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Thomas Müller avrebbe dovuto vincere il Pallone d'Oro 2020
25 nov 2020
Più di Lewandowski, che tutti considerano il vincitore morale.
(articolo)
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Ci dimentichiamo di che premio particolare sia il Pallone d’Oro. Nonostante sia il riconoscimento più prestigioso e istituzionale per un calciatore, non è gestito da nessuna istituzione calcistica bensì da una rivista. L’editor-in-chief di France Football Pascal Ferre ha dovuto quindi dare una spiegazione ufficiale sul perché quest’anno è stato cancellato per la prima volta dal 1956. Ha dichiarato che non c’erano le condizioni per considerare quest’anno allo stesso modo di quelli precedenti. Il contesto delle porte chiuse, dello stop, delle partite ravvicinate: «Come si poteva stabilire una comparazione equa fra giocatori? Per evitare calcoli e proiezioni cervellotiche, abbiamo scelto l’opzione meno peggio».

Non tutti sono d’accordo. Quello meno d’accordo è Karl-Heinz Rummenigge, presidente del Bayern Monaco, che ha definito “ingiusta” la decisione di France Football, sottolineando come dovrebbe essere la FIFA a gestire il premio. Secondo lui il fatto che la Francia abbia interrotto il campionato, lo scorso marzo, li ha spinti a cancellare il premio. Tutto questo Rummenigge lo ha detto soprattutto per sostenere la tesi secondo cui, se ci fosse stato il Pallone d’Oro, lo avrebbe vinto Robert Lewandowski. Per Rummenigge il polacco ha vissuto la miglior stagione della sua carriera. Se il PSG avesse vinto la Champions League, magari con una doppietta di Mbappé in finale, France Football sarebbe restata sulla decisione di annullare il premio?

Rummenigge ha dato solo una voce istituzionale a un enorme coro di tifosi che vorrebbero veder assegnato il Pallone d’Oro a Lewandowski. Un coro di 190mila persone che hanno firmato una petizione per ripristinare l’edizione del premio. Questo è il mondo in cui viviamo. L’attaccante ha ringraziato tutti indossando una maglia del Bayern Monaco - che pare usare anche come pigiama da casa - e usando parole glaciali che non ci chiariscono del tutto se Lewandowski sia o no un replicante.

Guardate quest’altro video fatto per ESPN, con la mascella squadrata e l’occhio distante. Dice di essere grato dell’affetto ricevuto dopo la notizia della cancellazione del premio, ma chi ci assicura che si tratta di una vera persona?

Lewandowski ha anche detto che a livello di squadra hanno vinto tutto, e che è stato il miglior marcatore in ogni competizione. «Se un giocatore raggiunge questi obiettivi dovrebbe vincere il Pallone d’Oro».

Insomma, Lewandowski ha parlato davvero molto, sfiorando l’irritualità, di un premio che non gli hanno assegnato. Ha messo su una specie di campagna elettorale, senza farsi problemi a poter apparire narcisista. Del resto stiamo pur sempre parlando di un uomo che ha scritto una tesi di laurea su sé stesso. In tutto questo Lewandowski, e il mondo attorno a noi, non contempla neanche la possibilità che, se fosse stato assegnato, il premio sarebbe andato a qualcun altro, a un giocatore diverso.

In effetti gli argomenti per assegnare il premio al polacco sono solidi e poco contestabili: nella stagione 2019/20 ha più gol che partite giocate. È stato capocannoniere della Champions League, della Bundesliga e della Coppa di Germania. Competizioni che ha vinto tutte. Non solo i gol ma anche un senso di schiacciante dominio sulle difese avversarie e sul gioco del calcio in generale. Prima del lockdown Daniele Morrone lo definiva il miglior attaccante al mondo non solo per i suoi numeri ma per l’intelligenza e la qualità esercitata in ogni singolo movimento, in ogni singolo pallone giocato, in ogni momento della partita che diventava decisivo e che lui piegava in favore della sua squadra. Sono anni che Lewandowski domina il calcio europeo, ma la scorsa stagione ci ha costretti a sorprenderci persino di una figura che avevamo cominciato a dare per scontata.

Ma se è esistito una sorta di movimento popolare per assegnargli il Pallone d’Oro non è solo per queste ragioni, piuttosto perché è sembrata l’ennesima dimostrazione che France Football premia controvoglia giocatori diversi da Messi e Ronaldo. Luka Modric ha dovuto giocare un Mondiale mostruoso, nel peggior anno dei due, per riuscire a rompere il duopolio. Non ci è invece riuscito Virgil van Dijk lo scorso anno, pure in una stagione in cui ha vinto la Champions e portato all’estremo il concetto di difendere da solo.

Per molti, quindi, il Pallone d’Oro a Lewandowski sarebbe stato un premio alla sua straordinaria carriera, ma anche la possibilità di riconoscere l’eccezionalità di un calciatore diverso dai tiranni egemoni del calcio mondiale. Messi e Ronaldo che quest’anno sono sembrati fragili e umani, un solo trofeo vinto in due, 68 gol sommati, contro i 55 del solo Lewandowski.

Ma gli argomenti che rendono incontestabile l’assegnazione ipotetica del premio a Lewandowski sono gli stessi che cerchiamo di contestare da anni. Il Pallone d’Oro andrebbe assegnato al calciatore che ha avuto la migliore stagione o a quello più forte in assoluto? E perché premiare sempre il giocatore che ha segnato più gol, e che finalizza il lavoro della squadra, e mai quelli che interpretano altri mestieri e sfumature del calcio? È davvero così assurda l’idea di assegnare un Pallone d’Oro per ruolo?

Lewandowski è il calciatore che più si è avvicinato ai limiti utopici creati da Messi e Ronaldo. Quello che ha lavorato di più su sé stesso, smussando i propri difetti e cercando di raggiungere un’ideale di perfezione. Lewandowski col sorriso scintillante, la vita dedicata al calcio, il fisico così perfetto da guadagnarsi il soprannome di “The Body”. Come Messi e Ronaldo può presentare l’autoevidenza dei suoi numeri, una personalità implacabile e senza insicurezze. Quasi borderline. Non c’è niente di negativo in questo sia chiaro, e il Pallone d’Oro sarebbe stato un giusto riconoscimento.

Però dobbiamo abituarci a un calcio senza Messi e Ronaldo, e un premio come il Pallone d’Oro potrebbe aiutarci a ridefinire un’idea di canone diversa. Non fossilizzata sui calciatori che segnano più gol di tutti. Ma si può immaginare un’assegnazione alternativa a Lewandowski?

A chi se non a lui?

Possiamo dare per scontato che sarebbe stato giusto premiare un giocatore del Bayern Monaco, la squadra che sembra aver rotto il matrix del calcio post-lockdown. Perfettamente a suo agio a sperimentare il proprio gioco di posizione nel contesto freddo degli stadi vuoti, a trovare motivazioni dove gli altri non le trovano. I calciatori che stanno brillando in quest’anno solare sono diversi: la vertigine Alphonso Davies; l’elettricità di Serge Gnabry, e soprattutto la versatilità, l’intelligenza e la qualità universale di Joshua Kimmich.

Ma se parliamo di Pallone d’Oro questa era forse l’ultima stagione per premiare un calciatore eccezionale che ha fatto della poca appariscenza una dote tecnica. Thomas Müller ha servito 23 assist stagionali, di cui 21 in Bundesliga. È il record del campionato tedesco, ma anche il record in assoluto in una singola stagione calcistica, battuto solo da Lionel Messi sempre nello strano 2019/20. È difficile dire abbia avuto una stagione migliore di Lewandowski, ma possiamo dire senz’altro che il polacco non avrebbe segnato così tanto senza gli assist di Müller, 8 solo in campionato.

Thomas Müller ha fondato la sua carriera sulla clandestinità. Si nasconde dietro ai difensori, per poi comparire alle loro spalle, smarcato, tra le linee, in tasche di campo che sembrano cominciare a esistere solo quando lui le calpesta. Si auto-definisce “Raumdeuter”, cioè un cercatore di spazi. A 30 anni con Kovac in panchina pareva finito ai margini, la sua precoce carriera esaurita, invece quest’anno nel gioco di posizione di Flick è tornato a essere decisivo. Col tempo ha diminuito il suo apporto in fase realizzativa ma è uno di quei giocatori che, come si dice, non sbaglia una scelta. Le sue letture sono sempre acute, in difesa come in attacco: in ogni movimento e tocco di palla sembra sempre considerare l’intera dimensione della partita di calcio. Come ha dichiarato in un’intervista: «Forse non sono più un cannoniere. Cerco di essere più responsabile per tutta la squadra, di darle una struttura, organizzazione ed energia, e cerco di servire assist. Provo ancora a segnare ma quando devo decidere se andare in area o presidiare la zona al limite per evitare il contropiede, a volte scelgo l’opzione difensiva».

Premiarlo col Pallone d’Oro significherebbe premiare un calciatore che naviga la dimensione oscura e invisibile del calcio come nessun altro. I movimenti per aprire gli spazi, altri per ricavarne per sé. Capire sempre meglio degli altri quando accorciare verso il pallone e quando allontanarsene. Non abbandonarsi mai agli istinti che lo porterebbero verso il peccato originale, quello dell’inefficacia.

Thomas Müller è uno dei più grandi rifinitori di sempre pur non avendo niente degli altri grandi rifinitori. Non la classe e l’eleganza eterea di Zidane o Özil; non la visione di gioco di Totti o Messi; non la sensibilità tecnica artificiale di De Bruyne o Fabregas. Müller ha compensato tutte queste mancanze attraverso la sua superiorità cognitiva, o con l’istinto, o con l’aspetto cerebrale del suo gioco. Insomma con tutto ciò che non è visibile e che è l’anello di congiunzione tra quello che ci sembra essere Thomas Müller e quello che davvero è. Un giocatore che è arrivato all’equilibrio più paradossale tra sgraziatezza ed efficacia. Guardate i suoi assist la scorsa stagione, c’è tutto il repertorio. Ovvero passaggi di piatto semplici, ma eseguiti sempre con un’esattezza svizzera nei tempi. Gli assist di piatto di prima per la corsa implacabile in area di Lewandowski sono il suo gesto tecnico.

È forse il miglior assist-man in area di rigore, cioè il miglior giocatore a rinunciare a un tiro per servire al compagno in una posizione migliore, come avesse costantemente la mappa degli xG presente nel suo cervello. La razionalità con cui pare rifiutare ogni aspetto del gioco che non abbia a che fare con l’efficacia - quindi il piacere, la parte ludica - ha qualcosa di alieno. E in tutti questi anni Thomas Müller, con la sua risata feroce e il suo corpo secco come un osso, è stato il carnefice simbolo di alcune delle umiliazioni più dure inflitte agli avversari. Suo il primo gol del Mineirazo, suo il primo e il quarto nell’8-2 al Barcellona, il sesto nella demolizione 8-0 allo Schalke, il quinto dei sette gol alla Roma. In questo secolo è successo cinque volte che il Bayern infliggesse 8 o più gol a un avversario europeo o domestico. Thomas Müller è stato l’unico giocatore presente in ognuna di queste partite.

Eppure non pare provare un gusto particolare nel distruggere gli avversari, ed è per certi versi la forma più pura di crudeltà, l’indifferenza agli affetti del mondo. Non notare alcuna differenza sostanziale, tra 1-0 e un 8-0, pensare solo a fare il proprio lavoro al massimo delle proprie possibilità ignorando la temperatura attorno. Dopo la leggendaria umiliazione inflitta al Brasile, sapete cosa ha detto ai microfoni? Che la cosa che gli ha fatto più piacere - «the nicest thing of all» - è stata che chi è entrato dalla panchina «aveva lo stesso impatto, la stessa gioia, la stessa etica del lavoro».

Questa la sua visione, questa la sua ideologia. Müller in campo non sembra sapere fare sostanzialmente nulla, ma la realtà è che non c’è nulla che non sappia fare. Come giocherebbe a calcio una squadra di undici Thomas Müller?

È per certi versi la negazione più brutale del lato artistico del calcio, uno che ha trasformato il gesto tecnico più sublime - l’assist - in un lavoro impiegatizio. Eppure è la dimostrazione di quante strade può trovare il genio calcistico per esprimersi, e che questo a volte può coincidere con la razionalità pura. Con l’intelligenza nella sua forma più accesa. Come Newton con la fisica, Müller sembra aver approcciato il calcio dall’altro lato, scoprendone possibilità a cui gli altri non erano arrivati. A volte sembra essere l’unico a capire veramente le cose. I compagni lo chiamano “Radio Müller” per le indicazioni continue con cui cerca di guidare il gioco, che intuisce sempre un secondo prima degli altri.

Il Pallone d’Oro ha sempre premiato i maestri di una delle due grandi dimensioni del calcio, quella della palla, per una volta sarebbe stato bello premiare il miglior interprete dell’altra dimensione, quella dello spazio.

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