Il 14 settembre scorso, nella Plaza de Toros di Albacete, il pubblico di appassionati che partecipa al rito dei tori si è trovato a vivere uno di quei momenti unici, altamente drammatici, che rendono la tauromachia una cerimonia rituale fuori dal tempo e per questo non inscrivibile fra i fenomeni storici con un inizio e una fine all'interno delle cose che si susseguono fra i capricci dell'umanità. Era appena entrato nell'arena il quarto toro della tarde. Il pubblico osservava con scarsa attenzione. Chi ha partecipato a una corrida sugli spalti della plaza di Albacete sa bene il motivo. Dopo i primi tre tori, qui come in alcune plazas dei dintorni, fino all'Andalusia più vicina, quella di Almeria, si usa offrire una pausa al pubblico che si è identificato con la tragedia dell'uomo e dell'animale. Come ovunque in Spagna e in ogni Paese che ancora celebri il rito tauromachico (la Francia del sud, per restare in Europa), dopo il terzo toro si mangia.
E da queste parti, per mangiare, viene concessa una pausa. L'atmosfera conviviale prende il sopravvento su quella tragica. Panini zeppi di prosciutto divino passano di mano in mano. Cartate di salumi e formaggi. Dolcetti. Vini e bevande fresche, ghiaccio e long drink casalinghi. Se vi capita di passare da queste parti, non perdetevi una corrida. Se non altro per partecipare a questo simposio in cui - caso unico nel mondo spettacolarizzato dei nostri tempi (quelli, sì, contingenti e destinati a essere spazzati via) - il pubblico si unisce, si conosce, scambia doni, scambia pane e vino, come nelle grandi cene antiche che la messa cristiana ricorda ogni volta nella simbologia eucaristica.
Ma il 14 settembre scorso, appena la ventina di minuti dedicata al convivio si esauriva e uomini e donne sugli spalti riprendevano a concentrarsi sulla messa laica rappresentata dall'unione di uomo e animale, in pista è accaduto qualcosa che ha improvvisamente ribaltato ogni aspettativa, mettendo le migliaia di spettatori di fronte a se stessi, inchiodandoli di fronte alle loro responsabilità, di fronte alle loro scelte, alla loro stessa umanità, così come può capitare solo nel dramma tauromachico.
Dramma è una parola greca formata dal verbo drao che significa "agire", "compiere", "eseguire" e dunque, in certa misura, "prendere una decisione", così come riferiscono i vocabolari. Il dramma è dunque l'azione, il fatto scatenato dagli umani nel loro agire e decidere, quell'azione che il teatro greco metteva in scena nelle tragedie e che ha preso dunque sfumature di senso legate al dolore. Ma sempre il dolore ha a che fare con le azioni e le decisioni. Solo il desiderio tutto umano di dimenticare le profondità del nostro essere ci spinge regolarmente a sognare la neutralità dell'agire.
Foto di Chema Moya / EFE / LaPresse
Dramma è l'azione che segue un patimento e un dolore. Sublime dramma è l'azione esemplare in cui decisione e dolore convivono. Quello a cui abbiamo assistito nella Plaza de Toros di Albacete, non a caso di fronte a una tragedia, perché questo è la corrida, come diceva Hemingway all'inizio di Morte nel pomeriggio: "Non uno sport, ma una tragedia in tre atti". Ma cosa è accaduto a Albacete il 14 settembre scorso con il quarto toro della tarde? L'episodio, cosa eccezionale, può essere raccontato. Diversamente da quel che capita spessissimo per le faccende effimere e non replicabili della tauromachia, stavolta è possibile rendere l'idea dell'atto e del dramma.
In pista era appena entrato un bel toro sbuffante dell'allevamento assai rispettato e temuto di Alcurrucén. Di fronte a lui, a piccoli passi e con l'atteggiamento ieratico che gli è caratteristico, si profilava la sagoma elegante, sottile, quasi eterea di un torero triste e sublime: Paco Ureña. Murciano, dedito al mistero del toro come un samurai, Ureña ha accolto l'animale come si fa sempre nel primo terzo della corrida, con un movimento del capote chiamato verónica in onore di quella Veronica che secondo le leggende create sui Vangeli avrebbe aperto un fresco mantello di fronte al Cristo che saliva verso il colle della sua morte, trascinandosi sulle spalle una croce di legno, la fronte lacerata da una corona di spine. Come il fresco mantello di Veronica accolse Cristo donandogli un'ultima sensazione di pace, così è per il toro destinato alla sua fine dopo quattro anni vissuti in immensi allevamenti come un re.
Olé. Il pubblico ha muggito ancora sbocconcellando. Pareva la solita storia. Passi di grazia e arte che addolciscono la carica dell'animale preparandolo a farsi sempre più umano, preparandolo a cambiare il corso della sua carica da rettilinea a curvilinea, preparandolo dunque a trasformarsi in artista. E invece no. Il toro, 620 chili di muscoli e ossa, ha immerso le immense corna nel panno. Poi con uno scatto improvviso del morrillo, l'enorme muscolo che rende questo genere di tori capaci di far volare in aria cavalli interi come fuscelli, uscendo dal capote, l'animale ha innalzato il muso verso il cielo, come generalmente è molto raro che accada. Il corno destro, dalla punta acuminata su cui ha sede la morte come scrisse un grande poeta, ha colpito l'occhio sinistro di Ureña. E mentre il torero si chiudeva su se stesso e i suoi aiutanti entravano in pista a distrarre l'animale, è cominciato il dramma.
Dramma è azione, dramma è scelta. Dramma non è l'evento inatteso mortifero. Dramma è la reazione a quell'evento. Lì per lì è parso difficile valutare ciò che stava succedendo al torero. Nonostante la stampa generalista, con la sua ignoranza d'accatto, sbandieri spessissimo come eventi epocali le incornate dei toreri, chi va ai tori sa che esse sono all'ordine del giorno. Le incornate gravi tuttavia non sono frequenti. Le morti, poi, sono davvero rare anche se in questi ultimi anni i due casi di Víctor Barrio, ucciso da un toro nell'arena di Teruel (2016) e di Ivan Fandiño, straordinario torero basco ucciso nella plaza francese di Aire-sur-l'Adour (2017), hanno cambiato drasticamente la prospettiva su una catastrofe che grazie ai progressi enormi della medicina e della chirurgia taurina è sempre più limitata.
Ma stavolta cosa era capitato a Ureña? Difficile dirlo. L'occhio è apparso immediatamente in condizioni critiche: gonfio, coagulo di sangue, chiuso. Ureña si sciacquava il viso in quel contropista chiamato callejón dove i toreri si proteggono nelle pause della loro sfida al toro. Attorno a lui, non c'era chi non gli consigliasse di andare dritto in infermeria, nell'infermeria della plaza, dove i migliori specialisti sono pronti a tutto.
Ureña tentennava. Doveva decidersi. E ha deciso. Sarebbe rimasto nell'arena per portare a termine il lavoro, offrendosi al suo toro fino alla morte.
Ecco il dramma perfetto. L'azione che è scelta dolorosa, non tanto per il dolore fisico che è in gioco in questa storia, quanto per il dolore morale, la consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri, la necessità di guardarsi in faccia e rispettare se stessi e gli altri. Rispettare la professione, l'arte e l'animale. Ma andiamo con calma. Per capire ogni aspetto di questo dramma in cui risplende la grandezza della tauromachia è necessario partire da lontano.
Cominciamo da oggi, quattro mesi dopo. Oggi sappiamo con certezza che Ureña ha perso per sempre l'uso dell'occhio sinistro. Il globo oculare è stato salvato ma la vista è compromessa. Sappiamo anche che Ureña si sta già preparando a tornare nell'arena, sta abituandosi a considerare le distanze e le misure attorno a sé, nonostante la difficoltà che insorge quando un occhio va perduto. Ma non è questo il punto. Già negli anni passati abbiamo osannato il grande torero di Jerez de la Frontera, Juan José Padilla, detto "il Ciclone", e poi "il Pirata", perché la benda nera con cui coprì il globo oculare estirpato da un corno di toro (a Saragozza, nel 2011) lo ha reso celebre più che l'abnegazione con cui si era dedicato ai tori per tutta la sua vita precedente. Qui non è in gioco il ritorno di Ureña dopo l'incidente. Ma la scelta di Ureña di restare in pista quel giorno.
Subito dopo la corrida, infatti, mentre il torero murciano era ormai stato trasportato in strutture specializzate e già si mormorava che il pericolo più estremo probabilmente si era compiuto, molti hanno ripetuto una storia assai poco congrua rispetto ai fatti. Si disse che non c'era bisogno di acuire i problemi con la spettacolarizzazione del sacrificio, che il torero avrebbe fatto bene a rientrare in infermeria subito e provare in ogni modo a salvare la vista. Cosa gliene veniva a rimanere lì? Voleva forse fare l'eroe?
Chi conosce i tori, sa che nulla nella vera tauromachia ha a che fare con la macchietta dell'eroismo. E certo non è questo il caso di Ureña. Ureña doveva restare nell'arena perché compito del torero è rispettare il suo toro finché può e unirsi con esso e lottare e danzare fino a dargli la morte. Non si può sfuggire a questo dovere, se si è toreri. Non ci si può sottrarre se si ama l'animale a cui ci si sta donando e a cui si donerà la morte.
Oggi sappiamo anche che non sarebbe cambiato nulla se Ureña fosse rientrato senza aspettare il toro e la sua fine. La lesione era già definitiva. Ma Ureña, benché oggi dica di averlo saputo fin dall'inizio, di aver capito immediatamente che l'occhio era perso, non ragionò sulla ferita e sulle sue conseguenze nel momento in cui la sua azione e la sua scelta sofferente coincisero con il passo che lo spinse a rientrare in pista per affrontare il suo toro e dopo quindici minuti di sforzi enormi ucciderlo.
Il dramma di Ureña ebbe a che fare con la legge della torería, ossia della grazia, dell'eleganza, del rispetto di sé tutto taurino che porta il nome di torería. Qualcosa che ha a che fare con un sentimento che tutti noi conosciamo bene: la vergogna. Di questo dobbiamo ora parlare.
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La lingua italiana non ci aiuta a capire fino in fondo la vergogna. La nostra lingua infatti privilegia uno solo dei due aspetti che questa complessa emozione manifesta. La propensione a provare vergogna viene infatti considerata più che altro in termini negativi. Si vergogna chi ha paura di mostrarsi, di rivelarsi, di essere visto nella sua inadeguatezza. Si vergogna chi manca di qualcosa, che esso sia il coraggio di mostrarsi o ciò che proprio non si vuole mostrare.
Eppure le cose non stanno esclusivamente così. Seguendo il buon senso possiamo tranquillamente ripeterci che quando ci vergogniamo di fare qualcosa che reputiamo ingiusto, il sentimento della vergogna non è affatto negativo. Esso è anzi un campanello d'allarme che ci induce a recedere da azioni che consideriamo negative. Questo diverso aspetto della vergogna - una vergogna nobile, dunque - si mantiene, ma solo parzialmente, nell'uso italiano della parola "svergognato". Chi non prova vergogna è persona da nulla, anche se a dire il vero molto spesso la vergogna che si dovrebbe provare in quei casi ha a che fare con le leggi codificate del pudore. Lo svergognato sarebbe quindi piuttosto chi infrange i codici del pudore, non chi ha perso il rispetto di sé.
In ogni modo, l'uso, seppur parziale, di "svergognato" ci introduce a un termine spagnolo che potrà aprirci il campo all'immenso mondo della vergogna nobile. Si tratta di un'espressione piena di giudizio sprezzante, una condanna che equivale a un insulto: sin vergüenza, ossia chiaramente: senza vergogna. Chi è un sin vergüenza non ha rispetto di sé e commette il peggior peccato di un essere umano che voglia essere tale. Non prova vergogna per ciò che di male può fare. Non si vergogna di perdere il desiderio di realizzarsi come uomo. Non conosce la nobiltà, né il rispetto degli altri e tantomeno di sé, né quel senso del dovere che non è obbligo a cui aggiogarsi ma desiderio piacevole di immolarsi per una causa di giustizia. Tutto il contrario dunque per chi prova la vergüenza.
Se in spagnolo diciamo che una persona ha vergogna, stiamo dicendo infatti che possiede quelle qualità che le permettono di vergognarsi per ciò di cui c'è da vergognarsi. E non è un caso allora che una delle qualità fondamentali dell'uomo che entra nell'arena dove si svolge il rito tauromachico è la cosiddetta vergüenza torera.
La vergüenza torera spinse Paco Ureña a rientrare in pista e, nonostante il dolore fisico, nonostante soprattutto il dolore emotivo di chi sa che probabilmente ha perso un occhio o lo sta perdendo per sempre, ha saputo dedicarsi a quello a cui un torero deve dedicarsi: il suo toro.
Il toro da lidia, ossia il toro da combattimento, non è un animale normale. Non è il toro domestico. Tutt'altra la razza. Sempre per rifarsi a Hemingway, uno dei meno interessanti fra gli scrittori taurini ma certo il più celebre e il più abile nella divulgazione (soprattutto dal punto di vista delle emozioni che l'essere umano - torero o pubblico - prova): "Il toro da combattimento sta al toro domestico come il lupo sta al cane".
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Ora, questo toro unico che rappresenta l'ultimo anello di una lunghissima catena che attraversa tutto il Mediterraneo dai tempi antichissimi dell'uro (il bos taurus primigenius) fino a oggi, passando per Creta, Egitto, Roma, è animale che sfiora le vette della sacralità. E non fraintendetemi. Non sono, io, come gli appassionati ai tori di oggi, fra i passatisti che rimpiangono cerimonie arcaiche. La sacralità del toro non sta nei riti mitraici o nelle tauromachie minoiche. La sacralità di questo animale a se stante, sta nella sua vicinanza all'uomo. Nel suo essere l'unico animale che cresce spiritualmente nonostante o forse a causa del dolore. Il toro da combattimento, diversamente da ogni altro animale feroce, non fugge il dolore ma cresce, cambia e continua a lottare per avere la meglio proprio quando prova dolore.
Per questo è sacro all'uomo nel suo confronto con l'animale: perché l'uomo vede in esso uno specchio. Perché in questo animale ritrova la legge della propria vita, quella che i greci antichi stabilirono in un semplice giro di frase: solo attraverso il dolore è possibile conoscere.
Ebbene, questo animale sacro deve essere rispettato. Deve essere rispettato nella lotta fino alla morte. Non ci si può tirare indietro. Non si può evitare il confronto. Non ci si dà per malati, come bambini. Neppure quando la malattia c'è davvero e magari è anche grave. Nella corrida (ossia quella che oggi appare come la forma più perfetta fra le mille tauromachie della storia), il toro è il dio, il toro è il centro, il toro si osserva e si segue nei suoi passi di danza con cui via via si fa umano, artista e va incontro alla morte. Guai quindi a mancargli di rispetto. Guai a non riconoscergli la massima dignità. Guai a rifiutarsi di ucciderlo e di rischiare a propria volta la morte, mentre ci si unisce a lui in una danza che non ha fine.
Paco Ureña, rientrando in pista con un occhio in meno e immolandosi di fronte al toro di Alcurrucén per evitare di sottrarsi ai propri compiti e al rispetto dell'animale che coincide nella tauromachia al rispetto di sé e della propria umanità, ha dato una lezione di torería unica. Una lezione morale che tutti, dentro o fuori le arene dei nostri mondi e delle nostre vite, dovremmo ponderare, meditare e semmai tentare di uguagliare, prima o poi, quando un giorno verrà il nostro turno di scegliere la via - o meglio, il dramma - della vergogna.
Ognuno ha il suo toro, dice un proverbio spagnolo. Ognuno ha dentro di sé un animale selvaggio da rispettare, onorare e combattere.