di occasioni da gol. Ho imparato in Italia, dove il possesso palla non è santificato come in altri paesi, che puoi far male agli avversari anche senza avere il controllo della sfera».
Quell’Uruguay ha una mediana a dir poco ruvida, con due esterni più di lotta che di governo come el Tata Gonzalez e Alvaro Pereira e l’accoppiata Arevalo Rios-Perez al centro. È proprio el Ruso a portare avanti i suoi prima del pareggio di Higuain. Il leader, el Jefe di quella squadra, è Diego Lugano. Tabárez ha la sua idea di trascinatore: «Il leader è una persona che usa le sue capacità per raggiungere gli obiettivi fissati. Se queste capacità, che influiscono sul resto della squdra, hanno come fine il suo beneficio e non quello della squadra, non parliamo di un leader, ma di un capobanda, un capetto. Quando giochi in nazionale, rappresenti il tuo paese e devi vincere. Tu come allenatore puoi dare la tua proposta, ma hai bisogno che i giocatori la facciano loro. Alcuni hanno più carisma e sono più portati a trascinare gli altri, e saranno loro a farsi carico di trasmettere la tua proposta al resto del gruppo, a dare importanza ai più piccoli dettagli, soprattutto quando non c’è lo staff. La differenza tra leader e capetto è questa. Per nostra fortuna, l’Uruguay non ha dei capetti, ma ha tanti leader».
Quell’Uruguay è un gruppo unito, che si cementa ancora di più quando Perez viene espulso a fine primo tempo. Nel finale arriva il rosso anche per Mascherano, e dopo i supplementari si va ai rigori. Basta la parata di Muslera su Tevez per gettare nello sconforto l’intera Argentina, mentre l’Uruguay sfrutta l’eliminazione del Brasile nell’altro lato del tabellone per arrivare in finale e alzare al cielo di Buenos Aires la sua quindicesima Coppa America. Un numero spaventoso per un paese di 3 milioni e mezzo scarsi di abitanti.
Suarez-Forlan-Forlan per la quindicesima Coppa America.
Nel decennale del suo secondo incarico con la Celeste, il Maestro ha iniziato a convivere con la malattia. La affronta con l’approccio esistenzialista che ha contraddistinto la sua vita. «La malattia è cronica, a volte ha delle oscillazioni. La affronto con la fisioterapia, insieme ai medici e ai loro trattamenti. Se mai dovessi avere il sentore che i ragazzi non mi seguono più in campo, deciderò di lasciare la panchina. Finora, però, non è successo. Non convivo con il dolore, la neuropatia mi causa soltanto problemi motori. Ora utilizzo un bastone ma quando sto meglio riesco a non usarne nessuno». Deve centellinare gli sforzi in panchina, demandando ai suoi collaboratori di sempre anche le esultanze. Ha radunato ogni energia del proprio corpo per scattare in piedi sul gol di Gimenez all’Egitto, rete fondamentale per iniziare il Mondiale al meglio in una sfida tiratissima, risolta all’ultimo respiro. Non si è potuto trattenere quando ha visto Cavani chiudere quel meraviglioso triangolo disegnato con Suarez contro il Portogallo, tra terra e cielo, sullo sfondo verde dello stadio di Sochi. Ha dimenticato tutto, si è alzato in piedi premendo i pugni sulla panchina, ignorando la stampella. E ha urlato Uruguay nomás! come sempre, quasi fosse la spinta aggiuntiva di cui aveva bisogno per riuscire in un gesto scontato per una persona qualsiasi eppure, nel suo caso, così forte e sofferto da far emergere tutta la sua voglia di vita.
All’interno di El camino es la recompensa, dal quale sono tratti molti dei virgolettati riportati sin qui, Horacio Lopez chiede al Maestro se accettare la morte è fondamentale per capire la vita. «Questo è un tema che torna sempre. “Oddio, sto per morire? Ma mi restano x anni di vita per la statistica!”. E allora? Cosa intendi fare? Vuoi morire subito, continuare a lamentarti finché non accadrà oppure fare qualcosa nel frattempo? Magari qualcosa che permetta agli altri di ricordarti quando non ci sarai. Ci sono tantissime domande che ti impongono di fermarti a riflettere, e mai riuscirai ad avere delle risposte definitive. Ma è tutto questo che ti fa camminare verso il traguardo che ti sei fissato».
Soltanto Tabárez sa dove ha fissato il suo punto di approdo. Forse si sposta costantemente in avanti, come l’orizzonte, come l’utopia. Nel dubbio, il Maestro va avanti, con lo sguardo fiero di chi vive ogni secondo della propria vita a testa alta. Il cammino è la ricompensa