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El Depredador
21 giu 2018
La storia di Paolo Guerrero, che ha rischiato di non partecipare ai Mondiali russi per una squalifica revocata all'ultimo secondo.
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8 Dicembre 1987

Sono da poco passate le otto di sera quando il Fokker F-27 della Marina Militare peruviana che sta viaggiando verso l’aeroporto internazionale Jorge Chávez di Lima si inabissa al largo di Ventanilla. È uno dei disastri aerei più grandi della storia del paese andino, e colpisce l’immaginario collettivo soprattutto perché tutti i passeggeri morti, quarantatre, sono in qualche modo associati a uno dei club più celebri del calcio peruviano, l’Alianza Lima.

Tra i calciatori che perdono la vita c’è José González Ganoza, il portiere titolare. È soprannominato “Caico” ed è stato il terzo portiere della Selección che ha disputato il Mondiale di Spagna, nell’82. Il “Caico” ha tre figlie femmine, alle quali non ha potuto trasmettere la propria passione per il calcio. Per questo si è affezionato particolarmente al figlio della sorella.

Il “Caico” viene da una famiglia estremamente radicata nella tradizione calcistica peruviana: gli zii, Oscar e Huaqui Gómez Sánchez, hanno giocato in Argentina, con Boca Juniors e River. Il cugino, Héctor Chumpitaz, è stato capitano della Nazionale nei Mondiali del ‘70 e del ‘78. La sorella del “Caico” ha chiamato suo figlio Paolo, in onore di Paolo Rossi, che del Mundial ‘82 sarebbe stato capocannoniere.

Contro il Perù non aveva giocato una partita brillantissima, Paolo Rossi: se quello fosse stato il parametro per scegliere il nome, forse il ragazzino si sarebbe dovuto chiamare Bruno, in onore di Conti. Ma il sogno di tutti i genitori è quello di dare alla luce un cannoniere, un trascinatore destinato alla gloria, all’amore popolare.

A partire dai tifosi del cuore pulsante del barrio Matute, dove gioca l’Alianza.

L’Alianza scomparsa nel disastro aereo.

L’8 dicembre del 1987, Petronila González apprende dell’incidente aereo dalla radio. Nessuno riesce a fermare le sue urla disperate. Paolo, dalla sua cameretta, rimane traumatizzato. Si ripromette di non prendere mai, in vita sua, un aereo.

Non poteva sapere che sarebbe diventato il maggior cannoniere in attività della storia del calcio peruviano e che di aerei ne avrebbe dovuti prendere parecchi. Tra cui, quello che lo avrebbe portato in Russia a disputare un Mondiale in cui in teoria non ci sarebbe dovuto essere, e in cui sarebbe partito in panchina, entrando a poco meno di mezz’ora dalla fine contro la Danimarca, con i suoi in svantaggio per 1-0, rischiando di acciuffare un pareggio disperato con un colpo di tacco.

Foto di Jan Kruger / Getty Images

La storia di Paolo Guerrero, anche al netto di un gol di tacco che sarebbe entrato nella leggenda, è già di suo una di quelle storie perfette da raccontare durante un Mondiale, perché parla di un giocatore lontano dalla celebrazioni quotidiane, di un onesto centravanti che contro ogni pronostico, ogni avversità, ogni resistenza, vede il suo mito prendere forma tra i confini amici, per esondare di fronte al Mondo.

Per capire la ragione per cui la storia di Guerrero si è trasformata in una specie di intimo e circoscritto mito, bisogna interpretare gli ultimi sette mesi della sua vita. Sono questi mesi difficili il prisma attraverso il quale guardarlo al Mondiale, ma non bisogna dimenticare i presupposti.

Guerrero è riuscito a scendere in campo, in Russia, anche sa da sostituto e senza fascia da capitano al braccio, per ora (con la Francia, secondo l’Equipe, dovrebbe partire titolare). La squalifica per doping, ritrattata, estesa, e poi infine troncata seguendo gli umori più della serialità televisiva, è stata revocata in limine all’inizio della Coppa del Mondo. Così Guerrero ci arriva da Salvatore Della Patria, pur avendo giocato soltanto due partite ufficiali negli ultimi sei mesi.

Di cui una contro la Chapecoense, come in un eterno ritorno di coincidenze, storie personali e collettive, intrecci perfetti.

In questo periodo, però, la disciplina non gli è mai mancata. Da piccolo Guerrero si autocostringeva a una vita piena di sacrifici: si addormentava presto, si svegliava prima di tutti. La madre gli aveva inculcato i principi della temperanza, proibendogli di bere bevande gassate alla “Cevicheria Mi Barrunto”, uno dei punti di ritrovo dei giovani calciatori alianzisti. Con il pallone non era estremamente talentuoso, ma si applicava in maniera quasi morbosa. Per questo Constantino Carvallo Rey, direttore del prestigioso collegio Los Reyes Rojos, lo scelse per affidargli una borsa di studio.

Per Paolo, trovarsi in un contesto straniante - Los Reyes Rojos era il collegio di riferimento della borghesia limeña, e Paolo veniva da uno dei barrios più poveri e socialmente complessi - è stata la dimostrazione prima che la sua storia ingombrante si sarebbe dovuta costruire all’interno di contesti adeguati. Anche lontano da casa, se necessario.

Buoni maestri

I profe che hanno forgiato la personalità non solo umana ma più specificamente calcistica di Paolo Guerrero sono tutti grandi personaggi, figure quasi mitiche, coerentemente al suo status di predestinato.

Il primo è stato Rafael “El Cholo” Castillo, storico scopritore di talenti dell’Alianza: è stato il “Cholo” a spostare il “Caico” tra i pali fino a farlo diventare portiere della Nazionale, e a distillare da Paolo l’essenza da centravanti. Gli regalava soldi per ogni rete segnata. «Una volta» racconta la madre «gli ha promesso 20 soles (5 euro) per ogni rete che avesse segnato in una partita. Ne segnò otto».

Ogni cerimonia del dono, come ci ha insegnato Malinowski, si basa su un rapporto di fiducia. Anche Gerd Müller ha impostato la sua relazione con Paolo Guerrero su questo tipo di dinamica - quando Guerrero è stato scelto per far parte delle giovanili del Bayern Monaco - regalandogli cioccolatini per ogni gol segnato. Nella prima stagione europea, in Regionalliga, ne ha segnati 8 in 18 partite.

Il Bayern Monaco ha investito su di lui quando aveva appena 18 anni, e non aveva ancora fatto in tempo a esordire nella prima squadra dell’Alianza. Lo ha parcheggiato nella seconda squadra, della quale l’attaccante capocannoniere del Mondiale ‘70 era responsabile tecnico. Müller lo chiamava “Teófilo Cubillas”, il nome del calciatore probabilmente più talentuoso che il calcio peruviano abbia mai saputo esprimere, che Gerd conosceva bene per averci giocato insieme, per tre stagioni, in Florida.

Nel giro di due anni sarebbe diventato pronto per la Bundesliga, alla quale si presentò con tre reti in tre partite.

Foto di Andreas Rentz / Getty Images

Diventare un predatore

Se analizzassimo Paolo Guerrero solo per la sua carriera europea, ci troveremmo a commentare la parabola ordinaria di un centravanti solido ma poco prolifico, con una media di cinque gol a stagione, che non ha saputo reggere il confronto intestino con Claudio Pizarro in Bavaria né con le aspettative e ha dovuto spostarsi all’estremo nord, ad Amburgo, per ritagliarsi uno spazio tutto suo. Un’enclave in cui cercare di materializzare l’aura che il soprannome che gli era stato cucito addosso, “El Depredador”, potesse risultare almeno un po’ credibile.

Un calciatore prono ai colpi di testa, suscettibile, che colpisce al volto un tifoso della propria squadra dopo essersi sentito urlare contro «tornatene in Perù». Che dipinge sulla sua pelle, negli anni, come l’uomo al suo stadio primitivo sulle pareti delle caverne, le scene che ne hanno costellato la crescita, le personalissime tappe della sua Passione: un leone, simbolo di forza e aggressività, e la silhouette di un aereo, come a esorcizzare le paure più profonde, sul collo; i simboli di una cultura, quella Inca, che porta inscritti nel DNA ma ha sempre vissuto da lontano, sulle braccia; un’affermazione di amore nostalgico sul petto, “te amo Perù”, e una citazione leopardiana sul basso ventre: “Nulla si sa, tutto s’immagina”.

E poi Vergini, croci e due Cristi, sulle mani. Tatuaggi in zone del corpo sensibili, tatuaggi dolorosi, immagino, come cilici di inchiostro, testimonianze indelebili di perseveranza.

Foto di Alexandre Loureiro / Stringer

Lontano dalla Germania, invece, a casa sua, anche se non è mai davvero stata casa sua, cioè in Perù, Paolo Guerrero si è costruito un Tempio D’Oro inscalfibile.

Secondo Antenor Guerra García-Campos, autore di una fondamentale storiografia del calcio peruviano, sono tre i calciatori imprescindibili per coglierne la vera essenza: Lolo Fernandez, idolo dell’epoca pionieristica, Cubillas e Paolo Guerrero, «rappresentante del Rinascimento del calcio peruviano».

Paolo ha trascinato la Blanquirroja in Copa América per due volte al terzo posto, nel 2011 e nel 2015, laureandosi capocannoniere in entrambe le edizioni, due consecutive: non succedeva dalla preistoria della Copa, edizioni 1923 e 1924, quando a riuscirci era stato l’uruguaiano Pablo Petrone.

Nel 2016 ha superato Cubillas nella classifica dei massimi cannonieri nazionali, segnando il suo ventiquattresimo gol, e soprattutto si è reso protagonista, da terminale offensivo praticamente mai in discussione, di una delle nazionali peruviane più concrete ed esteticamente godibili della storia, capace di rimanere invitto per un anno intero (sei vittorie e quattro pareggi) e di guadagnare la più alta posizione nel Ranking FIFA, l’undicesimo posto.

Per cristallizzare la sua figura c’era bisogno di un ultimo, apparentemente irraggiungibile, traguardo: portare il Perù al Mondiale, dopo trentasei anni.

Campione del Mondo (prima di disputare una Coppa del Mondo)

In realtà Paolo Guerrero sul tetto del mondo ci si è già arrampicato, anche se non con la camiseta blanquirroja indosso. Nel 2012 ha deciso di abbandonare l’Europa, e di firmare per il Corinthians. Il Timão, allenato da Tite che oggi siede sulla panchina del Brasile, quell’anno è campione uscente della Libertadores, e ha un appuntamento con il Mondiale per Club.

In Giappone, Paolo Guerrero segna in semifinale, contro gli egiziani dell’Al Ahly: non è una rete esteticamente bella, però è eminentemente guerreriana, un colpo di testa preciso ma non arrogante, che prende in controtempo il portiere africano.

I Mondiali per Club si trasformano spesso, dopo le schermaglie interlocutorie, nell’eterna contrapposizione tra due scuole calcistiche, quella europea e quella sudamericana.

Il gol che ragala al Timão la vittoria finale è sempre di Guerrero, e in qualche modo è una dimostrazione di forza - stavolta sì - tracotante.

Il movimento a tagliare dentro l’area, che trascina dietro di sé Ivanovic e Cahill lasciando a Paulinho lo spazio sufficiente per servire un assist a Danilo, e il tempismo con il quale si avventa sulla ribattuta di Cech per insaccare, con una frustata, il pallone alle spalle di tre giocatori del Chelsea piazzati sulla riga di porta, ci restituisce l’immagine di un calciatore finalmente emancipato, decisivo, imponente. Un calciatore che cambia dimensione, passando da Paolo a Guerrero, omen nomen, nell’immediatezza di un istante.

Fuori dallo stadio del Corinthians i tifosi erigeranno un murale enorme, un tributo e il tentativo di fissare un’immagine irripetibile allo stesso tempo. Un murale che resiste allo scolorire del tempo anche quando Paolo sceglie di lasciare San Paolo per abbracciare Rio e una delle squadre più iconiche della capitale carioca, il Flamengo.

L’apoteosi

Se la punizione calciata alla Bombonera negli ultimi minuti della sfida all’Argentina si fosse trasformata in gol, lo scorso ottobre, probabilmente oggi Guerrero godrebbe di uno status mitico ben oltre i confini peruviani. Sarebbe passato alla storia come il boia dell’Albiceleste, il giocatore che non l’ha fatta qualificare al Mondiale (l’Argentina rimase in corsa per la qualificazione solo grazie alla sconfitta interna della Colombia con il Paraguay, andandosi a giocare tutto all’ultima giornata con l’Ecuador).

Forse in Brasile il suo culto sarebbe lievitato superando le rivalità interne. Ed è sempre grazie a una punizione, calciata il 10 ottobre del 2017, che il suo nome è riuscito a installarsi per sempre in cima al gotha calcistico peruviano. Una punizione magari meno bella di quella di Teófilo Cubillas al Mundial del ‘78, eppure altrettanto astuta, e grazie al contributo di Ospina, decisiva: con quel gol il Perù infatti è riuscito a superare il Cile nell’ultima pazzesca giornata delle qualificazioni CONMEBOL, e a qualificarsi per la sfida di ripescaggio contro la vincente del turno Oceanico, la Nuova Zelanda.

L’ultimo tatuaggio di Paolo Guerrero, in ordine cronologico, è la successione di due lettere, il tratto leggero, sulla clavicola: “fé”, fede. E prima di ritrovarsi protagonista in Russia, Paolo Guerrero ha dovuto affrontare una sua personale Passione, da solo nel deserto, lontano da tutto, con solo la sua fede, appunto.

I risultati del test antidoping effettuato dopo la partita della Bombonera, infatti, trovano Guerrero positivo alla benzoilecgonina, il metabolita principale della cocaina. Il 30 novembre la FIFA decide di sospenderlo provvisoriamente, per un mese, giusto il tempo che i risultati dell’inchiesta vengano accertati. Tagliando fuori di fatto Guerrero dalle due sfide più importanti che il Perù abbia dovuto affrontare nell’ultimo decennio.

Guerrero è solo, ma al Perù manca il capitano, il giocatore più forte e carismatico. Così, quando Farfán, nella gara di ritorno a Lima, segna il gol che spiana la strada alla vittoria peruviana, in lacrime mostra allo stadio la maglia del numero nove e capitano: il vessillo della riscossa, o il tributo calcisticamente postumo a una mancanza potenzialmente incolmabile.

8 Dicembre 2017

Sono passati esattamente trent’anni dal disastro del Fokker F-27, dalla morte dello zio, e per Paolo Guerrero arriva il giorno più buio della sua carriera. La FIFA conferma la sanzione della sospensione: per un anno, vale a dire il tempo sufficiente a non permettergli di giocare la Coppa del Mondo.

La giustizia e la fiaba appartengono a due sfere semantiche diametralmente opposte, in parte antitetiche: al mondo terreno la prima, al sostrato mitico la seconda. Quando l’una contamina l’altra, o entrano in competizione, si creano voragini in cui ogni sviluppo, per non parlare del finale potenziale, assume contorni conturbanti, per certi versi magici.

La battaglia legale di Guerrero è un’aura epica che coinvolge tutto il Paese e anche chi non dovrebbe interessarsi all’esito della questione. Anzitutto la teoria difensiva degli avvocati di Guerrero tiri in ballo mummie cinquecentenarie e riti Inca: secondo gli avvocati l’assunzione di cocaina da parte di Guerrero sarebbe stata precedente alla partita con l’Argentina, e il metabolita non sarebbe che la traccia di rimasugli di foglie di coca disciolte in un tè, che tende a rimanere nell’organismo molto a lungo, proprio come le analisi sulle mummie Inca dimostrerebbero, e forse va specificato che a quei tempi la cocaina come la conosciamo noi non esisteva neanche.

Ma anche il trasporto emotivo con cui i capitani delle Nazionali avversarie hanno perorato la sua causa non ha fatto che rendere la sua richiesta difficile da negare, e in effetti è stata una delle motivazioni per la sospensione della squalifica. La battaglia legale del “Depredador”, che si appella al TAS e inizia una corsa contro il tempo per la sua assoluzione (con tanto di inasprimento della pena intermedio), è stata essenzialmente «per il mio onore e per quello della mia famiglia», come dice Paolo con la voce quasi spezzata, quando ormai è maggio e una rassegnazione disperata sta prendendo il sopravvento.

La preoccupazione maggiore, diceva, non era giocare la Coppa del Mondo, ma gli effetti che la conferma della sospensione avrebbe potuto avere sui genitori. «Mio padre e mia madre sono le persone più importanti della mia vita. Vederli così tristi, così preoccupati, che non possono dormire perché sanno che non potrò vivere il mio sogno, è questo l’aspetto peggiore».

All’inizio del 2017, in Perù è stato presentato un film che ripercorre i primi anni della carriera di Guerrero. In una delle parentesi meno credibili e più sentimentali del film, il giovane Paolo si trova sulla spiaggia di Copacabana, inquadrato in controluce come un Cristo, e guarda il Paolo Guerrero “del futuro” che sta palleggiando. I due entrano in confidenza: è normale che il piccolo voglia sapere, dal suo io proiettato nel futuro, cosa lo attenda.

«E andremo alla Coppa del Mondo?», gli chiede.

Il Paolo Del Futuro sorride, scuote la testa. Abbozza un sorriso. «Ancora no», risponde.

Quando il film è stato girato, il Perù languiva lontano dalla quinta posizione che permetteva di coltivare il sogno della qualificazione: nelle prime sei partite di qualificazione non aveva raccolto neppure una vittoria. A distanza di un anno, la scena sembrava essersi fatta tremendamente premonitoria.

«Sono uno che lotta», ha sempre dichiarato Paolo. «E sempre ho lottato di più quando il cammino si è fatto impervio. Continuerò a lottare, farò tutto quel che potrò per giocare questa Coppa. Non mi addormenterò mai, né abbasserò la testa».

Non è detto che la storia di Paolo Guerrero, gli sviluppi dell’ultimo semestre, siano edificanti. Secondo il capitano della Svezia Andreas Granqvist, ad esempio, no. Però di certo sembra una favola, per di più a lieto fine, di quelle che fanno emozionare le tifoserie e i produttori di televisori. A pochi giorni dall’inizio della Coppa del Mondo la FIFA ha invalidato la sentenza di sospensione, permettendo a Guerrero di poter vivere “il suo sogno”.

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