Alcuni dei talenti calcistici che amiamo di più contengono una vena di fragilità intrinseca. Giocatori dalla corporatura leggera come la loro corsa, che sembrano potersi spezzare ad ogni contrasto. Giocatori che attraverso la tecnica arrivano a pensare un calcio differente, fatto di gesti unici che nascono e muoiono nell’istante in cui li fanno.
Giocatori che riportano in campo la creatività del calcio di strada piegandola alle regole del gioco, senza privarsi della possibilità di stupire prima di tutto sé stessi. Sono giocatori che promettono sempre qualcosa di nuovo.
Il mio preferito tra questi è stato Pablo Aimar.
Ho scoperto il suo talento nel momento in cui ho iniziato a guardare il calcio. Le sue azioni mi ricordavano ogni volta perché era un gioco che valeva la pena guardare e non solo giocare.
Jorge Valdano per descrivere il talento di Pablo Aimar diceva: «rende facili le cose difficili». Ha avuto la sfortuna di giocare nel post-Maradona e di avere quindi il suo talento incasellato in una via che non era la sua, quella dell’ennesimo “Nuovo Diego”. Una via che comunque lui non ha mai cercato di percorrere. Aimar ha dedicato la sua carriera a due grandi motivazioni: divertirsi e rendere felice chi lo vedeva giocare. Un gusto per l’intrattenimento che ha convinto il giornalista Quique Gastañaga a soprannominarlo fin da ragazzo il “payaso”.
Il River del palato fine
Pablo Aimar è figlio del calcio argentino dei campetti, quello dove inizia a giocare come tanti altri ragazzi cresciuti negli anni ’80. Al campetto alterna le partite come semi-pro per la squadra della sua città l’Estudiantes di Río Cuarto, seconda città della provincia di Cordoba, nel centro del paese. A scoprire il suo talento, così lontano dalla capitale, è stato José Pekerman, che nel 1994 è responsabile delle selezioni giovanili argentine e nel bel mezzo di un tour del paese per capire il livello generale degli under 17.
Mentre vede giocare Aimar senza neanche conoscerne il nome, dice ad un altro tecnico delle giovanili che lo aveva accompagnato che quel ragazzino con due gambe che sembrano due paletti sembra fluttuare più che correre, che gli ricorda una piccola gazzella. Poche volte aveva visto un giocatore così giovane avere già un istinto così verticale per il gioco. Aveva i mezzi per provare ad arrivare o mandare il pallone in area di rigore, in pratica ad ogni azione.
Pekerman lo avvicina a fine partita e lo invita a uno stage a Buenos Aires insieme ad altri talenti nazionali. Aimar gli risponde che forse si sta sbagliando, in fondo non è così bravo.
Dopo lo stage, invece, viene convocato in Nazionale nonostante non abbia un club professionistico alle spalle. Gli osservatori del River Plate gli fanno un provino e, ovviamente, rimangono folgorati.
La dirigenza vuole metterlo sotto contratto ma il padre, con un passato da giocatore, rifiuta l’offerta. Ritiene troppo duro il salto dalla provincia alla capitale; dal semiprofessionismo alla squadra più ricca del paese. Aimar ha 14 anni, è gracile, è abituato a giocare più che altro per strada con gli amici. Per Aimar il professionismo è un sogno lontano e temuto: lo rimprovereranno al primo tunnel tentato?
Ci vuole un anno intero e l’intervento di Daniel Passerella, ex leggenda del calcio argentino e in quel momento allenatore del River, per convincerli che avranno un occhio di riguardo per il figlio. Non vogliono snaturarne il calcio e anzi prevedono già a breve la promozione in prima squadra.
Aimar debutterà nel 1996, appena sedicenne, in un River Plate campione di Libertadores. L’insieme dei nomi suona impossibile ora: Enzo Francescoli, Ariel Ortega, Marcelo Gallardo, Matias Almeyda, Santiago Solari, Hernan Crespo. In mezzo a questi campioni o futuri tali tutti riconoscono che il ragazzino ha qualcosa di speciale. Francescoli pensa, per esempio, che è un giocatore unico perché riesce a fare le cose con un secondo di vantaggio sugli altri giocatori in campo.
Ortega dal primo giorno lo ha preso sotto la propria ala: «Ho un bel ricordo del periodo con Ariel: quando mi vennero a cercare alla residenza del River per farmi debuttare in Primera, non avevo ancora neanche gli scarpini da calcio. Arrivato in spogliatoio Ariel ne prese un paio e me li regalò, ancora mi ricordo di quegli scarpini regalati così».
Viene immediatamente adottato nel River del “paladar negro” (palato fine), la visione del calcio voluta dai suoi tifosi fin dagli inizi del ‘900 che spingere la squadra a puntare non soltanto a vincere, ma a farlo con uno stile che premi la tecnica e la fantasia, l’idea di giocare in modo sempre elegante e quindi piacevole per gli occhi.
E Aimar è la personificazione del “paladar negro”. La sua eleganza è innata: non si accontenta mai dell’efficacia del gesto, ne vuole sempre tirare fuori la bellezza. Nel River in cui la carriera di Francescoli è agli sgoccioli, Crespo, Ortega e Gallardo sono pronti a partire per l’Europa, non gli pare vero che un giocatore del genere sia apparso così, come un altro frutto di una terra generosa.
Pekerman lo convoca con l’under 20 per il Mondiale di categoria nel 1997 (poi vinto dall’Argentina). Sono giocatori che formeranno l’ossatura della futura nazionale argentina di inizio 2000 e con cui stringerà una forte amicizia: Walter Samuel, Esteban Cambiasso, Lionel Scaloni, Diego Placente, Leandro Cufré, Leo Franco e soprattutto Juan Román Riquelme. Da poco in prima squadra degli eterni rivali del Boca Juniors e che teoricamente gioca nel suo stesso ruolo sulla trequarti, entrambi sono degli enganche. Invece di entrare in competizione nei giorni del Mondiale sviluppano un amicizia nata dal rispetto reciproco. A unirli il talento immenso, ma soprattutto la concezione profonda del gioco del calcio.
Pekerman fa parte di quella corrente di allenatori argentini che mette la tecnica davanti a tutto. Un seguace di Menotti, che si contrappone a quello dell’equilibrio tattico prima di tutto di Bilardo. Il talento contro la maglia sempre sudata. L’Argentina ha vinto i Mondiali cavalcando entrambe le correnti e forse per questo vive in una tensione continua tra le queste due visioni del calcio.
Per capire quanto fosse influente la visione del calcio di Menotti negli anni ’70 basti pensare che il nome completo di Aimar è Pablo César Aimar Giordano, dove César è stato dato da suo padre in onore proprio a César Luis Menotti che aveva guidato l’Argentina alla vittoria del Mondiale un anno prima della nascita del figlio.
C’è un aneddoto di Valdano che penso renda l’idea del calcio argentino all’epoca in cui la precisione tecnica era idolatrata: «In una delle mie prime partite passai il pallone in modo leggermente impreciso al compagno d’attacco Oberti, veterano molto tecnico e un po’ grassottello, che non si sforzò neanche di raggiungere. La lasciò passare con disprezzo e mi disse “Ragazzo, la palla sui piedi, altrimenti dedicati a un’altra cosa”».
Aimar fa innamorare Menotti, che lo paragona a Michael Laudrup. Lui e Riquelme sono agli occhi di Pekerman i due talenti più vicini a quella visione del calcio e decide che non ci deve essere concorrenza tra i due: devono giocare assieme, uno come numero 10 e l’altro come numero 8. Devono scambiarsi le funzioni di rifinitore e regista a seconda di dove ricevono il pallone.
In quest’azione contro l’Inghilterra c’è Samuel che arriva fino sulla metà campo dopo una palla rubata, la scarica per Aimar che si era avvicinato in aiuto, il 10 protegge palla e la fa filtrare per Riquelme, pronto subito a verticalizzare per l’attaccante.
Aimar non ha ancora i folti ricci, ma indossa già il sorriso di chi si diverte giocando. Si fida del suo istinto, punta sempre l’uomo e sa che la sua tecnica può farlo uscire da qualunque situazione spinosa. Sembra uscito dalle parole di Valdano: «Credo nell’autonomia del piede nel pensare, davanti a una situazione immediata in cui non c’è tempo per consultare il cervello». È il perfetto compagno di chi come Riquelme è detto “il muto”: timido e schivo fuori dal campo e iper cerebrale dentro. Dice Riquelme di Aimar: «Questo corre in modo differente».
Non sappiamo se il calcio nasca dai piedi o dalla testa, questo è il dibattito socratico che ci trasciniamo dalla sua invenzione. I due, però, mettono d’accordo tutti sul fatto che con entrambi si gioca meglio. L’Argentina vince in Malesia, e Aimar e Riquelme finiscono sotto i riflettori, in una cultura alla spasmodica ricerca di un erede di Maradona.
Aimar è un giocatore dinamico, si muove lungo tutto il fronte d’attacco quasi in punta di piedi, sembra sfiorare soltanto il terreno. Le maglie larghe dell’epoca gli donano un’immagine eterea quando controlla al volo.
Le partite di Aimar sono praticamente un esercizio di stile: non c’è un’azione uguale alla precedente e non c’è cosa che non sappia fare con un pallone tra i piedi. La sineddoche di Aimar è la gambeta, una tipo di finta basata sulla precisione e la velocità nei movimenti tipica dei campi di terra in Argentina, tanto famosa lì quanto il doppio passo in quelli brasiliani. Si dice che la gambeta ti apra il mondo, che sia istinto puro e non si può insegnare ma solo imparare da soli giocando a non perdere il pallone sul terreno di gioco sconnesso.
Il calcio da strada lo ha formato e a quello si rifà in campo: il tunnel è il suo gesto preferito, ma è nel primo controllo che fa sbrodolare i commentatori dell’epoca. A tratti sembra quasi cercare sempre l’avversario vicino per poterlo fare superandolo con un solo gesto. Nessuno osa ancora fare il nome di Maradona, con Pablo preferiscono usare Cruyff, meno sacro.
Quando Marcelo Gallardo si trasferisce al Monaco, la numero 10, con tutto quello che significa, si libera. L’allenatore Ramón Díaz chiede a Pablo se se la sente, a 19 anni, di prendersela. Il giocatore la prende come una sfida e accetta: nonostante le offerte dall’Europa che già gli arrivano, prima di lasciare l’Argentina deve affermarsi come stella designata del River. E poi se Riquelme non si è ancora trasferito non può farlo neanche lui.
Con l’altro giovane ragazzo prodigio delle giovanili, Javier Saviola, e con la punta Juan Pablo Ángel, sfida il Boca Juniors di Riquelme, Walter Samuel, Gustavo Schelotto e Martín Palermo in un susseguirsi di testa a testa in campionato. Le due squadre si spartiscono i titoli e portano a un livello storico le sfide dei Superclasicos.
Quando gli chiedono se nel famoso gol di pallonetto contro il Boca nel 1999 voleva metterla al centro risponde che ovviamente non voleva crossare. Dall’altra parte del cross ci sarebbe stato Saviola e nessuno penserebbe di metterla per la testa di Saviola.
Valencia
Nell’estate 2000 ha vinto ormai abbastanza da protagonista per ritenersi pronto per l’Europa. Sovrastato da offerte, sceglie quella del Barcellona. Ma è solo un abboccamento di un candidato alla presidenza, tale Bassat, che perderà le elezioni a favore di Gaspart, che al suo posto prenderà Marc Overmars.
Decide quindi di rimanere fino a fine anno al River. La finale raggiunta in Champions League dal Valencia dell’argentino Héctor Cúper, e le conseguenti cessioni di Gerard, Farinós e Claudio Lopez permettono alla squadra di avere il lustro e i soldi per tentare il colpaccio. Dopo mesi si arriva all’accordo per il trasferimento nel mercato di gennaio per 24 milioni di euro (con il 15% che va al giocatore) assieme a un contratto di 7 anni. Al suo arrivo dice che spera di fare almeno bene quanto Mario Kempes e Claudio Lopez, i due argentini migliori della storia del Valencia e guarda caso anche loro nati nella provincia di Cordoba.
Arriva a gennaio e viene catapultato in un gruppo ancora ossessionato dalla sconfitta in Champions League nell’anno precedente. Una delle migliori squadre della Liga, in un periodo storico in cui c’è molta distribuzione di talento, con 4 grandi: il Real Madrid che ha appena acquistato Figo iniziando l’era dei Galacticos, il Barcellona di Rivaldo, il Deportivo la Coruña di Djalminha e appunto il Valencia di Mendieta.
Ma ci sono anche squadre come il Maiorca, il Celta e il Villarreal che se la giocano se non alla pari quasi. Per un ventenne che ha cambiato vita è un momento complicatissimo. Appena arrivato il Valencia perde tre scontri diretti consecutivi contro Deportivo, Barcellona e Real Madrid; esce dalla corsa al titolo e mette tutte le uova nel paniere del sogno Champions League.
Cúper non ha intenzione di dare il tempo ad Aimar di adattarsi perché lo considera già pronto e il suo debutto arriva col Manchester United nel secondo girone di Champions League. Cúper non utilizza il trequartista, preferendo lasciare quella zona alle incursioni della stella Mendieta; quindi preferisce utilizzare Aimar come seconda punta accanto alla torre Carew. Aimar a malapena conosce i compagni ma fa impazzire tutto il Manchester United che non riesce a leggere dove andrà a ricevere.
L’intuizione di Cúper, insomma, funziona. Le difese inglesi non sono abituate ad affrontare un giocatore così tecnico e sgusciante. E infatti la ripropone anche al ritorno, ai quarti contro l’Arsenal, e nella storica semifinale vinta per 3-0 contro il Leeds in cui fa anche un assist.
Gioca anche il primo tempo della finale, uscendo per Albelda in un cambio di cui poi Cúper si pentirà vista la sconfitta ai rigori senza aver creato quasi nulla nei minuti senza di lui. Una finale che porta all’addio di Cúper in direzione Inter e all’arrivo del giovane Rafa Benitez, il primo allenatore europeo con cui può avere un ritiro precampionato intero per abituarsi al nuovo contesto.
Perdere l’ingenuità
Il nuovo tecnico ha le idee chiare e con la cessione di Mendieta alla Lazio decide che tutto il peso creativo della squadra debba ricadere su Aimar, che sarà il trequartista del suo 4-2-3-1, l’unico con libertà di movimento. Una squadra costruita prima di tutto per non prendere gol, con i centrali argentini Pellegrino e Ayala e la coppia di centrocampisti centrali Albelda e Baraja sempre in linea a pochi metri in avanti. Una squadra che in una Liga di squadre tecniche, sceglie di essere quella difficile da battere, la più aggressiva nei contrasti e attenta all’equilibrio tattico.
Il lavoro di Benitez su Aimar è certosino, gli insegna l’importanza dell’equilibrio tattico, dei movimenti senza palla, del fare cose per la manovra offensiva toccando meno palloni: «Mi ripete sempre che è meglio toccare 1 pallone in area che 6 fuori. Io provo a farmi sempre vedere per dare un’opzione ai miei compagni. Bisogna imparare quando è meglio avvicinarsi per una triangolazione o quando allontanarsi per ricevere vicino all’area».
Lui è un ottimo studente, ma non nasconde una nota amara, perché oltre a sentire tutto il peso creativo capisce che sta giocando un calcio non suo: «Forse devo essere più razionale e anche se mi diverto di meno perché tocco meno palloni, questo può aiutare la manovra della squadra. In Argentina toccavo tantissimi palloni, qua devi abituarti a giocare di prima. Non so dove tornavo a casa più contento dopo le partite, penso in Argentina».
Per mostrare quanto il calcio di Benitez lo abbia influenzato togliendogli parte dell’ingenuità che si portava dietro dall’Argentina, dirà qualche tempo dopo che per lui giocare bene significa prendere le decisioni giuste: «giocare bene equivale a scegliere bene: scegliere quando toccare il pallone, quando provare il dribbling, quando bisogna passarla, quando bisogna tirare, quando si deve attaccare. Scegliere bene è la cosa più difficile».
Con un talento fuori scala gli riescono in modo apparentemente semplice cose di grande complessità. Non ha paura di sbagliare tentando giocate complicate anche perché questo gli chiede Benitez per provare a sorprendere le difese avversarie.
Il Valencia subisce solo 27 gol, 7 in meno del Betis seconda miglior difesa. Perde 5 partite, la metà di Real Madrid, Barcellona e Deportivo. Vince nel 2002 il primo titolo da 31 anni. Ma dal punto di vista personale Aimar fa ancora meglio la stagione successiva, in cui la difesa del Valencia non offre le stesse sicurezze, ma lui conosce ormai le difese avversarie. Segna 8 gol in Liga diventando il miglior marcatore della squadra.
Dopo una vittoria col Liverpool in Champions League dove segna un gol beffando la difesa intera, Maradona intervistato dal Sun dice: «È il mio successore legittimo come miglior giocatore al mondo, Pablo si diverte giocando come facevo io e per questo darà molta allegria al Valencia. Lui fa si che la vita degli avversari non sia un letto di petali di rose» e conclude con una frase che rimarrà per sempre attaccata ad Aimar: «pagherei qualunque cifra per vederlo giocare», cosa già detta in altre interviste anche con la variante “l’unico giocatore per cui pagherei”.
Ancora oggi questa frase e quella di Messi su di lui gli sono rimaste appiccicate come se fosse questa la sua legacy nel mondo del calcio: il giocatore preferito di Maradona e l’idolo di Messi.
Essere l’idolo del migliore
Prima di una partita contro l’Ajax di Koeman nella primavera 2003 esce un’intervista del suo aiutante Toni Bruins Slot che paragona il gioco di Aimar con quello di Cruyff, lo stesso Cruyff ne parla con toni entusiastici come di uno dei miglior giocatori della Liga nonostante l’età.
Pressato sull’argomento Aimar si schermisce: «mi sembra un’enorme esagerazione che mi si paragoni con Cruyff. Sono felice che Cruyff abbia parlato qualche volta di me, però bisogna ricordare che nella storia del calcio ci sono stati quattro grandi e uno di loro è proprio lui. Per questo mi sembra inconcepibile il paragone».
A proposito di paragoni. Questi sono gli anni in cui anche un giovane Leo Messi, appena arrivato dall’Argentina, finisce per sognare un giorno di essere come Pablito Aimar. Andando a pescare dall’archivio di quando Messi nel 2002 era ancora nelle giovanili, effettivamente Aimar è il giocatore di cui parla quando gli chiedono a chi somiglia: «Penso che ognuno sia diverso, però ho un po’ lo stile di gioco di Aimar, giocando nella stessa posizione e tutto. Come quando riceve in corsa e la tocca in velocità sa già quello che deve fare».
Messi ha raccontato più avanti che a inizio carriera ha chiesto solo a due giocatori la maglia: a Zidane dopo il suo primo Clásico e ad Aimar dopo il suo primo Valencia-Barcellona. Ma la storia del rapporto tra i due è tanto importante per Messi quanto per Aimar, soprattutto con l’andare avanti della carriera di Messi, che già a 19 anni era chiaro sarebbe stata leggendaria: «Con Lionel ci siamo scambiati la maglia 3 o 4 volte. Una volta che me l’ha chiesta gli ho detto “Tu che la chiedi a me? Così sembra il mondo alla rovescia”». E ormai da un decennio non c’è intervista ad Aimar in cui non compaiano le parole di apprezzamento di Messi: «Mi chiedono spesso delle parole di Leo su di me. Ovviamente credo che Leo non assomigli a nessun altro, ci ha saltato tutti da Maradona in poi, includendo il nome che volete mettere in mezzo. Chiaro che per me sia un onore che si sia identificato con me o che abbia visto qualcosa qualcosa che lo ispirasse nel mio gioco mentre ero al Valencia e lui nella Masia» anche se forse la risposta che restituisce meglio l’idea di come si sia sentito Aimar in questi anni è un’altra: «All’inizio il fatto che Messi mi elogiasse e dicesse che mi seguiva da quando giocavo nel River mi faceva sentire un po’ non all’altezza».
Il Valencia finirà soltanto quinto, ma la stagione successiva è quella dell’apoteosi della squadra di Rafa Benitez. Nonostante una serie di fastidiosi infortuni che per la prima volta gli tolgono continuità, attorno ad Aimar il livello si è alzato di nuovo: la coppia di centrali Ayala-Marchena è la base di partenza per un Valencia che subisce soltanto 27 reti e chiede come la miglior difesa del torneo.
In avanti la squadra scopre il talento nel saltare l’uomo dell’esterno cresciuto in casa Vicente e trova la stagione della vita dalla punta Mista (19 gol in Liga). Con una grande rimonta sul Real Madrid, in primavera, la squadra di Benitez vince la Liga e poi alza la Coppa UEFA in finale contro l’Olympique di Marsiglia. È l’ultima squadra non di Madrid o Barcellona a vincere la Liga.
La generazione incompiuta di Pekerman
In un momento in cui le cose vanno bene con il Valencia, c’è la realtà deludente della Nazionale argentina. Il Mondiale 2002 è la più grande delusione di quella generazione, partita per vincerlo, con probabilmente la migliore rosa a disposizione insieme alla Francia e invece uscita al girone proprio come la Francia.
Aimar gioca in tutte e tre le partite, nella prima vittoriosa con la Nigeria e nella seconda, persa con l’Inghilterra, entra nel secondo tempo sempre per Veron, il regista e capitano scelto da Bielsa nel suo 3-4-3.
Nell’ultima, da vincere assolutamente contro la Svezia, gioca dal primo minuto. Prende il posto di Veron, criticato dai media per le prestazioni nella partita contro l’Inghilterra, e pur giocando meglio del compagno neanche lui riesce a far trovare il gol all’attacco bloccato dell’Argentina, che esce dal Mondiale pareggiando 1-1. Per quanto sia stata la più grande delusione della carriera di Aimar, non penso sia utile entrare però in ulteriori dettagli qui visto che ne ha scritto un articolo di tutto quello che ha significato per l’Argentina quello psicodramma Fabrizio Gabrielli.
Quattro anni più tardi, al Mondiale di Germania 2006, la generazione cresciuta da Pekerman si trova nel teorico picco della carriera, e la federazione sceglie proprio lui come commissario tecnico. Sin dalle qualificazioni l’Argentina viene rimessa in campo col rombo a centrocampo caro al tecnico che aveva scoperto Aimar. Nel Mondiale, però, Aimar entra dalla panchina come cambio a centrocampo, nel rombo Riquelme è il trequartista e accanto ha giocatori d’equilibrio come Mascherano, Maxi Rodríguez e Lucho González o Cambiasso. Niente più 8 e 10 dall’inizio come a livello giovanile, e non c’è spazio neanche davanti perché la coppia d’attacco è formata da una combinazione di Crespo, Saviola, Tevez e un giovanissimo ma già famoso Messi.
Trova comunque i suoi minuti nel girone e agli ottavi, contro il Messico. Il Mondiale sembra svilupparsi in maniera promettente per l’Argentina, ma nei quarti contro la Germania accade il fattaccio che segna la carriera di Pekerman: con la squadra in vantaggio e con due cambi ancora a disposizione, al 72’ decide che è meglio mantenere il vantaggio togliendo Riquelme e inserendo Cambiasso a centrocampo. Una mossa difensiva, che oltre che togliere il regista della squadra spinge i compagni ad abbassare il baricentro.
Accortosi di questa cosa pochi minuti dopo, invece di inserire Aimar sulla trequarti o Messi in attacco per provare a giocare a pallone come aveva sempre predicato, decide di mettere la torre Julio Cruz per la punta Crespo. Un minuto dopo la Germania pareggia e finirà per eliminare l’Argentina ai rigori: si presenteranno sul dischetto Cruz, Ayala, Maxi Roríguez e Cambiasso, che sbaglierà quello decisivo. Nessun giocatore propriamente tecnico quindi.
Nonostante si dica che la federazione voglia comunque continuare, per Pekerman la delusione è troppa e lo spinge alle dimissioni.
Il gruppo rimane lo stesso anche sotto Alfio Basile per la Copa América 2007, altro torneo che Aimar affronta come risorsa dalla panchina. La brutta sconfitta col Brasile in finale per 3-0 rappresenta l’amaro punto di chiusura per l’esperienza di praticamente tutta la generazione Pekerman.
Paradossalmente, l’arrivo di Maradona a commissario tecnico per il Mondiale 2010, porta all’accantonamento di Aimar e Riquelme dalle convocazioni per il loro teorico ultimo Mondiale (lo gioca invece Veron, a 35 anni).
L’influenza di Bilardo si deve essere fatta sentire in Maradona, che decide di accentrare il gioco attorno a Messi trequartista (forse per responsabilizzarlo come fu per lui nel 1986) costruendogli un sistema di giocatori di corsa per equilibrare il tutto. Ogni grande giocatore di una grande Nazionale ha in genere tre Mondiali a disposizione nella propria carriera: quello da stella nascente, quello da stella affermata e quello da stella esperta. Ad Aimar e Riquelme, i due talenti più grandi nati nell’Argentina pre Messi sono stati dati a disposizione solo due e sono stati traditi dal proprio maestro proprio in quello in cui potevano brillare come stelle affermate.
Proprio nell’estate della delusione del Mondiale 2006, la carriera di Aimar al Valencia si conclude. Tutto in realtà inizia con la stagione 2004/05, quella che inizia come il giocatore più forte della squadra campione in carica.
Il Valencia ha subito l’enorme cambiamento dell’addio di Rafa Benitez e del ritorno di Claudio Ranieri, già allenatore di successo del Valencia negli anni ’90, che con sé porta tre giocatori offensivi dalla Serie A in Marco Di Vaio, Stefano Fiore e Bernardo Corradi per circa 40 milioni (gli ultimi due sono ceduti dalla Lazio per far quadrare vecchi conti dell’affare Mendieta).
Benitez è più che felice di portarsi Aimar a Liverpool e probabilmente Ranieri di lasciarlo partire, ma il Valencia non vende. Il tecnico romano si trova da subito incastrato tra l'eredità di Benitez e i nuovi arrivati e finisce per non trovare mai un sistema stabile, cambia tra 4-4-2 e 4-2-3-1 senza continuità.
A penare è tutta la squadra, Aimar ovviamente in testa, che inizia la stagione addirittura in panchina, per poi tornare in campo titolare sballottato tra la trequarti e la fascia, senza avere compagni fissi accanto, senza quindi poter formare società stabili. I senatori finiscono per sfiduciare l’allenatore dopo due sconfitte consecutive a febbraio, portando all’esonero.
L’allenatore ad interim Antonio Lopez rimette immediatamente in campo la squadra del titolo con Aimar al centro e lì arrivano le prestazioni migliori della squadra, con in mezzo un pareggio col Real Madrid con un suo gol. Ma è troppo tardi per salvare la stagione e il Valencia chiude settimo.
«La sensazione che dà segnare un gol non è paragonabile, non la si ritrova in altre situazioni. Non parlo che sia migliore o peggiore di altre cose, è che non ci sono paragoni».
Con piccoli e grandi infortuni muscolari che ritornano dopo una pubalgia accusata in Nazionale in primavera, fatica ad avere la continuità di rendimento per chiudere bene la stagione e si trascina il problema anche in quella successiva. Dove però con Quique Sanchez Flores in panchina e la cessione immediata dei tre italiani - e l’arrivo al loro posto dal Saragozza della punta David Villa - regala un’ultima stagione fatta di lampi geniali.
Flores mantiene il sistema di Benitez, a cui aggiunge Villa: tanto basta per far tornare la squadra ai vertici della Liga. Coccola Aimar: «bisogna lasciarlo tranquillo», mettendo a coprirgli le spalle gli inseparabili Albelda-Baraja, ai lati due ali pure come Vicente e Rufete per dargli lo spazio per muoversi e davanti uno dei migliori giocatori in Europa nell’attaccare la profondità sui suoi filtranti in Villa. La squadra gioca un calcio verticale che punta a sfruttare la velocità del fronte offensivo e la sicurezza del blocco centrale, con Aimar come centro nevralgico di creatività.
La squadra chiude terza in classifica, ma a fine stagione Aimar decide che dopo più di cinque anni a Valencia è tempo di provare qualcosa di nuovo.
Di quegli anni ricorderà che prima di tutto è la città dove sono nati e cresciuti i suoi due figli e poi che con la squadra riuscirono in qualcosa di enorme: «Impressionante quello che riuscimmo a fare, bisogna sempre ricordare cosa significa andare contro le due grandi in Spagna. Giocarsela alla pari con loro per un lustro è stato grandioso».
Imbrunire
Tra le offerte sceglie quella del Saragozza, squadra di mezza classifica della Liga che però ha ambizioni più grandi. Il Saragozza pensa di scalare le gerarchie andando a prendere talenti sudamericani scartati dalle grandi squadre. Ne prende 4 argentini: i fratelli Milito, Andrés D’Alessandro dal Wolfsburg e Pablito Aimar.
Forse proprio la presenza di tanti argentini di alto livello convince Aimar a seguirli. Per 11 milioni diventa all’epoca il secondo giocatore più caro della storia del Saragozza.
Nell’ambiziosa squadra di Víctor Fernández viene messo sulla fascia sinistra del 4-4-2 con facoltà di accentrarsi. Dall’altra parte c’è D’Alessandro e davanti due giocatori bravissimi negli smarcamenti, cioè Diego Milito e uno tra Sergio García e Ewerthon.
Dice Víctor Fernández di lui: «Deve essere il riferimento della manovra offensiva, aprire spazi nella difesa avversaria, mettere la pausa o l’accelerazione all’azione, fare la differenza». La squadra gioca un calcio piacevole e nella Liga si classifica sesta qualificandosi alla Coppa UEFA.
La seconda, però, in modo totalmente inaspettato, è una stagione da incubo: Aimar si fa più volte male, ci sono 4 cambi di allenatore, uno spogliatoio spaccato con la tensione alle stelle che porta anche un accenno di rissa in allenamento tra lui e D’Alessandro. Una squadra con ambizioni europee arriva diciottesima nella Liga e retrocede in Segunda.
Allo choc segue l’immediata diaspora dei migliori giocatori: Diego Milito torna al Genoa per la stagione che lo porterà poi all’Inter, Sergio García va al Betis, Matuzalem va alla Lazio, D’Alessandro torna in Sudamerica. Anche Aimar decide di voler cambiare campionato, tra le squadre che rifiuta c’è il Newcastle in Premier League del manager Kevin Keegan che per lui stravede e soprattutto la Lazio in Serie A, alla disperata ricerca di un fantasista da affiancare a Goran Pandev e Tommaso Rocchi per rilanciare le ambizioni europee dopo una stagione da mezza classifica.
Invece di Aimar la Lazio prenderà Mauro Zarate, ma il presidente Lotito continuerà a seguirlo anche nei successivi mercati, quando gli chiedono nell’autunno 2009 se verrà mai l’agognato Pablo Aimar risponde: «Le vie del Signore sono infinite».
Felicità ritrovata
Aimar ha 28 anni, si sente finalmente bene fisicamente e vuole tornare a giocare le coppe europee da protagonista. Per questo la scelta del Benfica, che gioca ogni anno in Europa, ha una sua logica. A convincerlo ad accettare l’offerta del Benfica c’è anche la leggenda Rui Costa, appena ritirato e che con lui come ciliegina sulla torta del calciomercato vuole iniziare la carriera di ds proprio del Benfica: Rui Costa vola fino a casa sua per parlarci e gli dice che visto il suo ritiro vorrebbe che fosse lui ad ereditare la sua 10.
Com’è chiaro ormai, Aimar è una persona che si lascia trascinare da questo tipo di discorsi, ama il calcio e ne rispetta le leggende, per lui la fiducia nel suo talento di uno come Rui Costa vale più di tutte le rassicurazioni economiche dei ds d’Europa. Tra le cose che lo aiutano a scegliere, il Benfica c’è anche il fatto che lì ritrova Quique Sanchez Flores.
Aimar viene presentato come la stella del nuovo progetto che deve far dimenticare l’umiliante quarto posto della stagione passata. Nonostante i giocatori di alto livello a disposizione come José Antonio Reyes, Ángel Di María e David Luiz, il Benfica di Flores non riesce a trovare continuità e ad andare oltre il terzo posto e la vittoria della Coppa di Portogallo, uscendo ai gironi d’Europa League.
Anche singolarmente per Aimar non è una stagione indimenticabile, però regala a David Suazo un assist di rabona dalla sua metà campo di cui ancora oggi parlano i tifosi del Benfica.
Il vero allenatore che gli cambia le prospettive arriva l’anno successivo ed è Jorge Jesus. Secondo Aimar colui che gli ha fatto nascere l’idea di diventarne uno a sua volta: di Jesus adora il rapporto che instaura con i giocatori e il modo con cui vuole far giocare la squadra, lo stesso tipo di calcio basato sulla tecnica che vuole giocare Aimar. Jesus se ne innamora: «Per me il calcio è fatto di due componenti molto importanti: quella scientifica e quella artistica. Aimar è arte, che è quello che fa la differenza in tutte le attività umane, non soltanto nel calcio».
Il giocatore viene considerato dallo stesso allenatore un suo assistente in campo e nello spogliatoio. David Luiz ha raccontato che deve a lui la capacità nella distribuzione del pallone. Aimar in ritiro gli ha chiesto di seguirlo in stanza, lo ha messo davanti a un video e ha iniziato a spiegargli come deve impostare un centrale, quando e come deve distribuire nel corto e quando nel lungo.
Su consiglio di Aimar, Rui Costa prende l’amico ed ex compagno al River Javier Saviola da affiancare al possente Óscar Cardozo in attacco. Il vero protagonista, però, è il centrocampo a rombo, con Javi García davanti alla difesa, Ángel Di María e Ramires ai lati e Aimar sulla trequarti. Con giocatori tecnici attorno, sempre le spalle coperte, un giocatore fenomenale nelle incursioni dalla seconda linea in Ramires, un socio perfetto con cui giocare nel corto in Di María e Saviola da poter lanciare in profondità, il calcio di Aimar torna a splendere. Si muove per tutto il campo e chiude la stagione con 13 assist e 5 gol, il primo Benfica di Jorge Jesus torna a vincere il titolo dopo 4 anni entusiasmando in campo i tifosi.
Come detto da Jorge Jesus in una recente intervista con Zico in Brasile, secondo lui è Aimar il miglior giocatore che ha allenato in carriera.
Nelle partite i tifosi hanno un coro dedicato ad Aimar, soprannominato “il Mago”, in cui viene paragonato a Eusebio e Rui Costa per aver riportato la gloria al Benfica come “un altro 10 immortale”. Al momento dei festeggiamenti per il titolo, Aimar viene intervistato da un palco che dà su un’enorme folla di maglie, bandiere e fumogeni rossi in movimento che abbraccia tutto lo schermo. Dice che gli avevano raccontato che sarebbero stati impressionanti i festeggiamenti per il ritorno al titolo del Benfica, ma che non poteva immaginarsi che sarebbe stata una cosa così incredibile. In quel momento si innamora della squadra e della città, dice che il Benfica è una società più grande di quanto si pensi da fuori e ancora oggi si dichiara un tifoso a 12000 km di distanza tanto quanto del River Plate, facendosi ogni tanto vedere allo stadio.
Decide quindi di rimanere fino a fine contratto, in altre tre stagioni in cui ogni volta i compagni migliori vengono venduti sul mercato, mentre lui è amato e coccolato da tifosi e stampa, diventando a tutti gli effetti l’erede di Rui Costa. Continua al suo livello per due stagioni piene. Nell’ultimo il suo apporto è quello di super-riserva che entra per provare a svoltare le partite complicate con una giocata.
Il Benfica non riesce a vincere più il campionato in queste tre stagioni, ma si distingue in Europa, arrivando in Semifinale di Europa League (lui si perde il ritorno in cui il Benfica perderà il turno), poi ai quarti di Champions League (eliminati dal Chelsea di Di Matteo poi campione) e in finale di Europa League la sua ultima stagione.
La ricerca del finale perfetto
L’ultima partita in Champions League è proprio contro il Barcellona di Messi nella stagione 2012/13 (due settimane dopo l’ultima con la fascia del Benfica al braccio, nell’ora di gioco contro il Celtic). In una partita dominata dalla squadra di Vilanova dal primo minuto, entra con mezz’ora a disposizione e riesce comunque a fare, con i pochissimi palloni toccati, meglio di tutti i compagni d’attacco nel resto della partita.
Aimar e Messi si sfiorano soltanto nei momenti di palla contesa a centrocampo, il primo trotterella per il campo aspettando una palla che non arriva mai, mentre il secondo è protagonista assoluto con l’assist per il gol di Fàbregas al termine di un’azione personale travolgente che chiude la partita, ma al fischio finale c’è l’abbraccio e lo scambio di maglie tra i due.
L’ultima in Europa invece è l’andata della semifinale di Europa League contro il Fenerbahçe in primavera. Gioca solo il primo tempo e non giocherà il ritorno e la finale persa con il Siviglia allo Juventus Stadium, l’ultima finale europea che il Benfica perde, l’ennesima dalla maledizione di Béla Guttman. Il Benfica, poi, perderà anche la finale di Coppa di Portogallo, questa volta con Aimar che fa un cameo di 3 minuti, e arriverà secondo in campionato per un punto sul Porto avendo perso lo scontro diretto alla penultima giornata con un gol al minuto 92, poco dopo che Aimar è entrato in campo senza praticamente toccare palla. Una squadra bella da veder giocare ma che a fine stagione raccoglie meno di quanto seminato è guarda caso l’ultima di Pablo Aimar in Europa.
Deciso a non smettere, pensa di fare ancora un po’ di soldi andando in Asia; diventa il giocatore più pagato del campionato malese dove firma un contratto biennale col Johor, ma dopo una stagione in cui gioca appena 8 partite per i tanti infortuni viene rescisso il contratto. Curiosamente, lo scopre soltanto dal comunicato della squadra su Facebook.
Capendo di essere arrivato quasi al capolinea del suo fisico decide di regalarsi un’ultima stagione al River Plate quasi 15 anni dopo: «Il mio sogno era che i miei figli mi vedessero ancora nel River. Beh forse era più un sogno mio che loro, magari a loro non importava più di tanto la cosa». Appena arrivato nel River, però, si infortuna gravemente alla caviglia e torna in campo soltanto 4 mesi dopo per giocare una singola ultima partita entrando negli ultimi 15 minuti. L’allenatore Gallardo lo bacia prima di farlo entrare mentre tutto lo stadio è in piedi ad applaudirlo. Lascia il River in un quarto d’ora totalmente senza ritmo partita, che è comunque un distillato di tecnica pura. Decide di ritirarsi perché: «Non mi piace giocare a calcio camminando».
Al momento del suo annuncio del ritiro gira per l’Argentina un amaro audio whatsapp con la sua voce: «Mi sono stancato di prendere antinfiammatori, pasticche, protettori, siringhe, infiltrazioni, per zoppicare negli allenamenti e poi essere anche quello che rimane fuori dalla lista per la Copa Libertadores».
È così insoddisfatto del suo ultimo periodo al River che organizza un altro addio al calcio, due anni più tardi torna in campo per un’ultima partita, con l’Estudiantes di Río Cuarto in Coppa d’Argentina, così da giocare ufficialmente con loro una partita per la prima volta in carriera. Lo fa a 38 anni, accanto a suo fratello Andrés, con la fascia al braccio, la 10 dietro la schiena e sotto scritto: «la fine è dove ho iniziato». Ha la barba folta e al momento del cambio esce con gli occhi tristi, sorride soltanto ai compagni che saluta in panchina. Sugli spalti durante l’applauso generale al momento del cambio viene inquadrato anche Marcelo Bielsa. Pochi mesi dopo annuncia che farà l’allenatore.
Costruire il futuro
Con la sua ultima partita ha smesso col calcio professionistico, ma non ha smesso di giocare: «pago tutte le settimane, ogni martedì, per giocare a calcio a 5, a 9, a 7, quello che siamo. Amici, alcuni ex giocatori, ci rincontriamo e giochiamo, ci divertiamo. Per non farmi giocare non avrebbero dovuto inventare il calcio».
Come aveva deciso ai tempi del Benfica, nel 2017 ha iniziato la carriera da allenatore rimanendo in ambito federale subito dopo aver ricevuto il patentino. La sua carriera di calciatore è iniziata con la Nazionale Argentina under 17 e lì lui è voluto tornare per iniziare anche quella di allenatore. Ha scelto di allenare la nuova generazione per poter instillare la sua visione del calcio come Pekerman fece con lui. Pekerman, Bielsa e Jesus sono tutti allenatori influenti della sua carriera e sono tutti dei maestri di calcio. Questo sembra essere anche il destino di Aimar.
Secondo lui sta cambiando il modo in cui i giovani giocatori pensano calcio. È cambiato il modo in cui lo vedono, raramente sedendosi a guardare una partita nella sua interezza, ma preferendo invece guardare gli highlights delle azioni più importanti.
Vede il suo ruolo come quello di educatore più che di semplice selezionatore giovanile: «Non è importante il risultato. Credo che abbiamo aiutato i ragazzi a migliorare rispetto a quello che erano 4 mesi fa. Hanno creato dei ricordi indimenticabili, hanno stretto amicizie, si sono divertiti giocando e allenandosi». Parla dei suoi ragazzi, ma sembra anche parlare della sua esperienza negli anni ’90. Sembra voler preparare la generazione che poi dovrà allenare tra i professionisti. Ma Aimar ha anche iniziato una polemica sulla strada che ha preso il calcio sudamericano, sempre più appannaggio di tecnici che vogliono squadre dove la dote principale è l’atletismo: «sta diventando complicato fare una triangolazione. Non credo che si vedano 5 passaggi consecutivi, questo mi rende un po’ triste perché ci sono giocatori molto bravi in tutte le squadre. Il modo con cui si è giocato questo Sudamericano u17 non è quella ideale, però non so se a qualcuno interessa il gioco».
Ha provato a lavorare su concetti semplici per sviluppare una manovra pulita con cui ha vinto l’ultimo torneo sudamericano di categoria: «Vogliamo che la squadra attacchi, ci piace che i giocatori più tecnici siano vicino tra loro e per poterlo fare devi avere ordine tattico e la predisposizione a recuperare subito il pallone dopo la perdita perché di pallone ce n’è uno».
Per questo tra la generazione dei 2002 su cui sta lavorando ha trovato un centrale dai buoni piedi che avrà sicuramente messo davanti ad un video come fece con David Luiz in Francisco Flores del San Lorenzo, un regista tecnico e tranquillo col pallone in Juan Sforza del Newell’s, un esterno tutto dribbling come Di María in Alan Velasco dell’Indipendente e una punta che cerca sempre la profondità come a suo tempo Saviola, cioè Matías Godoy, ora alla Dinamo Zagabria. E soprattutto sembra avere anche trovato un giocatore da modellare a sua somiglianza: Matías Palacios del San Lorenzo. Un giocatore dalla tecnica purissima, in grado di fare giocate che valgono la partita.
Fedele alla sua idea ludica, nella sua prima esperienza sta provando quindi a lasciare che i giocatori tornino a vedere il calcio come un gioco, a divertirsi insieme: «Proviamo a fargli continuare a pensare che il calcio sia un gioco e gli ripetiamo continuamente che non devono allenarsi come se stessero lavorando… anche perché se vedete i grandi giocatori, vi rendete conto che in campo loro pensano a giocare a calcio, non che stanno lavorando».
Al momento della consegna del Pallone d’Oro 2015 a Messi mandano sullo schermo un messaggio video di Aimar. Fa le sue congratulazioni, certo, ma fa anche una domanda che penso raccolga tanto della visione del mondo del calcio di Aimar allenatore: «Come fai a mantenere la stessa capacità di divertirti giocando a calcio con questa sensazione di libertà come quando eri un bambino?». Il calcio per Aimar è un gioco che permette di rivivere ogni volta che si tocca il pallone la stessa gioia di quando si è bambini. Lo ha dimostrato giocando, e ora vuole trasmettere questa visione anche alle future generazioni.