
Da quando è stato acquistato dal Barcellona per 105 milioni di euro, nell’ormai lontano 2017, Ousmane Dembélé è stato soprattutto un’idea. L’idea dell’attaccante perfetto, del prototipo più avanzato di un giocatore di calcio negli anni venti del 2000. Longilineo e veloce, portava palla sulla fascia e sapeva dribblare, calciare, fare assist. E lo faceva con entrambi i piedi. La storia del calcio aveva esibito altri grandi ambidestri, ma nessun ambidestro prometteva di essere così forte. Saper fare tutto alla stessa velocità e con la stessa precisione su entrambi i lati del campo significa avere un giocatore raddoppiato, le cui possibilità sono quasi infinite. Intervistato dalla televisione, a 19 anni, non sapeva rispondere se fosse destro o mancino: «Mancino»; «E allora perché hai tirato il rigore con il destro?»; «Mh».
Per descrivere l’hype che circondava Dembelé poco meno di dieci anni fa, bastano due fatti: i 105 milioni sborsati dal Barcellona per prenderlo dal Borussia Dortmund ci parevano tutto sommato ragionevoli. O almeno relativamente ai prezzi che circolavano all’epoca. L’altro è che Dembélé fu preso per sostituire Neymar, e ci sembrava una buona idea - con un po’ di pigrizia lui era definito “il Neymar francese”.
E invece Dembélé ha attraversato queste 8 stagioni di calcio europeo come una presenza ambigua e strampalata. Un giocatore fumoso, un meme, un tipo buffo, non certo un fenomeno. E oggi viene quasi da ridere a pensare che segni quasi ogni partita; che per la prima volta in carriera, Ousmane Dembélé ha un rendimento all’altezza di ciò che ci si è sempre atteso da lui. Ha segnato già 26 gol stagionali col Paris Saint Germain, e servito 6 assist. La maggioranza di questi gol sono arrivati nelle ultime settimane. Dal 15 dicembre si è sbloccato una specie di chakra di Ousmane Dembélé, “declic” dicono i francesi. Da quel giorno ha segnato 19 di queste 26 reti ed è incredibilmente in corsa per la Scarpa d’oro europea.
Questa immagine di Dembélé come giocatore decisivo delle notti di Champions stona con quella di Dembélé buffo, infantile, inconcludente. A vederlo oggi tornano in mente i gol sbagliati in modo ridicolo, le interviste stralunate, tutti quegli aneddoti che hanno contribuito a definirlo come una delle figure comiche del calcio europeo. Allora possono crescere davvero tutti, ci viene da pensare. Tutti i cazzoni di questo mondo possono diventare dei seri uomini in carriera, darsi una regolata, mettere insieme i pezzi della propria vita. Lavorare 9-17, mangiare bilanciato, correre a ora di pranzo, mangiare uova sode intere, mettersi le sveglie sull’iPhone per ricordarsi di meditare. Abbracciare quegli stili di vita, insomma, promossi da certi tiktoker che conducono la routine degli operai di Metropolis.
Probabilmente Dembélé non ha avuto questa conversione esistenziale, ma qualcosa deve essere successo.
Potevamo intuire che le cose potessero non andare come sperato, per lui. Prima di lasciare il Borussia Dortmund, ormai in rotta con la società, Dembélé ha ridotto casa sua a una discarica, provocando 20mila euro di danni. La casa, peraltro, era di proprietà di Klopp - che, fatto curioso, ha provato a prenderlo al Liverpool a un certo punto.
Alla presentazione col Barcellona non è riuscito a mettere insieme una prova di palleggi incoraggiante. Nell’occasione non sembra, semplicemente, un giocatore del Barcellona, figuriamoci uno che gioca in attacco e che costa oltre 100 milioni. I giocatori così dovrebbero far girare attorno a sé il pallone come se avessero un’orbita, e invece Dembélé è impacciato e un po’ patetico. Palleggia senza naturalezza, la palla fra i suoi piedi pare pesante e capricciosa, gli cade davanti, cerca di rimediare con un numero di tacco ma non gli riesce. Siamo in imbarazzo per lui, che invece sorride, un po’ nervoso e un po’ auto-ironico.
A un certo punto il Barcellona non sapeva più che fare con lui. Diceva di avere il mal di pancia, così il club gli ha mandato il medico in stanza. Quello entra e trova una grotta di maschi adolescenti. Sono le quattro del pomeriggio ma la stanza è avvolta dall’oscurità, patatine a terra, letti disfatti, Dembélé coi suoi amici che gioca un torneo di FIFA. Ai calciatori professionisti chiediamo di mettere tra parentesi la propria gioventù, di essere estremamente seri e professionali in una fase della vita in cui magari si è semplicemente dei cazzoni. Dembélé è stato fra i primi a sabotare il luogo comune di talento sprecato+bad boy. Non si rovinava la carriera per feste, donne, macchine veloci, ma con Playstation, junk food, Football Manager, cazzate fatte in casa con amici che assecondavano la sua vita adolescenziale. Un cambio di paradigma verso cui non sapevamo bene come comportarci. Il Barcellona a un certo punto gli ha messo dietro un cuoco personale perché, stando alle loro definizioni, la sua dieta era “uno schifo”. In conferenza chiedevano ai compagni cosa ne pensavano e quelli non sapevano che dire. «Dovrebbe essere più responsabile», ha detto a un certo punto un esausto Luis Suarez.
Era pure difficile farci i titoli di giornale. È molto più facile riempire le pagine con le serate in discoteca e le risse da ubriaco, invece Dembélé, semplicemente, amava i videogiochi e si alzava troppo tardi. “Uno sdraiato”, lo definirebbe il cardinale dei boomer Michele Serra, uno che non c’ha voglia di fare niente. Quella generazione che i boomer, appunto, inquadrano come viziata, pigra, vagamente depressa; ragazzini verso cui provare un po’ di vergogna, che buttano via le loro possibilità senza nemmeno dare l’impressione di divertirsi. Irrealizzati non per eccesso di vita ma al contrario per una sorta di apatia indefinibile, incomprensibile, da cui comunque tenersi lontani.
Dembélé che fa le interviste con la giacca sociale, ma sotto è in ciabatte. Dembélé che non sa che il Giappone ha eliminato la Germania. Dembélé che è sempre messo in mezzo dai compagni.
La sua personalità, insomma, sembra un grosso limite. Dembélé non è mai sembrato il più sveglio della compagnia, e di certo non il più determinato a diventare “la migliore versione di se stesso”. Nei video che vengono rubati negli allenamenti del Barcellona o della Francia Dembélé sembra un cazzone, privo della ferocia competitiva che serve per eccellere nello sport ad alti livelli. O almeno questo è quello che pensiamo.
A dire il vero non so cosa pensare: cosa è mancato a Dembélé per diventare in questi anni ciò che prometteva di essere? Quel che so per certo è che l’hype ai tempi del Borussia Dortmund non era eccessivo. Ho provato a riguardare le sue partite del 2017, partite intere, fatte da tutti i tocchi, e si ha l’impressione di trovarsi davanti a un talento mai visto, soprattutto nella forma. La sua ambidestria è assoluta. Non si tratta solo di calciare con entrambi i piedi, anzi: è chiaro che col sinistro Dembélé non trova grande potenza. Colpisce più che altro la sua meccanica, il modo in cui conduce sempre sulla bisettrice della palla, blocca e ruota anca, caviglia, ginocchia, modifica le inclinazioni del busto. La sua intelligenza motoria non sembra umana, Dembélé sembra fatto in laboratorio.
Magari a forza di giocare a FIFA ha assorbito sul proprio corpo questa meccanica quasi artificiale. C’è una certa freddezza, in effetti, a vedere Dembélé muoversi. L’evoluzione dei giocatori offensivi si è spinta su un territorio in cui non è rimasto un briciolo di sensualità nei movimenti, di peculiarità. Un’inclinazione del piede, un modo di calciare, qualche tic. Il talento di Dembélé sembra profondamente innato, naturale, eppure in qualche modo inorganico, generato da una macchina. Questo però dice soprattutto del suo livello di perfezione tecnica. Thomas Tuchel ha detto che Neymar è stato il giocatore più talentuoso che lui abbia mai allenato, ma che Ousmane Dembélé è più o meno lì. Lo descrive come un fenomeno paranormale: «Uno dei talenti naturali più folli che mi sia capitato di vedere. Calciava le punizioni col sinistro, gli angoli col sinistro, e poi dal lato opposto faceva lo stesso col destro. Dribblava, tirava in corsa!». Ha però anche aggiunto che a 18 anni il tuo sviluppo non può essere definito.
Il modo di fintare il tiro col destro e calciare col sinistro a rientrare era ai limiti dell’indifendibile. Dembélé giocava con una mano truccata. Era il prototipo meglio riuscito delle tante alette veloci e dribblomani che la Ligue 1 produce da qualche anno su scala industriale.
Il problema di avere un talento simile è che gli altri si aspettano da te cose impossibili. Già nel suo unico anno al Borussia Dortmund era stato un tantino inconcludente. Certo, 10 gol a 19 anni al primo anno all’estero erano tutt’altro che pochi, e Dembélé ci aveva messo un carico mostruoso di 12 assist. Eppure è sempre troppo poco quello che riesce a combinare Dembélé, rispetto a quello che dovrebbe, pensiamo.
Dembélé stesso, forse, credeva che le cose gli sarebbero riuscite facili, e che con quel talento non avrebbe avuto bisogno di impegnarsi. O anche solo di prenderla seriamente. Invece sono arrivati gli infortuni, e Dembélé ha scoperto che le cose potevano essere terribilmente difficili. Non gli bastava portare palla sulla fascia, andare più veloce di tutti, calciare all’incrocio dei pali. Quella era, appunto, una versione ideale di sé stesso, che esisteva solo per brevissimi intervalli di tempo. Poi c’è quella reale, in cui Dembélé scivola tirando i calci d’angolo, salta tutti i difensori e poi calcia quattordici metri sopra la traversa; arriva sul fondo e si tira addosso. Liscia il pallone, cade, Buster Keaton del calcio mondiale.
Al Barcellona gioca un’annata male e una bene, e quando gioca bene comunque non è abbastanza. Si guadagna il soprannome di “mosquito” perché è così magro e leggero da sembrare senza peso. Si infila tra le difese senza che quelle possano davvero accorgersene, passando per vicoli così piccoli da essere invisibili. Col tempo però questo soprannome assume un significato leggermente diverso, meno lusinghiero. Dembélé è fastidioso e inutile come una zanzara, appunto. Quel giocatore meccanicamente perfetto, quel prodigio di tecnica, arriva a incartarsi in modo comico, spesso nei momenti chiave. Porta palla e sembra poter fare chissà cosa, e invece non combina mai niente. Ogni azione, come un globo di neve, diventa la rappresentazione della sua carriera.
Alcuni suoi errori sono semplicemente pazzeschi, e internet fa di tutto per incorniciarli. Gli errori di Dembélé con sotto la musica del Titanic sono un genere a parte, nel vasto discorso ironico di internet. Il suo errore storico arriva nel 2019, quando sbaglia nel modo che vedete sotto il gol all'ultimo minuto che avrebbe eliminato il Liverpool e mandato il Barcellona in finale di Champions League.
Il catalogo, comunque, è corposo. C’è questo errore contro l’Eibar, questo tiro tutto a soqquadro contro il Nizza. Certe sue conclusioni escono fuori di una ventina di metri, calciati verso porte immaginarie. Dopo quell’errore contro il Liverpool per i tifosi del Barcellona Dembélé è morto. Quando arriva Xavi, però, lo indica come uno dei giocatori più importanti della squadra, e fa qualcosa che nessuno aveva mai fatto: lo responsabilizza, lo tratta da adulto.
E come risponde Dembélé? Raggiungendo la sua più pura essenza calcistica: un giocatore che tocca un numero infinito di palloni, ma senza sapere bene cosa farci. Il calciatore più fumoso della storia del calcio. A un certo punto le partite col Barcellona diventano interessanti solo per vedere Dembélé impiccarsi sulla fascia destra, alla ricerca dell’azione più fumosa possibile, il suo capolavoro finale di inconsistenza. Dribbling su dribbling su dribbling per poi andare in panne, vivere un blackout del sistema nervoso centrale.
Non è difficile capire perché Xavi amasse Ousmane Dembélé. Nel suo 4-3-3 sovietico poteva metterlo largo sulla fascia, coi piedi sulla riga laterale, e gli permetteva di puntare l’uomo continuamente, convergere verso il centro, andare sul fondo. Fare tutto lui, insomma. Il risultato è stato un volume di gioco mastodontico, soprattutto sul piano delle conduzioni palla, dei cross tentati, degli xA. Nei momenti peggiori, il Barcellona sembrava un grosso esperimento tecnico fatto sulla pelle di Dembélé. La seconda parte della stagione 2021/22, quella in cui Xavi sembrava aver trovato la chiave per allenare il Barça, sono stati i suoi migliori. Quell’anno ha messo insieme 11 assist, di cui 8 su cross.
Dembélé è diventato un esterno un po’ meccanico, sempre sul punto di combinare un pasticcio. Un’impressione amplificata dal fatto che gli piace assumersi responsabilità. Nonostante l’aria svampita, Dembélé non è uno che si nasconde. Nei momenti caldi delle partite vuole la palla, prova giocate, si assume responsabilità, e questo finisce spesso per ritorciglisi contro. «Vuole sempre la palla, non è mai spaventato di provare cose ed esporsi alle critiche», ha detto Luis Enrique di recente. E questo è un pregio e un difetto, a seconda della giornata. Fatto sta che Dembélé produce sempre drammaticamente poco.
È un problema di scelte? È un problema di intensità mentale o di tattica individuale, di letture?
Di sicuro negli anni passati sull’esterno dei 4-3-3 rigidamente posizionali il cervello calcistico di Ousmane Dembélé non è stato molto stimolato. È rimasto più o meno lo stesso giocatore di prima, solo un po’ meno veloce, almeno in spazi stretti, e sicuro di sé. Con una capacità di concentrarsi sempre un po’ ballerina. Non possiamo sapere se perde contatto mentale con l’azione, o se invece si blocca per paura e insicurezza, quando sbaglia quei tiri grossolani, o sbava assist semplici di un metro. Uno dei miei video preferiti è quello in cui Dembélé corre davanti a sé col cervello spento, mentre la palla gli passa accanto.
Interrogato in una di queste interviste-content che riempiono l’algoritmo, Dembélé si è praticamente auto-definito più lento, talvolta «molto più lento», dei giocatori più veloci al mondo. Cioè l’intervistatore è andato lì a intervistarlo in qualità di velocista, gli ha chiesto se era più veloce lui o Mbappé o Walker, e a Dembélé veniva da ridere. Eppure è stato più volte riconosciuto come uno dei più veloci giocatori al mondo. In un articolo di Marca del 2023 si scrive che sia il quinto giocatore più veloce al mondo. Chi mente?
A quanto pare Dembélé un giorno si è presentato alla dirigenza del Barcellona con dei fogli in mano: «Ho un’offerta del PSG che non posso rifiutare», quelli, giustamente, gli hanno chiesto «Perché?» e allora lui ha risposto «Non lo so». Classic Dembélé. Xavi si è detto deluso, «Avevamo grandi progetti per lui» (tipo?). Qualche mese dopo il tecnico ha detto che quel trasferimento gli ha lasciato l’amaro in bocca. Eppure nel ruolo di Dembélé ha trovato Lamine Yamal, e cioè un genio del calcio.
Dembélé è diventato uno dei volti del nuovo progetto del PSG, fatto di giocatori giovani e francesi. Certo, lui ci arrivava già consumato, con un hype già in fase discendente da qualche anno, nonostante i 50 milioni sborsati dal club per prenderlo. Lo ha voluto Luis Enrique, perché è un giocatore che conosce e perché un altro patito del 4-3-3 non può che amare Dembélé.
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Dembélé si è fatto crescere baffi e pizzetto che gli donano un’aria più matura. Dentro resta un cazzone, ma un cazzone un po’ più serio, amato dai compagni, che gioca per la squadra. Un cazzone che dice comunque di andare a votare contro il Rassemblement National; e che ora invece di giocare alla play guarda i documentari: «I documentari sui dittatori, tipo Mobutu, oppure quello tedesco, come si chiama».
Il tipo del video dice «Ma perché è così?!».
Nel 2021 si è sposato con l’influencer marocchina Rima Edbouche. È molto religiosa e molto seguita nel mondo social musulmano; qualche anno fa ha lanciato un proprio brand di moda islamica. La loro relazione è rimasta segreta fino al giorno del matrimonio, celebrato in Marocco. A quanto pare nemmeno i compagni di squadra di Dembélé erano a conoscenza della relazione. Con il premio della Coppa del Mondo vinta nel 2018 Dembélé ha costruito una moschea nel paese di nascita di sua madre, in Mauritania.
Questo non per suggerire che ci sia l’aiuto di Allah nelle prestazioni recenti di Dembélé, ma per mostrare un lato decisamente più serio e meno conosciuto, di questo personaggio spesso descritto solo in modo arlecchinesco.
Lo scorso anno Dembélé aveva giocato una buona stagione al PSG, ma sempre gravata dai suoi limiti. Per quanto tutte le metriche statistiche indicassero Dembélé come uno migliori giocatori della Ligue 1, nelle partite decisive riusciva sempre a rimanere impresso nella memoria collettiva per i motivi sbagliati. Nel doppio confronto contro il Borussia Dortmund, e cioè nell’annuale eliminazione del PSG dalla Champions, Dembélé ha sbagliato alcuni gol notevoli.
Cosa è cambiato, per arrivare a questo momento surreale che stiamo vivendo, in cui Dembélé segna un gol a partita?
Quest’anno in Ligue 1 ha uno score perfetto: 8 gol di destro, 8 di sinistro, 2 di testa. L’arrivo di Kvicha Kvaratskhelia sembrava aprire lo scenario di un suo accantonamento, e invece Luis Enrique ha spostato Dembélé centravanti. Non è stato il primo a provarci. Koeman per esempio lo aveva schierato da punta centrale in una partita di Champions contro il PSG. Il risultato è stato un Dembélé potenziato, in una partita piena di tocchi sbagliati per pochi centimetri, movimenti confusi e un’intensità mentale davvero troppo scarsa per giocare in un ruolo in cui devi sempre essere svelto a mettere la gamba davanti a quella del difensore.
Sarebbe erroneo dire che Dembélé gioca centravanti nel PSG, al massimo si può dire che ne sia il principale finalizzatore. Se guardiamo i suoi movimenti e le sue zone di ricezione, sono ancora piuttosto defilate. Certo, non gioca con i piedi sulla riga laterale come ai tempi del Barcellona, ma non dobbiamo nemmeno pensare a qualcuno che si mette a cucire il gioco sulla trequarti centrale. La differenza è che partendo lui da lì, quella zona centrale e avanzata si svuota: è pensata per lui, ma ci deve arrivare in corsa. Senza palla in transizione, o associandosi con i compagni nello stretto. Dembélé si defila soprattutto a destra, dove il PSG crea il suo lato forte, con Barcola, Doué, Hakimi.
Grafiche di Hudl Statsbomb.
All’interno di una squadra piena di divora-palloni, Dembélé ha imparato a giocare a meno tocchi e a muoversi meglio in funzione dei compagni. Non è diventato il contrario di quello che era, ma è un giocatore incredibilmente più asciutto e pulito anche solo rispetto a qualche mese fa. Da vedere in questo senso il primo dei suoi due gol al Monaco, nato con un’associazione di grande rapidità mentale con i compagni.
Ovviamente Dembélé resta una minaccia in conduzione. Luis Enrique l’anno scorso lo ha definito «il miglior giocatore al mondo a disordinare le difese». Forse un tantino esagerato, ma siamo lì. Oggi però impressiona soprattutto la sua capacità di smarcarsi in relazione alle corse palla al piede di Barcola, Doué, Kvara, tutti grandi portatori che lo hanno liberato di un po’ di responsabilità. Ora Dembélé sembra arrivare più lucido negli ultimi metri, costretto a meno volume di gioco, a meno conduzioni e progressioni, e quindi è anche più preciso. Il suo 24% di conversione è piuttosto incredibile, per uno dei gran visir della fumosità europea; ma è una percentuale che lo avvicina, come in un racconto circolare, alla percentuale che aveva a inizio carriera col Borussia Dortmund, quando eravamo "Innamorati di Ousmane Dembélé”.
La sua ambidestria negli ultimi metri ora è diventata un problema difficile da arginare per le difese, considerato anche quanto le qualità degli altri giocatori del PSG aprano spazi e calamitino attenzioni.
Non è tanto quindi una questione di ruolo ma di compiti che Dembélé deve svolgere in campo. Non è la posizione che occupa ma le cose che fa, e com’è cambiata la rete di relazioni tecniche attorno a sé. In tutto questo, però, ci deve essere anche una svolta mentale. Appena prima di sbocciare, a metà dicembre, Dembélé è stato messo fuori squadra da Luis Enrique per scarso impegno in allenamento; «Non sono suo padre», aveva detto Luis Enrique, «Non è mio padre» aveva confermato il giocatore. Poi è tornato titolare con il Lione, ha segnato e non si è più fermato. Non si può credere che quella punizione sia stata un’epifania, ma qualcosa deve essere scattato in Dembélé. Anche Mbappé, che lo conosce bene, ha detto che «si è sbloccato mentalmente. È più rilassato davanti alla porta».
L’addio di Mbappé probabilmente lo ha anche responsabilizzato: per la prima volta in carriera è lui l’anziano del gruppo, in una squadra fatta di giovani simili a quello che era stato lui qualche anno fa. È cambiato lo stato mentale con cui Dembélé gioca le sue partite. Sembra uscito da quell’impiastro di pigrizia e confusione con cui giocava, sempre in bilico tra gloria e tragedia, a ogni tiro verso la porta. Oggi è rilassato e affilato, prende decisioni velocemente e non c’è mai quel momento in cui il suo cervello sembra andare in panne.
Ce lo dimentichiamo in fretta per i giocatori che stanno in giro da molto tempo, ma gli esseri umani crescono e migliorano.
Dove inseriremmo, oggi, Ousmane Dembélé, nel discorso tra i migliori giocatori al mondo? Non è una domanda leziosa, ve lo assicuro.