Nei giorni passati abbiamo dedicato un pezzo a ciascuno dei principali favoriti della vigilia per il Pallone d'Oro 2018: Antoine Griezmann, Cristiano Ronaldo, Raphael Varane, Kylian Mbappé, e ovviamente anche il vincitore Luka Modric. Dal discorso intorno al più prestigioso premio individuale per i calciatori, per forza di cose, restano sempre fuori alcuni dei migliori calciatori al mondo: per questo, abbiamo deciso di scegliere altri cinque calciatori eccezionali di cui non si è parlato come di possibili vincitori ma che hanno avuto una grande stagione (spoiler: c'è anche Leo Messi).
Perché avrebbe potuto vincere Kevin de Bruyne (arrivato 9°)
di Daniele Manusia
Circa un anno fa Pep Guardiola ha detto che Kevin De Bruyne era il miglior giocatore in Europa, escludendo il migliore in assoluto; e anche se Guardiola non ha specificato chi fosse, probabilmente stava parlando di Messi. “Non è solo per una partita. È per tutta la stagione. Giocare così ogni tre giorni. Giocare come gioca lui, è difficile trovare qualcuno di migliore in Europa”.
Forse giocare ogni tre giorni (realizzando 34 gol e assist in stagione, 106 passaggi chiave in Premier League) non ha fatto bene alla salute di De Bruyne che da agosto è infortunato ai legamenti, prima del ginocchio destro e adesso, da novembre, di quello sinistro.
Con la speranza che torni come prima - è impossibile saperlo, considerando anche la sua struttura piuttosto pesante e la potenza che esprimevano le sue gambe - vorrei provare ad essere più specifico, e indicare le qualità per la quali De Bruyne in effetti non ha eguali al mondo, se si esclude Messi (e da qui in avanti do per scontato che teniate a mente il parallelo con l’argentino). Sto parlando ovviamente della tecnica di passaggio e tiro, il modo in cui De Bruyne colpisce la palla. Che poi, nonostante la complessità raggiunta in epoca moderna, è il cuore del calcio.
Nessuno al mondo può colpire la palla con la precisione di De Bruyne dando alla palla praticamente qualsiasi traiettoria possibile, colpendola di interno, di esterno o di collo, con il destro o con il sinistro, mandandola a due metri di distanza come a quaranta, da qualsiasi punto del campo. Gli basta alzare la testa e decidere di scavalcare o perforare due linee difensive avversarie, teletrasportando la palla sui piedi di un compagno o scagliandola con violenza e precisione alle spalle del portiere.
Nessuno come De Bruyne può far saltare qualsiasi tattica, qualsiasi sistema difensivo, con un singolo passaggio illuminante (pur giocandone in media più di 78 in una partita intera) o con una corsa palla al piede conclusa con un tiro. Nessuno come de Bruyne è così sicuro di segnare quando carica la conclusione, indipendentemente dalla distanza.
E che De Bruyne avesse pochi limiti è stato chiaro praticamente da sempre.
Tranne Messi, appunto. Ma se De Bruyne non arriva ai livelli di Messi è solo perché nessuno al mondo è come Messi nell'istinto per il dribbling, nel controllo e nella visione di gioco. Ma se prendiamo il suo primo tocco, ad esempio, il controllo, ovvero il primo indicatore del talento naturale insito in ogni giocatore, possiamo paragonarlo solo a quello di calciatori più piccoli di lui e che pesano la metà di lui, a quelli che ormai più di sette anni fa Barney Ronay aveva definito “gnomi dal tocco di velcro” (pensando forse di dire qualcosa di negativo), alla classe dei vari Xavi, Iniesta, David Silva. E se insisto su questo tipo paragone è perché sono giocatori fisicamente, e per funzioni svolte in campo, distanti anni luce dal tipo di giocatore, di centrocampista, che è Kevin De Bruyne.
De Bruyne è un calciatore totale e totalizzante. Comincia e finisce l’azione, ne determina il modo in cui si svolge con ogni suo tocco di palla. Regola la direzione del gioco, il tempo e l’ordine dei propri compagni, quando la palla è tra i suoi piedi il campo da calcio sembra più piccolo. Ha un’ottima visione di gioco e può premiare la corsa di un compagno anche molto lontano, o nascosto dagli avversari, ma è soprattutto uno di quei giocatori che fa giocare diversamente chi sta in campo con lui. Sono i compagni che si adattano al suo talento, per sfruttarlo meglio, muovendosi senza palla e offrendogli opzioni all’altezza della sua immaginazione e della sua tecnica.
In questo senso, però, De Bruyne talvolta diventa un giocatore prepotente. Si incazza quando le letture o i gesti tecnici dei suoi compagni non sono all’altezza della situazione e non ci sta a perdere, né ad essere ripreso. Un difetto, nella vita di tutti i giorni, che è anche un tratto caratteriale tipico dei perfezionisti, di chi mette tutto se stesso fin nei dettagli di quello che sta facendo.
De Bruyne è incapace di lasciar andare le delusioni, letteralmente, a giudicare da un aneddoto risalente a quando era solo un bambino e giocava nelle giovanili del Gent.
A quanto pare dopo che l’allenatore lo ha rimproverato davanti a tutti per non aver aiutato a togliere dal campo di allenamento gli strumenti per gli esercizi, il piccolo Kevin ha abbracciato un palo della porta rifiutandosi di tornare negli spogliatoi. Il suo allenatore racconta di averci parlato a lungo, per convincerlo a lasciare il palo, ma quello che non dice il suo aneddoto, e che possiamo tranquillamente dedurre da soli, è che il piccolo Kevin non deve aver mai più lasciato l'allenamento senza aver aiutato a mettere al loro posto i conetti e gli ostacoli. Anzi, scommetterei sul fatto che, da quel giorno, nessuno ha messo in ordine il campo con la solerzia di Kevin De Bruyne.
Forse l’unico difetto di De Bruyne è che gioca un calcio con cui solo giocatori del suo livello possono dialogare. Per controllare alla perfezione i suoi passaggi ci vorrebbe il suo controllo, probabilmente se potesse prendere il posto dei compagni per concludere l’azione sarebbe ben felice di giocare da solo. Una sicurezza che diventa impazienza e che lo rende poco lucido in momenti cruciali, spingendolo a cercare di fare troppo - magari andando a prendere la palla dalla difesa e cercando di portarla fino alla porta avversaria, o di farcela arrivare subito con un passaggio sparato come una palla di cannone - anziché cercare di posizionarsi dove potrebbe essere più utile, fidandosi dei compagni.
C’è del vero, però, nella convinzione interna di De Bruyne che nessuno dei suoi compagni sia completo quanto lui (certamente non lo sono specialisti come Sterling, Sané o Aguero). Kevin De Bruyne, oggi, è il giocatore che sceglierei se mi chiedessero quale bisognerebbe clonare per farci una squadra intera (considerando il suo carattere competitivo, non escludo che De Bruyne possa giocare bene anche in porta).
Per Redknapp è il miglior passatore che la Premier League abbia mai visto (sopra Bergkamp e Lampard, per dire). Per il Guardian era il quarto miglior giocatore al mondo nel 2017 dopo Messi, Ronaldo e Neymar. Lo scorso anno è arrivato quattordicesimo al Pallone d’Oro e, l’anno prima, ventesimo. Il nono posto di quest'anno, tutto sommato, è il suo piazzamento migliore di sempre.
Va da sé che per un giocatore come lui sia fondamentale vincere trofei importanti: ha avuto una parte importantissima nella Premier League vinta dal Manchester City (se guardate il documentario All or nothing su Amazon Prime vedrete come in tutti i momenti chiave compaia De Bruyne, con un passaggio o un gol fondamentale e di fattura eccezionale) ma, nonostante ciò, al suo posto è stato premiato Salah come miglior giocatore del torneo. È abbastanza verosimile, però che se il City avesse vinto la scorsa Champions League - era tra le favorite - o se il Belgio avesse battuto la Francia - è la squadra che ci è andata più vicina di tutte - oggi probabilmente staremmo parlando di De Bruyne come potenziale Pallone d’Oro (ma anche di Hazard, se è per questo).
Adesso gli infortuni alle ginocchia potrebbero comprometterne la stagione 2018/19 e, soprattutto, la qualità del gioco. Cerchiamo però di non dimenticare quanto è stato eccezionale quest’anno Kevin De Bruyne e come, nel suo momento migliore, sia stato semplicemente il miglior centrocampista al mondo.
Perché avrebbe potuto vincere Roberto Firmino (arrivato 19°)
di Fabio Barcellona
L’entusiasmante percorso del Liverpool nella passata edizione della Champions League ha reso, a un certo punto, Momo Salah un candidato credibile per la vittoria del Pallone d’Oro. Sul piatto della bilancia per l’egiziano c’erano essenzialmente le 10 reti realizzate in Europa che, unite ai 29 gol in Premier League nel 2018, e alla sensazione di avere di fronte il migliore giocatore al mondo nel mix di velocità, con e senza la palla, e capacità di finalizzazione, hanno spinto in alto il suo nome nella corsa al trofeo, almeno fino al momento del fallo di Sergio Ramos nella finale di Kiev.
Ma a rendere elettrizzante, oltre che vincente, la campagna europea del Liverpool è stato il cocktail di pressing, gioco in transizione e attacco in velocità del calcio heavy metal di Jurgen Klopp, che ha prodotto la squadra che ha segnato di più in Champions League la scorsa stagione – 41 gol, 3.2 per partita – e il gioco più divertente di tutta la competizione. Ma, più che Salah, la vera chiave tattica del successo dei Reds, e fedele interprete di ogni sfaccettatura dello spartito di Klopp, è stato il brasiliano Roberto Firmino, da più parti considerato il giocatore più sottovalutato del panorama mondiale.
Il giocatore giunto tre anni fa nella Merseyside dall’Hoffenheim aveva in nuce tutte le qualità che ne hanno decretato il successo. Ma è il passaggio dalla guida di Brendan Rodgers a quella di Jurgen Klopp che ha permesso a Firmino di esaltare e sviluppare ai massimi livelli le sue doti.
Nell’ultima stagione l’allenatore tedesco lo ha schierato come centravanti nel suo 4-3-3, con Salah alla sua destra e Sadio Mané alla sua sinistra. Il contributo di Firmino nella manovra offensiva del Liverpool è stato semplicemente fondamentale, sia durante i frequenti attacchi in transizione che nelle fasi manovrate: il brasiliano ha mostrato una sensibilità tattica raffinatissima, trovando, all’interno del gioco sopra ritmo e verticale di Jurgen Klopp, una sorta di bolla spazio-temporale dalla quale si è occupato di mettere ordine e canalizzare le energie della sua squadra.
La qualità dei suoi movimenti senza palla all’interno del sistema-attacco del Liverpool è sempre stata elevatissima. Il principale lavoro di Firmino è stato quello di fornire, allo stesso momento, il raccordo necessario tra la manovra arretrata e la velocità dei suoi compagni di reparto e creare gli spazi per gli stessi Mané e Salah. La varietà di movimenti utilizzati per svolgere in campo la sua funzione è stata molto ampia: Firmino si abbassava, allontanandosi dalla linea arretrata avversaria, attirando fuori i centrali e disordinando la difesa per creare i corridoi per i tagli profondi dei suoi compagni.
La sua percezione dei possibili sviluppi del gioco alle sue spalle è sorprendente e di certo tra le più sviluppate nel panorama mondiale: sa sempre cosa succede e cosa potrebbe accadere dietro di lui quando viene incontro a raccordare il gioco e la scelta della giocata è, quasi sempre, la più efficace per fare progredire l’azione d’attacco della sua squadra.
Oltretutto è in possesso di doti tecniche che gli consentono praticamente ogni tipo di giocata. Può giocare di sponda per consentire a un compagno un più semplice passaggio fronte alla porta verso gli attaccanti. È un maestro nella protezione del pallone e utilizza sia i controlli orientati che sottili corpo a corpo per liberarsi delle marcature strette dei difensori che, aggressivamente, lo seguono nel suo gioco di raccordo, per impedirgli o sporcargli le ricezioni. È, ovviamente, capace di mettersi in proprio e dopo avere creato coi suoi movimenti gli spazi da attaccare per Mané e Salah, ha una sensibilità di passaggio evolutissima che gli permette di mandare in porta i suoi compagni con filtranti che tagliano le difese avversarie, sia in campo aperto che in spazi più congestionati.
https://twitter.com/francefootball/status/1049245267025956864
Ma il gioco di Firmino è multidimensionale e la sua comprensione del gioco particolarmente estesa, è capace di creare spazi per le tracce verticali degli altri attaccanti di Klopp anche muovendosi verso l’esterno e, sfruttando a suo favore le mosse dei difensori, può attaccarli alle spalle quando provano ad anticiparlo, assuefatti ai suoi movimenti incontro al pallone.
Le sue raffinatissime interpretazioni tattiche, definite poi dalla delicatezza tecnica del suo gioco, risultano ancora più preziose all’interno del contesto iper-dinamico dell’attacco di Klopp, perché regalano i tempi e gli spazi necessari a convogliare tutta la dirompente vitalità della squadra. Firmino mette armonia e creatività in un luogo che senza di lui rischierebbe di essere troppo confuso per potere essere anche efficace.
Terminato il lavoro di raccordo, Firmino è anche in grado di attaccare l’area e di concludere a rete con estrema efficacia. La miscela tra la capacità di generare un tiro per i compagni e di finalizzare in prima persona hanno permesso al numero 9 del Liverpool di essere secondo solo a Cristiano Ronaldo nella somma tra gol e assist nella passata edizione di Champions League: 10 gol e 7 assist per Firmino, 15 gol e 3 assist per CR7. Ancora, solo CR7 (55%) ha inciso nelle realizzazioni della sua squadra con un gol o un assist più di Firmino, che è entrato nel 42% dei gol dei Reds.
Dei 10 gol realizzati in Champions - lo stesso numero di Salah - 2 sono stati realizzati di testa. Il gioco aereo di Firmino è uno dei tanti aspetti del gioco che, ancor più del suo fondamentale gioco di raccordo, è poco conosciuto e forse non particolarmente apprezzato. Alcuni numeri sono sorprendenti: è il giocatore della passata Champions League che ha ingaggiato più duelli aerei in assoluto (118, secondo Lukaku con 69), secondo solo allo svedese Wernbloom del CSKA nella media a partita (9.1).
Le sue doti di testa gli consentono, oltre che di finalizzare, di contendere i palloni aerei ai difensori, generando così seconde palle che il gioco di Klopp non disdegna. In quest’ottica Firmino eccelle anche nella riconquista delle respinte della difesa, utilizzando le sue capacità di previsione del gioco per muoversi in anticipo verso la posizione migliore.
In aggiunta, il suo apporto difensivo all’interno del sistema di Klopp è davvero notevole. Le sue capacità di pressing e contropressing forniscono un contributo fondamentale per la stabilità della struttura difensiva del gioco dei Reds. La passata stagione Firmino è stato l’attaccante che, tra i top team della Premier League, ha effettuato ampiamente più tackle sia in assoluto (62) che a partita (2.1), secondo solo a Jordan Ayew dello Swansea nell’intero campionato. Inoltre è stato secondo solo a Christian Eriksen del Tottenham tra i giocatori offensivi delle prime sei squadre della Premier per numeri di intercetti (17). Infine, in ogni fase del gioco è in perenne movimento al massimo della velocità e per questo è l’attaccante della Premier League che effettua più sprint nell’arco dei 90 minuti.
Firmino è rientrato con ampio merito entrato nella lista dei 30 possibili candidati al Pallone d’Oro, riuscendo ad entrare alla fine tra i migliori 20 al mondo (diciannovesimo, a parimerito con Rakitic e Sergio Ramos). La sua forza e il suo fascino sono riposti nell’essere, al medesimo tempo, un giocatore classico e un giocatore particolarmente moderno. La sua tecnica, i suoi movimenti senza palla e la sua comprensione del gioco risulterebbero di alto livello in ogni epoca. Al contempo i tratti di modernità sono chiaramente evidenti nell’essenzialità delle sue giocate, nella capacità di portare pressione individuale ai portatori di palla all’interno di un sistema di pressing organizzato e nell’apporto atletico che fornisce alla squadra duellando di testa e sprintando in continuazione lungo il campo.
L’equilibrio tra la classicità e la modernità di Firmino è stata la chiave dei successi della scorsa stagione dei Reds, che hanno beneficiato di un giocatore che pur perfettamente integrato nel calcio di Klopp è stato capace di organizzare, giocando da centravanti, il potenziale caos del gioco dei Reds. Non vincerà il Pallone d’Oro, ma di certo nella passata stagione è stato uno dei migliori calciatori nel panorama mondiale e probabilmente insieme a Ronaldo. Modric e Salah il migliore della Champions League.
Perché avrebbe potuto vincere Lionel Messi (arrivato 5°)
di Daniele V. Morrone
Si fa fatica ad afferrare bene il concetto di migliore, in qualsiasi campo, ed è più che naturale che ci si affidi a un’azione fuori dal normale come quella fatta da Messi per controllare un pallone difficile contro l’Atlético Madrid, per provare ad illustrare chiaramente cosa si intende quando si dice che Messi è il miglior giocatore al mondo. Chi altro stoppare un pallone di testa, e poi, di spalle, far passare la palla di esterno sotto le gambe del diretto (Filipe Luis), se non il migliore?
https://twitter.com/LaLiga/status/1068112585130680320
O magari si può utilizzare il gol fatto pochi giorni dopo, contro il PSV in Champions League, in cui dopo una corsa di 50 metri ha la freddezza di segnare con un tiro sul palo del portiere mentre è circondato da 3 giocatori avversari, per ricordare al grande pubblico di cosa parliamo quando parliamo di Leo Messi. O ancora, si può prendere la famosa doppietta nel 4-2 con cui il Barça ha distrutto il Tottenham, a Wembley, che ha portato il Guardian qualche giorno dopo a far uscire un pezzo dal titolo inequivocabile: “Nonostante gli elogi, l’hype e i premi vinti, Leo Messi è sottovalutato”.
Un pezzo in cui la tesi dell’autore, Sean Ingle, arriva attraverso l’utilizzo delle statistiche per mostrare come Messi sia ancora contemporaneamente il miglior finalizzatore e il miglior rifinitore al mondo. Ne esce fuori un dato che è difficilmente comprensibile per la mente umana: negli ultimi 10 anni, Messi ha una media di 1.44 gol + assist per 90’ (Cristiano che è il secondo migliore è fermo a 1.21). Praticamente contribuisce a 3 gol ogni 2 partite giocate con la sua squadra.
La partita contro il Tottenham che ha fatto venir giù gli editoriali inglesi.
Questo dato è riferito agli ultimi 10 anni di competizione, e qualcuno potrebbe dire che il 2018 di Messi non è stato altrettanto impattante, se non fosse che ha dominato completamente la competizione nazionale - vinta con ampio distacco dal Barcelona e in cui il suo dominio è stato quasi offensivo, visto che ha chiuso come migliore in ogni singola statistica offensiva: maggior numero di gol, di tiri nello specchio, di assist, di passaggi chiave, di passaggi filtranti e di dribbling riusciti.
Ha vinto la Scarpa d’Oro del 2018 e nell’anno solare ha segnato 41 gol ed effettuato 20 assist in 45 partite totali con il Barcelona, che con lui in campo ha perso un totale di 4 partite in tutte le competizioni e stravinto campionato, Coppa del Re e Supercoppa spagnola.
Il lato oscuro della scorsa stagione, semmai, è rappresentato dal fatto che Messi non poteva sbagliare neanche una singola partita, perché la sua squadra, pur essendo candidata a vincere tutto, è dipesa totalmente dalla sua vena creativa. Non ha goduto, quindi, del lascia passare di cui ha goduto Modric nei lunghi passaggi a vuoto in campionato; né dell'indulgenza che si ha avuto sulle prestazioni incolori di Cristiano in semifinale e finale di Champions League; o della clemenza riservata al giovane Mbappé nel primo e unico scontro importante della sua stagione, quello contro il Real Madrid.
Sembra incredibile guardando i giocatori della rosa del Barcelona, ma l'assenza di Coutinho, e lo stato di forma precario di Suárez e Dembélé per tutta la prima parte del 2018, ha portato il Barcelona ad aggrapparsi totalmente al suo numero 10. Lo standard di Messi nel 2018 è stato altissimo, ma evidentemente non è bastato a farlo rientrare nel discorso per la vittoria: poco importa degli ottavi contro il Chelsea in cui ha segnato 3 gol tra andata e ritorno, in cui Messi ha salvato una prestazione incolore dei suoi compagni: l’unica partita completamente steccata della sua Champions League ha coinciso con la sconfitta per 3-0 contro la Roma e l’eliminazione dal torneo. Evidentemente imperdonabile.
Il 2018 è stato anche l’anno in cui ha perfezionato come mai prima la sua tecnica di calcio nelle punizioni.
Ma se state leggendo questo paragrafo aspettandovi qualcosa sul suo Mondiale - il quarto della sua carriera, quello che qualcuno diceva doveva vincere - dirò prima di tutto che Messi ci arrivava nella migliore forma psico fisica possibile, perché nonostante la partita di Roma aveva dominato in ogni altro contesto. Da subito, però, si è intuito come non fosse neanche questa l’occasione giusta, dall’esordio difficile con l’Islanda e, soprattutto, dalla bruttissima partita dell'Argentina con la Croazia (peggiore anche di quella di Roma).
Poi è arrivata l’enorme partita di Messi con la Nigeria, che ha qualificato l’Argentina, e infine la pazza partita contro la Francia in cui è arrivata l’eliminazione per una delle squadre più disfunzionali di tutto il torneo. Messi si è sciolto come i suoi compagni contro la seconda migliore squadra del Mondiale, ma poi è stato il miglior giocatore nella partita psicologicamente più difficile contro la Nigeria (in cui ha segnato l’unico gol del suo Mondiale) e ha fatto il possibile contro la migliore squadra del Mondiale (in cui ha fornito gli unici 2 assist del suo Mondiale).
Certo dal miglior giocatore al mondo ci si aspettava di più e poco importa se, per dire, Cristiano è andato in netto calando nelle prestazioni invece che in crescendo e Salah (anche per via dell’infortunio) è stato disastroso come tutto il suo Egitto: il Mondiale di Cristiano e Salah è una piccola parentesi perché da loro non ci si aspettava che portassero la propria squadra ad alzare la coppa, da Messi invece sì. Non importa quanto disfunzionale e priva di talento si sia rivelata da subito l’Argentina, l’unica conclusione possibile del Mondiale di Messi doveva essere con la coppa in mano. Per qualche ragione, Messi è l’unico giocatore al mondo per cui non vincere il Mondiale è una disfatta personale. Il che è tanto assurdo quanto immaginare che la sua intera stagione dipendesse dal fatto che Mercado si trovasse o meno sulla traiettoria del suo tiro contro la Francia (ci si è trovato, e si è anche preso i meriti per il gol).
Negli ultimi 10 anni, Messi ci ha mostrato uno standard senza precedenti di continuità in ogni aspetto del gioco offensivo, sia come finalizzatore che come rifinitore. In quella che è stata un’altra stagione ai suoi soliti altissimi livelli in Liga, sono state la delusione in Champions League e nel Mondiale a portarlo per la prima volta fuori dal trio di finalisti al Pallone d’Oro, con un piazzamento al quinto posto che è il suo peggiore dal 2007.
Ma va detto come il 2018 sia stato paradossalmente l’anno del suo picco dal punto di vista mentale, in cui abbiamo visto un Messi consapevole come mai prima di doversi prendere responsabilità che vanno oltre il suo ruolo nominale di attaccante. Si è tirato indietro in due partite, due grandi partite, ma sono comunque solo due partite e tanto è bastato per bollare la sua stagione come normale, e toglierlo dal discorso sul migliore. Per la prima volta in carriera Leo Messi è stato vittima dei suoi stessi standard senza senso, quegli standard che l’hanno portato a vincere cinque Palloni d’Oro, e che adesso sono diventati il motivo per cui non ha vinto quello del 2018.
Perché avrebbe potuto vincere Eden Hazard (arrivato 8°)
di Dario Saltari
Solo pochi giorni fa Eden Hazard ha dichiarato di non meritare il Pallone d’Oro: «Anche se ho avuto un buon anno, devo tenere i piedi per terra. Penso ci siano giocatori che sono stati migliori di me». Guardando superficialmente il suo anno solare, è difficile dargli torto: Hazard non è riuscito nemmeno a qualificarsi per la Champions League; con il Chelsea ha segnato nel 2018 quanto suo fratello Thorgan al Borussia Monchengladbach (15 gol in tutte le competizioni); e ha vissuto il suo unico momento di picco quest’estate al Mondiale.
In Russia però ha dimostrato di poter fare la differenza come pochi altri: il belga ha trascinato il Belgio fino alla semifinale (persa solo contro la Francia campione) ed è stato giustamente premiato come secondo miglior giocatore del torneo (dietro a Modric, che poi ha vinto il Pallone d’Oro).
Hazard è da diversi anni in quella cerchia di giocatori eccezionali per cui ha davvero senso comprare il biglietto al di là della partita, al cui interno, escludendo Messi e Ronaldo, troviamo Griezmann, Neymar, De Bruyne, Mbappé e pochi altri. Magari è semplicistico, ma basta guardare una qualsiasi sua partita per capire che il suo talento è speciale, diverso, ed è forse per questo che alla fine ce lo ritroviamo in cima a tutte le classifiche dei premi individuali, al di là del fatto che forse non riuscirà mai vincere quanto un giocatore brasiliano, francese, tedesco o spagnolo di Real Madrid e Barcellona. Per dire, al FIFA The Best Award è arrivato settimo, sopra a giocatori come De Bruyne, Kane e soprattutto Varane, che è arrivato molto più vicino di Hazard a vincere il Pallone d’Oro.
D’altra parte, se abbiamo deciso di scrivere questo pezzo sui nuovi pretendenti al Pallone d’Oro è anche perché la lenta fine del duopolio Messi-Ronaldo ha aperto la porta a una fetta di complessità enorme, che fino ad adesso era stata tenuta fuori dalla loro eccezionalità disumana. Negli ultimi dieci anni assegnare il Pallone d’Oro è stato facile perché Messi e Cristiano Ronaldo erano sia i giocatori che segnavano di più al mondo, sia quelli che vincevano più trofei al mondo, e questo rendeva il loro talento facilmente intelligibile, pacifico per il grande pubblico. Come ha scritto Simone Weil: “Nessun’altra cosa al mondo è chiara e semplice come una cifra”.
Ma adesso che la loro era sta volgendo al termine, non possiamo più solo mettere gol e trofei su due colonnine e vedere qual è la più alta per decidere a chi dare il Pallone d’Oro, e dovremo affidarci per forza di cose a valutazioni più sottili, accettare che possa essere alzato da talenti meno inequivocabili, come Luka Modric quest’anno.
In questo senso, l’eccezionalità di Hazard è statisticamente molto meno evidente di quella di Messi e Ronaldo, che di solito si stagliano come puntini solitari in praticamente qualsiasi grafico. Il belga, per fare un esempio, è il giocatore a cui riescono più dribbling in Premier League al momento (3.4 per 90 minuti) ma è lontanissimo non solo dai 5 di Messi ma anche, per esempio, dai 6.2 di un giocatore di livello molto più basso, come Boufal del Celta Vigo.
L’unica statistica in cui Hazard sembra riuscire davvero a dominare con costanza è quella dei falli, essendo il giocatore che ne ha subiti di più in Premier League dal 2016 ad oggi (in questa stagione è superato solo da Success: 3.4 contro 4.2 per 90 minuti). Ma utilizzereste mai il numero di falli subiti per convincere qualcuno della forza di un giocatore?
Il talento di Hazard non si può giustificare solo con le sue dimensioni, va visto in campo per poterne apprezzare il reale valore. Come ha scritto Daniele Manusia commentando la sua incredibile prestazione contro il Brasile al Mondiale: “Per Hazard subire fallo significa veder riconosciuto il proprio talento e la propria intelligenza”.
In questo senso, Hazard ci restituisce una raffinatezza umana che, con Messi e Cristiano Ronaldo, non eravamo più disposti a concedere ai calciatori eccezionali. In un’epoca in cui CR7 ha portato la cura per il corpo ad una maniacalità che pensavamo non potesse appartenere al calcio, ad esempio, Hazard parla dei falli in relazione al dolore e alla stanchezza: «Ho 27 anni e sto iniziando ad invecchiare, devo avere cura del mio corpo. Inizio ad avvertire l’usura e il decadimento fisico».
Il belga è anche uno dei pochissimi che esce dalla logica asfissiante del miglioramento permanente, dell’ossessione nel voler scrivere il proprio nome sulla sabbia della Storia. «Vincere il Pallone d’Oro non è un mio obiettivo: se un giorno riuscirò a vincerlo, fantastico; altrimenti nessun problema», ha detto nella stessa intervista in cui dice di non meritarlo, credo in maniera sincera. Probabilmente, quindi, non lo vedremo mai scagliare centinaia di tiri a stagione contro le porte avversarie per segnare più di chiunque altro, o tentare di dribblare un’intera squadra dalla linea di centrocampo per segnare il gol più bello di tutti, anche se è effettivamente capace di farlo. Ma questo non può più essere una discriminate per escluderlo dal novero dei migliori giocatori al mondo, perché solo i migliori giocatori al mondo fanno gol come questo:
Il confine tra successo e fallimento nel calcio è sottilissimo e fragile, deciso da variabili che il singolo calciatore non sarà mai in grado di controllare da solo, come ha imparato dolorosamente lo stesso Messi in Nazionale.
Perché allora continuiamo a utilizzare il Pallone d'Oro per escludere giocatori che dimostrano in ogni partita di meritare questi riconoscimenti personali? Perché dobbiamo aspettare che Hazard si trasferisca al Real Madrid per mettere a fuoco definitivamente la sua straordinarietà?
Perché avrebbe potuto vincere Mohamed Salah (arrivato 6°)
di Emanuele Atturo
Ormai sappiamo che Salah non ha vinto il Pallone d’Oro, e che non è neanche rientrato tra i cinque migliori al mondo. Le tesi che sostenevo a fine aprile, quando mi chiedevo se Salah avrebbe potuto vincere, sono stinte come un foglio di giornale che ha preso la pioggia. Sembra davvero passata un’era geologica da quando Salah segnava ogni settimana, spostando di volta in volta i limiti di quanto riusciva ad essere determinante su un campo da calcio.
C’è stato un momento, neanche così breve, in cui Salah poteva davvero essere considerato alla pari con Cristiano Ronaldo e Messi. Se non per qualità complessiva, almeno per la capacità di incidere in contesti di alto livello, e di segnare tantissimo. Salah ha chiuso la scorsa stagione segnando 44 gol in 52 partite, arrivando appena dietro Messi nella graduatoria della Scarpa d’Oro. Ma la sua grandezza non è stata solo numerica. Mentre scrivevo quell’articolo Salah doveva ancora arrivare al punto in cui è sembrato più vicino a dare l’idea di essere il miglior giocatore del mondo.
In Champions League, nella semifinale d’andata contro la Roma vinta per 5 a 2, Salah ha segnato una doppietta. Il primo gol è stupendo: un tiro a giro sul secondo palo che lui prova spesso, ma che in quell’occasione gli è riuscito in modo particolarmente complesso, tirando una traiettoria che passa almeno due metri sopra la figura di Alisson prima di morire sotto l’incrocio dei pali. Dieci minuti dopo ha segnato il due a zero superando il portiere in uscita con uno scavetto morbidissimo. Salah quindi è stato il miglior giocatore - forse insieme a Firmino - della semifinale di Champions League. Con una finale ancora da giocare, non era mai stato così vicino a rompere il duopolio Messi-Ronaldo.
Proprio in quella finale le cose sono cominciate a precipitare, ed è quasi ridondante che vi dica che hanno cominciato a farlo da un momento preciso, cioè dal fallo di Sergio Ramos che gli ha rotto la spalla. Salah è uscito in lacrime, ha visto la sua squadra perdere e poi ha cominciato una complicata riabilitazione per i Mondiali. In Russia ha giocato in modo spento e opaco, e non ha prodotto nessun momento significativo che potesse farci ricordare il suo Mondiale in modo positivo.
Da quando ha ricominciato giocare, Salah è sembrato tornare alla sua normalità, quella di un giocatore fortissimo e in grado di condizionare l’atteggiamento delle squadre avversarie con la sua semplice presenza, ma non più capace di vincere da solo le partite. In questa stagione ad esempio sta tornando alla sua media di 0,5 gol ogni 90 minuti, la stessa tenuta nelle sue stagioni alla Roma, mentre lo scorso anno era a una rete ogni 90 minuti. L’infortunio alla spalla ha avuto il respiro fatale da mitologia greca, come se tutto il potere di Salah fosse concentrata in quella parte del corpo come la forza di Achille era concentrata nel tallone.
Questo, a grandi linee, il racconto di come Salah ha perso il Pallone d’Oro dopo esserci andato vicino. Dalla fine dell’estate, passato il Mondiale, ci siamo dimenticati di lui; abbiamo quasi dato per scontato che non potesse o dovesse vincere. Questo è un problema strutturale di un premio come il Pallone d’Oro, che per ragioni inspiegabili si assegna al termine dell’anno solare e non della stagione sportiva. Si fosse assegnato appena dopo la fine del Mondiale - come sarebbe più naturale - probabilmente Salah non avrebbe vinto comunque, ma di sicuro ci sarebbe andato più vicino.
Un Pallone d’Oro ideale premierebbe la singola grande stagione di un calciatore, senza lasciare che i primi mesi della nuova corrompano la nostra idea. E non sarebbe così assurdo sostenere che Salah abbia avuto la singola stagione, individualmente parlando, migliore di tutti. Tanto in termini di highlights che di numeri.
Salah non è il giocatore migliore del pianeta, forse non lo sarebbe neanche senza Messi e Ronaldo. Premiare Salah avrebbe voluto dire premiare un giocatore più “di sistema” rispetto a quanto la tradizione ci abbia abituato. Un giocatore che ha bisogno dei compagni e di un certo contesto tattico per esprimersi al massimo. Ma che, grazie a questo sistema, la scorsa stagione è riuscito a moltiplicare le proprie possibilità e ad innalzare il proprio livello di un gioco a un punto in cui appena un anno fa era inimmaginabile.
Seguiamo il calcio anche per guardare esseri umani che sfidano continuamente i propri limiti, riscrivendo le proprie narrazioni, rompendo il più possibile le idee che ci formiamo su di loro. Salah lo scorso anno lo ha fatto in modo spettacolare: ci ha costretto ad ammirare i suoi miglioramenti, a stupirci di lui, a riformulare i nostri giudizi. Almeno non dimentichiamocelo.