Questa estate l’annuncio dell’arrivo di Montero alla Sambenedettese ha sorpreso un po’ tutti. Da diverse settimane la società era avvolta in un silenzio tombale, e tutto intorno si respirava un clima di rassegnazione, sia per le delusioni del campionato precedente che per le insistenti voci su una possibile cessione. In questo senso, l’arrivo del tecnico uruguaiano è stata una vera e propria dichiarazione d’intenti, alla quale il presidente ha aggiunto, semplicemente: «Adesso che è arrivato Montero dove volete che vada?».
La sua presentazione ha portato a San Benedetto più di 100 giornalisti accreditati da tutta Italia, un numero enorme per una squadra di Serie C. Un’attenzione mediatica del genere può sorprendere, ma solo fino a un certo punto: Montero aveva lasciato il nostro calcio nel 2004, ma negli anni la sua immagine non è mai sfumata, trasformandosi nel paradigma di un certo tipo di calcio, oltre che di un certo tipo di difensore.
Non deve sorprendere neanche il suo ritorno in Italia, un paese che Montero ha definito più volte la sua seconda casa, e dove aveva già in programma di trasferirsi in pianta stabile con la famiglia. Il matrimonio con la Sambenedettese può sembrare una mossa mediatica, ma in questi quattro mesi di campionato Montero ha dimostrato di essere un allenatore vero, con ambizioni che vanno oltre la Serie C. Lo scorso anno ha seguito il primo corso speciale a Coverciano, conseguendo la qualifica UEFA A, e prima di accettare la Sambenedettese ha chiesto e ottenuto la possibilità di avere a disposizione il tempo per seguire il corso UEFA PRO, che gli permetterà di allenare anche in Serie A e Serie B.
Prima dell’intervista sono andato a seguire uno dei suoi allenamenti. Montero ha 48 anni compiuti, indossa gli occhiali e ha un fisico più asciutto di quando giocava, ma dentro di lui è ancora viva l’anima del giocatore: durante il primo riscaldamento della squadra lo vedo correre su e giù per il campo, e appena passa vicino un pallone lo accarezza con l’interno e l’esterno del piede, con un sorriso da bambino. Durante le fasi più intense dell’allenamento quasi accompagna la corsa dei giocatori, incitandoli e dando loro indicazioni. Capita lo stesso anche durante le partite, dove si è già beccato tre ammonizioni per essere uscito dall’area tecnica.
Rossoblù
A vederlo così viene difficile pensarlo lontano dai campi, anche se inizialmente la sua idea era quella di fare il procuratore, con l’obiettivo di promuovere i talenti uruguaiani, dare loro le stesse possibilità che lui aveva avuto. L’esperienza è durata pochi anni, poi ha cambiato strada. Gli chiedo per quale motivo: «Mi sono reso conto che non era il ruolo per me», mi dice. «L’ho fatto per quattro anni, ma non mi piaceva stare lontano dalla mia famiglia. Io ammiro molto i procuratori, perché fare bene quel lavoro significa essere sempre in viaggio, stare più fuori che dentro… Un’altra cosa che non mi è mai piaciuta è discutere per i soldi, e quando fai il procuratore la cosa di cui più parli di più sono proprio i soldi. Si parla poco della qualità del giocatore e tanto di quello che può costare. Un giorno mi sono svegliato e ho deciso di iniziare il corso di allenatore».
Si dice che il tempo sia come una clessidra, che deve sempre rovesciarsi per poter ricominciare a scorrere. Montero aveva iniziato e chiuso la sua carriera con la maglia del Peñarol, la sua squadra del cuore, e ha iniziato la sua seconda vita partendo sempre dagli stessi colori.
Ha iniziato allenando nella reserva dei Carboneros, la nostra primavera; dopo dieci mesi è stato chiamato in prima squadra per sostituire il dimissionario Fossati. È restato in carica per tre partite, giusto il tempo di guidare la transizione prima dell’arrivo di Bengoechea. Da lì è iniziata la sua carriera nel calcio professionistico: Boca Unidos, Colón e la grande chance nel Rosario Central.
Lì c’era da sostituire “El Cacho” Coudet, un vero e proprio idolo delle "Canallas", e bisognava rimettere in sesto la squadra, finita in zona retrocessione. Nel primo semestre ha un grande impatto: il Rosario raddoppia il suo rendimento, viaggiando a una media di 1,81 punti a partita, e risale 9 posizioni in classifica, chiudendo al 12esimo posto. Nel secondo semestre partono diversi giocatori importanti, e le cose vanno diversamente. Il campionato inizia male, e dopo l’uscita nella semifinale di coppa argentina Montero decide di dare le dimissioni.
Gli chiedo se ha qualche rimpianto, o se tornando indietro avrebbe fatto qualcosa di diverso: «Non cambierei mai nulla, come non cambierei nulla delle altre esperienze, ma so che devo crescere. Per me l’importante è non ripetere gli sbagli, ma all’inizio è normale peccare di inesperienza. È come quello che succede da giocatore: sbagli e cresci, sbagli e cresci. L’importante è non ripetere gli stessi sbagli, sennò sei stupido. Alleno più o meno da quattro anni, contando anche nelle giovanili, devo fare ancora molta esperienza; ed esperienza significa anche imparare dai propri sbagli».
Marche, Sudamerica
Dopo aver lasciato Rosario Central, Montero ha deciso di fermarsi per un anno, allo scopo di aggiornarsi e studiare gli altri allenatori. Poi è arrivata la decisione di trasferirsi in Italia, per allontanarsi dalle difficoltà presenti in Uruguay e in tutto il Sudamerica. Nel 2018 ha seguito il primo corso speciale a Coverciano, e nel frattempo ha iniziato a preparare il trasferimento in Italia con il resto della famiglia, che era in programma per il prossimo gennaio.
Foto di Clive Brunskill / Getty Images.
Ad accelerare le cose ci ha pensato Pietro Fusco, direttore sportivo della Sambenedettese, che dopo aver appreso le intenzioni del tecnico uruguaiano ha deciso di fargli un’offerta per la panchina dei rossoblù. La trattativa è durata pochissimo: «Dopo la telefonata di Fusco sono andato a Roma e poi dal presidente Fedeli. Ci è bastato lo sguardo, la chimica. Fusco lo conoscevo da giocatore, non personalmente, ma ci siamo trovati subito. Veniamo dalla stessa generazione e abbiamo le stesse idee, nel calcio e nella vita».
Per iniziare la sua seconda vita in Italia Montero ha scelto una delle piazze più sudamericane della Serie C. In molti ricordano la Sambenedettese per gli anni ruggenti del “Ballarin”, la Fossa dei Leoni, un catino dove i giocatori sentivano “la gente che soffiava vicino”, e il tamburo della curva trasformava tifosi e squadra in un tutt’uno.
Dopo il dramma del rogo (la più grave tragedia occorsa in uno stadio italiano) la Sambenedettese si è spostata al “Riviera delle Palme”, il teatro dei playoff di Serie C contro Pescara e Napoli, ma anche e soprattutto dell’incredibile salvezza del 2006, con la società tecnicamente fallita e la squadra che per buona parte della stagione è andata avanti col supporto dei tifosi, in completa autogestione. Simbolo e paladino di quella squadra è stato proprio un difensore uruguaiano, Damián Macaluso, che otto anni fa era nel Peñarol, allenato brevemente da Montero.
Nel frattempo la Sambenedettese ha sofferto altri due fallimenti, ma la fiamma della tifoseria non si è spenta: la scorsa stagione, chiusa con un deludente nono posto, la Sambenedettese è stata la terza squadra del girone per media spettatori, quest’anno è l’unica città che supera le 3 mila presenze di media (3.529) senza essere un capoluogo di provincia.
Alla prima esperienza da allenatore in Italia, Montero non ha deluso, costruendo una squadra da un’identità forte, capace di giocare alla pari con squadre come Triestina, Piacenza e Padova, tre delle favorite alla vittoria finale. Per lui è una categoria nuova, ma sapeva già a cosa andava incontro: «In Italia la Serie C è sempre stata considerata una categoria importante, quando ero giocatore qui e ci trovavamo ad affrontare una squadra della terza serie sapevamo già che sarebbe stato difficile. Nella mia epoca – come oggi, del resto – la Serie C era vista un po’ come un vivaio, tante squadre mandavano i loro giovani qui per farli giocare e valutarli».
In questo momento è un vivaio anche per Montero, che ha scelto questa serie per iniziare la sua carriera italiana. Gli chiedo quali siano le differenze con il calcio sudamericano, ora che ha vissuto entrambi i mondi con l’occhio del tecnico: «Considerando i campionati dove ho allenato io, Uruguay e Argentina, la differenza è soprattutto tattica. Per sopravvivere le squadre in Sudamerica devono vendere i giocatori, e li vendono troppo giovani. In Uruguay ci sono delle squadre in cui il giocatore più anziano ha 23 anni».
È normale che il lavoro del tecnico diventi un po’ diverso: «Con squadre così il lavoro principale è quello tattico perché ci sono ragazzi che arrivano molto presto in prima squadra, e magari non hanno ancora completato il loro percorso di crescita. In questi casi i giocatori possono commettere errori tattici, ma a livello fisico sono già pronti. Se vai a vedere i dati e le statistiche del campionato argentino ci sono numeri simili a quelli dell’Italia; le differenze le vedi nella qualità tecnica, perché i migliori argentini, uruguaiani e brasiliani vanno nei campionati europei».
Per il resto, la differenza principale sta proprio nel bagaglio tattico, che in Italia resta un fattore preponderante. Per citare Montero, in Italia anche i bambini dentro la pancia sanno fare le diagonali. Il tecnico uruguaiano ha accettato la sfida della Serie C con umiltà, considerandolo un passaggio fondamentale nel suo percorso di crescita: «Questa è sicuramente una gavetta importante, si incontrano tecnici importanti e squadre con un grande blasone. Gli allenatori italiani a livello tecnico-tattico sono preparatissimi, e non a caso la vostra scuola è rinomata a livello mondiale. Io sono qui solo da quattro mesi, ma sento di essere già cresciuto molto».
Scrollarsi le etichette di dosso
Molti si aspettavano che il Montero allenatore fosse un’estensione del Montero giocatore, come personaggio e soprattutto come approccio al calcio. «Quando sono arrivato in Italia si aspettavano tutti che andassi dai giocatori a urlare “Guerra, guerra, guerra”» mi dice mimando dei colpi nell’aria, «perché con me è rimasta l’immagine del giocatore che faceva a botte. La verità è che a me piaceva giocare a calcio, da giocatore e da allenatore».
Certe etichette sono difficili da staccare, specie quando il personaggio si espande al punto da diventare un simbolo. Il Montero giocatore è visto come la rappresentazione di un calcio duro e austero, quasi violento, che ha portato tanti a trattarlo come un mezzo pazzo nel migliore dei casi, e come un delinquente nei peggiori. Si ha sempre un’immagine “severa” di Montero, ma nel primo confronto faccia a faccia mi dà la stessa impressione che mi ha dato in tutte le altre conferenze: quella di una persona amichevole e disponibile. Per questo motivo mi viene più semplice chiedergli conto della sua “fama”.
«Queste cose non mi hanno mai interessato», mi risponde. «Ognuno ha la sua interpretazione personale. Io e te stiamo parlando adesso, ma poi tu tornerai a casa e scriverai da solo, e quello che scriverai dipenderà sempre dalle tue riflessioni. Non sono mai stato uno di quelli che fa il simpatico coi giornalisti per prendere un voto in più in pagella. Ci sono anche quelli che lo fanno, alcuni li ho avuti anche come compagni di squadra… Del resto il mondo del calcio è fatto così: ci sono brave persone, e ci sono persone finte».
La sincerità è uno dei tratti più evidenti di Montero, oltre che uno dei più spigolosi. Nella sua carriera non ha mai parlato tanto. Da allenatore è molto più esposto mediaticamente, ma l’atteggiamento è rimasto lo stesso: «Con i miei giocatori cerco di avere un rapporto sincero, cerco di essere come volevo che fossero i miei allenatori con me. Del resto, i rapporti si sviluppano in questo modo; ci possono anche essere disaccordi, a volte è positivo. Io ho discusso con tutti i miei allenatori, ma ho sempre avuto un ottimo rapporto personale».
Per i suoi allenatori non deve essere facile tenergli testa. A Bergamo ricordano bene la sua testardaggine: quando arrivò all’Atalanta aveva solo 21 anni, ma quando Lippi provò a impiegarlo come terzino non ebbe problemi a dirgli «O centrale, o non gioco», e alla fine giocò centrale. L’anno successivo arrivò Guidolin, che dopo l’esonero lo accusò di essere uno dei tre ribelli che avevano stravolto lo spogliatoio (ma Montero aveva solo 22 anni, e ha sempre smentito). Nonostante le intemperanze della gioventù i suoi tecnici l’hanno sempre tenuto in grande considerazione, tanto che poi Prandelli decise di opporsi alla sua cessione, e pochi anni dopo Lippi decise di riprenderselo alla Juventus.
Nel corso della sua carriera ha avuto la fortuna di incontrare tanti grandi allenatori, da Menotti a Mondonico, da Lippi a Capello, ma anche Ancelotti e Prandelli. Gli chiedo quale sia stato l’insegnamento più importante: «Ho fatto tesoro di tutto quello che mi hanno insegnato, ma l’aspetto da cui ho “rubato” di più è la gestione. La tattica è importante, ovviamente, la strategia pure, anche perché i giocatori lo capiscono se sei preparato o no. Ma la cosa più importante è sempre la gestione. Quella è sacra».
In questa stagione la Sambenedettese ha inserito 11 nuovi giocatori, praticamente mezza squadra, ma già dalle prime giornate ha mostrato un’identità ben definita. Al suo arrivo i tifosi chiedevano soprattutto grinta e carattere, ma Montero sta portando avanti un progetto tattico ambizioso. La sua Sambenedettese ha un atteggiamento coraggioso e propositivo, che mette al centro la tecnica e punta a controllare il gioco attraverso il possesso, usato per gestire i ritmi, aprire spazi e tenere il più alto possibile la linea difensiva. In una delle sue prime conferenze stampa Montero ha detto: «C’è qualche ma il rischio è anche adrenalina. Dove preferisci morire in guerra te, in prima fila o in terza fila? Io in prima fila».
Nel calcio non ci si inventa nulla
La Sambenedettese rappresenta un progetto tecnico molto interessante, ma quando parlo di “idee moderne” Montero mi blocca: «Sono cose che mi chiedevano anche i miei allenatori. Si pensa al calcio di qualche anno fa come a un calcio solo difensivo, ma quando giocavo nella Juve – con Lippi, Ancelotti e Capello – anche loro ci chiedevano di arrivare a metà campo con la linea difensiva. Nel calcio non ci si inventa mai nulla, semmai si rielabora».
Nella sua prima conferenza stampa una delle frasi chiave del tecnico è stata sul ruolo del difensore centrale, che nel calcio moderno deve ragionare come un centrocampista. «Escludendo il portiere è il ruolo che è più cambiato più di tutti, secondo me. Adesso i centrali devono saper giocare il pallone e leggere bene il gioco, perché il possesso da dietro è troppo importante. Stesso discorso per i mediani, che ai miei tempi erano giocatori prettamente difensivi, ma adesso devono saper pensare come un vecchio numero 10».
Montero ha trasposto queste convinzioni anche in campo, a partire proprio dal lavoro dei due centrali, chiamati a partecipare attivamente alla fase di impostazione, con l’aiuto del portiere e del mediano, per aprire spazi e spezzare la prima linea di pressione, anche a costo di prendere qualche rischio.
Qui alcune uscite della Samb: tra i due centrali Miceli è quello che prova di più il gioco lungo, mentre Di Pasquale rischia spesso la conduzione. Davanti a loro gioca Angiulli.
In Serie C non mancano squadre con idee di gioco innovative e interessanti, ma il lavoro di Montero alla Sambenedettese resta inusuale per la categoria. Il tecnico uruguaiano ha i suoi principi, ma non è un integralista; il suo resta un approccio bottom-up, influenzato dal materiale tecnico a disposizione: «I giocatori hanno le loro qualità, devi essere bravo a riconoscerle; una volta che l’hai fatto devi capire come usarle, cercando di sfruttarle al meglio».
Questa estate Montero ha lavorato insieme al DS Fusco, ma le prime valutazioni sono partite dai giocatori già a disposizione: «Secondo me i giocatori più “distintivi” di una squadra sono i difensori centrali. Studiando i nostri ero convinto che avessero le qualità per fare quello che chiedo loro. Con giocatori diversi avrei dovuto cambiare io, magari abbassando la linea difensiva».
A inizio stagione la Sambenedettese era stata criticata per l’atteggiamento “troppo spregiudicato”, ma per il tecnico uruguaiano il controllo del pallone e dello spazio resta il metodo migliore per difendersi: «Il possesso palla è importante, però devi averlo nella metà campo avversaria, altrimenti è inutile; bisogna essere sempre propositivi. Davanti puoi anche sbagliare il passaggio, ma poi i tuoi avversari devono fare 50-60 metri, e non è semplice. Torno al discorso di prima: io non ho inventato nulla, questi sono i principi che mi hanno insegnati i miei allenatori. I vantaggi di giocare con la linea difensiva alta li ho imparati nel 1991 con Menotti».
«Pensa a Guardiola», aggiunge. «Quando ha deciso di fare l’allenatore dove è andato per primo? Da Menotti, da Bielsa e da La Volpe. Il calcio è calcio, non c’è mistero. Lui ha “rubato” dai grandi, ha messo tutto nel frullatore e poi con la sua intelligenza, che è fenomenale, ha tirato fuori qualcosa di diverso».
Questo processo di trasformazione è lo stesso che sta applicando il tecnico uruguaiano, che “nel frullatore” ha aggiunto un po’ di tutto, dalla sua esperienza personale allo studio teorico, fino al confronto diretto con gli altri tecnici: «Io ho avuto la fortuna di parlare e conoscere tanti uomini di calcio, e continuo a crescere confrontandomi con loro. Cerco di imparare da chiunque, rubando e approfondendo le cose che più mi interessano. Quando posso seguo anche gli allenatori di altri sport, come Scariolo e Messina».
Di Messina sapevo già, perché Montero l’aveva citato pochi giorni prima in una conferenza stampa. In questi mesi il tecnico uruguaiano ha gestito molto bene il rapporto con la stampa locale, dimostrandosi coinvolgente e razionale anche nei momenti più difficili. Il calcio di provincia è spesso reazionario, ma il tecnico uruguaiano sta convincendo molti, nonostante l’iniziale diffidenza. Nel comunicare le sue idee Montero ripete sempre che il calcio è semplice, anche se spesso si trova a veicolare anche concetti tattici più complessi. Mentre gliene parlo mi interrompe: «Perché complessi?».
«Te la faccio più semplice. Per prima cosa voglio che i miei giocatori stiano nella metà campo avversaria; secondo, voglio che sappiano fare bene le marcature preventive; terzo, devono sapere passare la palla ai compagni. E poi, ovviamente, devono sapere metterla in porta. Tutto qua, non è difficile. La cosa più complicata è il difendere, soprattutto quando giochi contro squadre più forti di te; in quel caso devi essere umile e studiare strategicamente come gestire la partita. Il calcio non è difficile, quello que pasa (che succede, nda) è che spesso si tende a complicare le cose. Poco tempo fa abbiamo ascoltato una lezione di Allegri a Coverciano. Quello che dice è vero, lo sta dicendo lui come lo dicono molti altri: il calcio è più semplice di quello che la gente pensa. Molti credono che Allegri, Guardiola, Ancelotti e Lippi si inventino chissà che, ma spesso i loro allenamenti sono i più semplici. Quello che cambia è nei contenuti, perché loro leggono bene le partite e sanno trasmettere al meglio i loro concetti».
Montero dà molta importanza all’aspetto empirico, ma non trascura nemmeno il lato più “scientifico” del calcio, come dimostrano l’utilizzo del drone durante gli allenamenti e quello delle pettorine GPS durante la partita. Non è neanche un caso che si trovi spesso a citare i dati degli analisti sulla squadra, dal baricentro medio alle zone di controllo del possesso: «Le statistiche sono importanti perché ci aiutano a valutare oggettivamente le prestazioni dei giocatori. Il drone serve soprattutto a me, così posso controllare se ci sono stati movimenti o situazioni sbagliate, e ho modo di correggerle. Questi strumenti sono ormai la base del nostro lavoro, ma l’esperienza dell’occhio resta importantissima».
Nonostante parli come un veterano Montero ha una carriera ancora giovane, e fin dal suo arrivo in Italia ha ribadito di essere qui anzitutto per imparare. Durante l’intervista mi confessa di guardare tutte le partite che può, in Serie A, B e in Champions. Gli chiedo se c’è qualche squadra che lo interessa in particolare: «Da qualche settimana ho iniziato il corso a Coverciano, e di volta in volta ci focalizziamo su delle squadre. Adesso sto seguendo con molta attenzione il Genoa di Thiago Motta, che oltre a essere un grande allenatore è anche una grandissima persona». I due si sono conosciuti lo scorso anno, seguendo il corso speciale a Coverciano, e dato che entrambi sono iscritti al corso UEFA Pro ci si ritroveranno a breve.
Thiago Motta è stato catapultato improvvisamente in Serie A, dove non sta sfigurando. Montero ha iniziato un paio di categorie più in basso, ma l’impressione è che ha le possibilità per risalirle.