È difficile prendere seriamente l’impresa sportiva del Chievo nelle ultime due stagioni. L’hashtag #PandoroMeccanico, che ha avuto molto successo su Twitter nelle ultime settimane, non è altro che la trasposizione social dell’ironia con cui di solito si parla della squadra veronese, persino quando va bene. D’altra parte, è un’ironia facile perché non c’è nulla di esteticamente affascinante nel Chievo, nulla su cui il marketing o la comunicazione possa fare appiglio.
La società è di proprietà di un produttore di pandori che cerca di spendere il meno possibile sul club (nell’ultima sessione di mercato il Chievo è la squadra che ha speso di meno, ad esclusione dell’Empoli). Lo stadio è sempre vuoto e la tifoseria non ha praticamente alcuna tradizione. La squadra ha la nomea di fare un calcio difensivista e cinico, ed è composta per la maggior parte da giocatori vecchi e a fine carriera (il Chievo è la squadra media età più alta d’Europa: 30,1 anni). Persino le magliette del Chievo sono sempre molto brutte.
È un’ironia legittima, quindi, anche divertente, ma che in parte nasconde ciò che sta facendo veramente questa squadra, l’impresa, nel senso più letterale del termine, che serve per raggiungere i risultati che sta ottenendo la squadra di Rolando Maran. Al di là della classifica attuale, che è sotto gli occhi di tutti, basti pensare che in tutto il 2016 il Chievo ha fatto appena due punti meno di Inter e Fiorentina. E, ribaltando quell’ironia, questo è un risultato che assume un peso solo se pensiamo agli investimenti di Campedelli, alle percentuali di riempimento del Bentegodi, ai nomi e all’età dei giocatori che compongono la rosa, alla reputazione che si è costruita in questi ultimi anni.
Inferiorità fisica
Ma anche se i risultati sono il parametro attraverso cui nel mondo del calcio si giudicano i curriculum (persino un idealista come Guardiola pochi giorni fa ha dichiarato che la prova che il suo modo di giocare funziona è che ha vinto 21 titoli in 7 anni), in realtà sono soltanto la scorza superficiale (e a volte anche casuale) di quello che è il lavoro degli allenatori sul campo d’allenamento o dei giocatori su quello da gioco.
E per giudicare quest’ultimo partirei proprio dal dato fisico, che personalmente mi sembra il più impressionante. Maran qualche giorno fa ha dichiarato alla Gazzetta dello Sport che uno dei suoi principi cardine è l’intensità («Altrimenti non vai da nessuna parte»). E il Chievo è la squadra che corre di più in Serie A: 108.5 chilometri a partita di media, più del Sassuolo (107.3) o del Napoli (107.9), che sono generalmente considerate squadre decisamente intense.
Certo, non è tanto importante quanto si corre ma come si corre, ed è anche vero che il dato è sicuramente influenzato dal tipo di gioco che Maran mette in campo. Un gioco in cui la corsa, ancora prima dell’intensità, hanno un’importanza fondamentale per non far perdere al Chievo altri due elementi chiave, citati non a caso da Maran nell’intervista, come la solidità e l’equilibrio. Un gioco che è molte volte mirato a rendere la squadra lunga verticalmente sul campo. Che fa un grosso ricorso alla transizione per arrivare alla porta avversaria, che non disdegna i lanci lunghi e le riconquiste delle seconde palle per arrivare alla trequarti offensiva e che ha bisogno quindi di un gegenpressin continuo sul possesso avversario per non sbilanciarsi in transizione difensiva.
Ma che Maran richieda questo tipo di fisicità al proprio gioco è controintuitivo rispetto alle caratteristiche dei giocatori che ha a disposizione. Perché il Chievo è una squadra vecchia, come abbiamo già detto, persino più vecchia di quanto la media età dell’intera rosa non dica. Se prendiamo la formazione teoricamente titolare (Sorrentino, Gobbi, Cesar, Dainelli, Cacciatore, Castro, Radovanovic, Hetemaj, Birsa, Inglese, Meggiorini), infatti, la media età sale addirittura a 31,3 anni. E questo senza contare alcuni giocatori che vengono spesso inseriti nelle rotazioni che sono ben al di sopra di questa media, come Gamberini (35), Frey (32), Izco (33), Floro Flores (33) e Pellissier (37).
Ma anche e forse soprattutto perché il Chievo non ha giocatori fisicamente dominanti. “I clivensi” non possono fare affidamento sulla velocità, l’esplosività o la potenza per avere la meglio dei propri avversari. Devono applicarsi al massimo delle proprie capacità fisiche e mentali per giocare in condizioni di parità, o molte volte comunque di inferiorità, rispetto ai propri avversari. E forse è per questo che il Chievo fa molto affidamento al fallo come arma tattica: per adesso ne commette 17.4 a partita, più di qualunque altro in Serie A ad esclusione solo del Genoa.
Applicazione tattica
La chiave è quindi l’applicazione, che non a caso Maran nell’intervista alla Gazzetta nomina per primo tra i cardini del proprio gioco. Applicazione atletica, ma anche ovviamente tattica, perché quella che deve affrontare il Chievo non è solamente un’inferiorità fisica ma anche tecnica, almeno contro la maggioranza delle squadre di Serie A.
Applicazione tattica che, nella pratica, significa in primo luogo interpretazione da parte dei giocatori delle varie situazioni di gioco. Il Chievo non è infatti una squadra dall’identità definita e immutabile. Sa fare bene più o meno tutto, al netto dei limiti tecnici della rosa, e varia a seconda di ciò che succede in campo. In questo senso, quella di Maran non è una squadra reattiva nei confronti dell’avversario, quanto, per l’appunto, nei confronti della situazione di gioco.
Prendiamo per esempio il caso della pressione alta sulla difesa avversaria. Il Chievo la effettua di regola solo sul rinvio del portiere avversario. Per il resto, la squadra di Maran si adatta a ciò che succede in campo. Si parte da una situazione d’attesa strettissima orizzontalmente volta a proteggere il centro, con le due punte che rinculano a fianco, quasi alle spalle, di Birsa per coprire le mezze posizioni tra le due mezzali, che di solito escono sui terzini avversari.
La pressione alta scatta solo in determinate occasioni. Quando, per esempio, un difensore avversario riceve palla spalle alla porta o la difesa avversaria effettua un passaggio rischioso in orizzontale.
Oppure quando, a seguito di una palla lunga andata male, la squadra avversaria decide di tornare dal portiere per ricominciare l’azione.
Se questo tipo pressione non porta al recupero del pallone, il Chievo di solito utilizza il fallo per fermare la transizione avversaria.
Da notare, in relazione al discorso sull’adattamento al gioco più che all’avversario, che questi esempi sono tratti da tre partite contro squadre diversissime tra loro come il Pescara, il Milan e il Napoli.
L’obiettivo è quello di proteggere il centro e non concedere la profondità quando l’avversario è in condizioni ottimali per sviluppare il possesso, avanzando il pressing e il baricentro invece solamente quando l’avversario è in difficoltà nella gestione della palla o è momentaneamente disorganizzato. In questo modo, il Chievo aumenta le possibilità di recuperare il pallone in zone alte di campo senza dover mantenere un’intensità continuata per tutti i 90 minuti, e per la maggior parte del tempo nasconde i difetti della propria difesa, che è molto lenta e macchinosa nel coprire la profondità.
Rimanendo così stretto centralmente, poi, il Chievo invita l’avversario ad andare sulle fasce e a tentare il cross dal fondo o dalla trequarti. Una situazione in cui la squadra di Maran può mettere in luce uno dei suoi punti forti, e cioè il gioco aereo. Il Chievo, infatti, è la quarta squadra in Serie A per percentuale di vittoria nei duelli aerei: ne vince infatti il 53%, dietro solo alla Roma (63%), alla Juventus e all’Inter (54%).
Bucare la resistenza centrale gialloblu è quindi estremamente complesso. Quando la palla si sposta verso l’esterno, la traccia verso l’interno è schermata da uno dei due attaccanti, e la squadra avversaria può quindi solo continuare lungo linea o tornare indietro. Certo, non è un sistema infallibile, forse proprio perché richiede un’applicazione così maniacale. Se infatti l’attaccante non fa in tempo a coprire la diagonale interna, il terzino avversario si ritrova libero di servire la mezzala che accorre o l’attaccante che viene incontro. Un difetto, questo, che è accentuato anche dalla reticenza della difesa “clivense” ad accorciare sul centrocampo.
Quello della distanza tra difesa e centrocampo, d’altra parte, è un problema che il Chievo si ritrova ad affrontare spesso. Facendo molto affidamento sulle transizioni offensive e alle palle lunghe, infatti, la squadra di Maran tende inevitabilmente ad allungarsi, e con una difesa lenta e un centrocampo molto sollecitato tatticamente non sempre riesce a mantenersi compatta verticalmente. Difetto che si aggiunge a quello strutturale del rombo sulla copertura orizzontale del campo e la difesa del lato debole.
Nonostante ciò, il Chievo rimane una delle squadre più solide del campionato. È seconda infatti per Expected Goals subiti (7.6 in totale), dietro solo al dato irreale della Juventus (4.5). L’applicazione evidentemente funziona.
Arrivare al risultato
Anche col pallone tra i piedi, il Chievo ha un’identità fluida, che prende la forma della situazione di gioco che si ritrova ad affrontare. Anche in questo caso, molto dipende dalla zona di campo in cui viene recuperato o giocato il pallone, e dall’eventuale disorganizzazione o difficoltà temporanea dell’avversario a difendere.
Contro squadre che portano molti uomini sopra la linea della palla e che cercano di occupare la trequarti avversaria col palleggio, ad esempio, il Chievo cerca di sfruttare il suo sistema di transizioni offensive, uno dei più organizzati e studiati di tutta la Serie A. La squadra di Maran, infatti, non porta quasi mai i propri attaccanti ad abbassarsi fino alla propria trequarti, una vera rarità per il calcio contemporaneo, tenendoli in due contro due rispetto ai centrali difensivi avversari.
Recuperato il pallone, si cerca quindi di andare in verticale il più velocemente possibile verso le due punte a cui di solito si aggiunge l’inserimento da dietro di una delle due mezzali (di solito Castro), passando possibilmente per Birsa, che in questo senso si può considerare l’anello di congiunzione che rende fluido il passaggio dalla fase difensiva a quella offensiva.
Su Birsa bisogna fermare un attimo la riflessione, perché la qualità con cui realizza questo compito è unica in Serie A, e il più delle volte è il fattore che rende le transizioni del Chievo davvero pericolose. Il trequartista sloveno ha sviluppato una varietà tecnica impressionante attraverso cui far arrivare la palla nella trequarti avversaria nel modo più veloce e preciso possibile, il più delle volte con l’avversario alle spalle, che rende l’interpretazione delle sue intenzioni quasi impossibile.
Birsa è inoltre fondamentale per un’altra delle armi preferite del Chievo, e cioè le palle inattive. Non solo quelle dirette, come le punizioni, ma anche quelle indirette, come i calci d’angolo che di solito batte. Maran è un maniaco degli schemi da calcio d’angolo (la sua tesi a Coverciano era proprio sul posizionamento della difesa sui calci d’angolo), situazione da cui il Chievo ha già ricavato tre gol (solo l’Atalanta e la Fiorentina hanno fatto meglio).
Attualmente Birsa serve 2.02 passaggi chiave ogni novanta minuti, dato che lo avvicina a giocatori come Dybala (2.09) o Perotti (2.07), che però hanno il vantaggio di giocare in squadre che attaccano posizionalmente nella metà campo avversaria (e infatti ha una lunghezza dei passaggi che in media è superiore rispettivamente di due e tre metro).
La transizione non è comunque l’unico modo attraverso cui il Chievo cerca di arrivare velocemente alla porta avversaria. La squadra di Maran non disdegna affatto nemmeno l’uso della palla lunga (il Chievo è la squadra in Serie A che effettua più passaggi lunghi) e la riconquista delle seconde palle, molte volte anche direttamente dal rilancio del portiere, quando la squadra avversaria impedisce la costruzione bassa ai “clivensi”. Uno schema classico sulle palle lunghe è quello di porre i due attaccanti sulla stessa verticale (uno a spizzare la palla indietro e l’altro a raccogliere), con Birsa e Castro che si affiancano a recuperare le eventuali seconde palle e andare in verticale.
Ma il Chievo non è una squadra appiattita sul gioco verticale o aereo, che utilizza solo in determinate occasioni come il recupero del possesso nella metà campo avversaria o la transizione a sfruttare temporanee situazioni di parità numerica con la difesa, e sa anche attaccare palla a terra in maniera più riflessiva, soprattutto quando l’avversario concede la prima costruzione. La squadra di Maran, per dire, ha delle statistiche sul possesso (numero di passaggi riusciti a partita e accuratezza di passaggio) praticamente equivalenti a quelle della Sampdoria, che teoricamente fa molto più affidamento sul controllo del pallone rispetto ai gialloblù.
In questo caso si cerca di far avanzare il pallone in due modi. O attraverso i corridoi intermedi, formando i triangoli quasi naturali del 4-3-1-2 tra centrale, terzino, mezzala, trequartista e punta.
Oppure centralmente, attraverso la trasformazione del rombo di centrocampo in quadrato, con una delle mezzali (di solito Hetemaj) che si abbassa sulla linea del regista a consolidare il possesso e l’altra (di solito Castro) che si alza su quella del trequartista ad attaccare lo spazio tra centrocampo e difesa. Questo comunque non impedisce a Birsa di abbassarsi accanto a Radovanovic, e vedere Hetemaj e Castro sulla trequarti.
In questi casi quello del Chievo, più che un 4-3-1-2, è in realtà un 4-2-2-2, con l’ampiezza garantita dalla salita dei terzini. Questo permette alla squadra di Maran di avere sempre molti uomini nella zona del pallone (fattore che facilita anche la riconquista immediata del pallone una volta perso) e di fare grande densità da un lato del campo, con il lato debole costantemente attaccato dai terzini (o più raramente dalle mezzali, con uno dei due attaccanti che viene tra le linee accanto al trequartista).
Questa disposizione permette inoltre al Chievo di avere molti uomini sulle stesse linee di passaggio, sia verticalmente sia orizzontalmente che diagonalmente, e di utilizzare quindi il velo come vera e propria arma tattica per muovere le difese avversarie e creare spazi per gli attaccanti centralmente, liberandoli tra l’altro faccia alla porta. Velo non soltanto tra le due punte, com’è tipico di molti allenatori italiani, ma anche tra punte e centrocampisti tra le linee, e tra trequartista e mezzali.
Un utilizzo sistematico molto raffinato ed efficace, che ho già approfondito qui.
Il coraggio
Oltre ad essere molto dispendioso fisicamente ed esigente mentalmente, quindi, il gioco di Maran è anche molto complesso tecnicamente, ancora una volta in maniera controintuitiva rispetto alle caratteristiche dei propri giocatori. Il Chievo non ha giocatori che possono cambiare da soli il corso della partita (l’unico è Birsa, con le sue punizioni) e sviluppa gran parte delle azioni in velocità e in spazi stretti, richiedendo una coordinazione notevole sia ai singoli giocatori che collettivamente alla propria squadra (pensiamo, ad esempio, al livello d’intesa che devono avere i giocatori in campo per far funzionare il velo).
Questo, secondo me, spiega il dislivello incredibile che c’è tra la quantità dei tiri del Chievo (11.2 a partita; è quindicesimo in Serie A in questa statistica) e la loro qualità (il Chievo è decimo per Expected Goals creati: 1.08 a partita). Il gioco di Maran è efficace per arrivare nella danger zone delle squadre avversarie, perché è veloce, diretto e cerca di passare principalmente per vie centrali. Ma proprio per questi motivi è anche estremamente complesso, soprattutto per una squadra tecnicamente sotto media.
Nonostante la gavetta nelle serie minori e lo stile mediatico compassato lo avvicini a quell’universo provinciale tipico dei nostri allenatori, quindi, Maran sembra essere molto più lontano dalla tradizione tattica italiana di quanto non sembri in apparenza. Non c’è un adattamento conservativo dello stile di gioco alle caratteristiche dei propri giocatori. Al contrario, Maran chiede ai suoi uomini di superare (e anche di molto) i propri limiti fisici, mentali e tecnici per far sì che la somma delle parti sia il più possibile grande del totale.
E in questo hanno sicuramente un peso fondamentale fattori che dall’esterno non abbiamo modo di quantificare come il carisma o la presa mentale dell’allenatore sui propri giocatori. Un insieme di qualità che Maran riassume, nell’intervista a Gazzetta, con la parola “coraggio”: «Una qualità che ti fa crescere in rendimento e mentalità».
Coraggio che sta permettendo al Chievo di ottenere risultati che non raggiungeva dall’era Del Neri. Un’impresa che non ha nulla di scontato e che è molto più seria di quanto abbiamo creduto finora.