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L'arte del gol di Paolo Rossi
11 dic 2020
9 gol per ricordare Pablito.
(articolo)
26 min
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Il suo gol preferito (Italia-Brasile, Mondiale ‘82)

Di Daniele Manusia

Paolo Rossi sottolineava sempre la sua forza di volontà. La «voglia di arrivare», ha detto in quell’unica occasione - o, meglio, occasione unica - in cui ho potuto parlarci insieme a Emanuele Atturo. È diventato quello il suo “mito”, il calciatore senza doti fisiche o atletiche straordinarie, «un ragazzo come noi» cantato da Venditti, che ha segnato tre gol al Brasile e ha vinto il Pallone d’Oro. Così, per caso, o per volontà divina. Ovviamente non può essere vero fino in fondo e Paolo Rossi aveva anche qualcosa di straordinario, qualcosa che non tutti hanno, una vitalità spiccata che in termini sportivi definirei intensità. Un insieme di concentrazione, attenzione, riflessi. Paolo Rossi giocava sulla punta dei piedi, sempre pronto allo scatto decisivo, più sensibile e ricettivo degli altri giocatori in campo, dei difensori che lo marcavano. Con una capacità di vedere e prevedere sviluppatissima. Noi ci accorgiamo di quel singolo movimento, quello immediatamente precedente al gol, e lo chiamiamo “guizzo”, diamo merito al suo “istinto”; ma dietro c’erano cento scatti inutili, mille movimenti fatti in funzione del difensore, della palla, o di entrambi. Paolo Rossi in area di rigore era uno sciamano in cerca di segni, brancolava nel buio aspettando l’improvvisa illuminazione. Consistevano anche in questo il talento e la volontà di Paolo Rossi, in quell’appetito insaziabile che lo teneva sempre in movimento.

«Era una mia qualità, una mia forza, quella di giocare senza pallone, di non aspettare», ci ha detto lui quel giorno, al Centro Pecci della sua Prato (che non aveva mai visitato prima, ed era curioso quanto noi di trovarsi in un posto nuovo). «Non avendo un grande fisico, in un ruolo in cui bisogna avercelo - se pensiamo a quelli di oggi poi… - dovevo sviluppare altre doti». Certo, ma quella dote, una volta sviluppata, esercitata, con pazienza e fiducia, lo ha reso speciale. Per ricordarlo ho scelto il primo gol al Brasile al Mondiale del 1982, quello della svolta e che anche lui sceglieva come suo gol preferito perché «lì volevo metterlo», il pallone. Io l’ho scelto perché, prima di colpire la palla di testa sul secondo palo, e incrociarla nell’angolino opposto con la precisione di un ragioniere mancato, quale era, Paolo Rossi esegue un movimento per smarcarsi che ogni volta che lo vedo mi sembra contenga tutta la conoscenza di un grande attaccante.

Quando Cabrini prende palla lui stringe verso Luizinho, il centrale di difesa di sinistra. Sa già che Cabrini dopo aver controllato la palla crosserà e in qualche modo ha calcolato esattamente il tempo che gli ci vorrà a fare tutte le cose necessarie per trovarsi solo al posto giusto. Mentre Cabrini carica il traversone lui si stacca dal centrale, si allarga verso il terzino sinistro, Junior, gli si mette davanti e prende la rincorsa. Poi si lancia nello spazio tra i due difensori. Al di là dei trofei, dei riconoscimenti di squadra e individuali (nella mostra al Centro Pecci, l’artista Mir aveva accumulato 2500 trofei che le avevano donato delle persone, tutti speciali e con una storia da raccontare, ma tutti insieme assolutamente irrilevanti) è in gol di questo tipo di gol che si nasconde l’essenza del calcio, con cui Paolo Rossi era in contatto.

È un gol che Paolo Rossi avrebbe fatto in qualsiasi categoria, anche se non fosse diventato calciatore professionista, come a un certo punto pensava - se non fosse diventato Pablito nazionale. Ed è un gol a suo modo eterno, che potrebbe decidere anche la finale del prossimo Mondiale. Finché esisterà il calcio gli attaccanti segneranno di testa, saltando sul secondo palo tra due difensori. Soprattutto, ogni volta che vedrò un gol del genere mi tornerà in mente Paolo Rossi, e quel giorno del marzo di due anni fa in cui mi era parso così vitale e in forma che, pensavo, se avessimo giocato quello stesso pomeriggio e avessi dovuto marcarlo in area di rigore mi avrebbe fregato nove volte su dieci, nonostante la differenza di età.

Un gol maradoniano di Paolo Rossi, strano no? (contro lo Standard Liegi, Coppa Campioni 1982/83)

Di Dario Saltari

Per ragioni anagrafiche non ho mai vissuto Paolo Rossi, che ho visto solo nei video di YouTube e nelle foto d’epoca. Per me “Pablito” è sempre stato qualcosa di familiare e alieno al tempo stesso. Con quella faccia da amico di famiglia e quel soprannome affettuoso che si portava dietro, da eroe minore di un’epica nazionale che era mia anche se non aveva mai fatto effettivamente parte della mia vita, Paolo Rossi sembrava davvero - come si dice in questi casi - “una persona normale”. Paradossalmente era proprio questa sua caratteristica a rendermelo alieno: cresciuto con i giocatori iper-atletici e iper-professionalizzati degli anni ‘90, il fisico di Paolo Rossi - con il torace rachitico e le gambe secche - ha sempre avuto per me qualcosa di strano, come se provenisse da un calcio di figuranti più che di professionisti. Questa non era una caratteristica solo di Paolo Rossi, ovviamente. Lo stesso mi viene in mente quando guardo vecchie foto di Falcao o Platini. Mentre il talento di questi ultimi ha sempre richiamato il lato ultraterreno o addirittura divino del calcio, quello di Paolo Rossi aveva in qualche modo a che fare con la sua normalità. Col fatto, cioè, che fosse solo un attaccante da area di rigore, che dovesse giocare d’astuzia per aggirare i propri limiti e che il numero di gol fosse l’unico metro del suo talento. In realtà, il “fiuto del gol” non era l’unico tratto eccezionale del talento di Paolo Rossi, fermo restando che non c’è nulla di banale nel saper trasformare un’occasione in gol.

In questo gol realizzato allo Standard Liegi nella Coppa dei Campioni 1982/83, ad esempio, Paolo Rossi è costretto ad affrontare un’intera squadra schierata sotto la linea del pallone, partendo dalla trequarti. Rivedendo i filmati di quel periodo è sempre impressionante notare il livello di improvvisazione che era richiesto ai giocatori offensivi. La Juventus non sembra avere un’organizzazione collettiva per sfruttare gli squilibri tattici dell’avversario, e quando Paolo Rossi si sposta il pallone con l’esterno del destro tre giocatori avversari vanno in pressione su di lui contemporaneamente senza che questo abbia effettivamente delle ripercussioni. Il numero 9 bianconero è letteralmente un attaccante solo tra tre difensori che vogliono togliergli palla - un contesto a cui è impossibile sopravvivere senza una sensibilità tecnica e una creatività fuori dal comune. Rossi evita il primo avversario con quella che inizialmente sembra una finta a rientrare e solo in un secondo momento ci si accorge essere un passaggio verso Platini, che lo lancia in profondità.

Gli è bastato un semplice ricamo per trasformare un dribbling claustrofobico in una corsa solitaria verso il portiere avversario. Arrivato al limite dell’area, il prestigio si ripete. Rossi finta di calciare con l’interno destro per portarsi la palla sul sinistro, e il numero è talmente efficace da ingannare due avversari contemporaneamente: il difensore, che pensava di dover recuperare su un eventuale tiro sul primo palo, e il portiere, che invece credeva che avrebbe crossato in mezzo. Forse, persino in campo, Paolo Rossi veniva percepito come qualcosa di più normale di quanto in realtà non fosse. Come se nessuno credesse davvero che fosse capace di fintare un tiro e poi superare il portiere con un tiro con il piede debole.

D’altra parte, anche lui, con quel sorriso compiaciuto da bambino che ha fatto qualcosa che non pensava di poter fare, dopo aver segnato sembra esprimere una gioia inaspettata. Come se quel gol fosse un dono caduto dal cielo per lui e il suo talento non c’entrasse niente.




Il più italiano di tutti gli attaccanti (contro la Germania, finale del Mondiale ‘82)

Di Emanuele Atturo

Di fronte all’impresa compiuta contro il Brasile della “Futebol Arte”, la finale contro la Germania nella nostra memoria è stata una passeggiata, specialmente nella memoria di chi era troppo giovane per viverla davvero. Una sfilata della nostra superiorità, una partita vinta sulle ali dell’entusiasmo: «La finale contro la Germania è una passeggiata per gli Azzurri» dice Zanardi su Sfide, dove la partita è ridotta a una manciata di minuti e all'urlo di Tardelli. Ovviamente non è così: quella Germania era una squadra solida, fortissima, per certi versi più quotata dell’Italia e che aveva messo la finale sul piano della lotta. L’Italia aveva sbagliato un rigore con Cabrini nel primo tempo ed era nelle condizioni mentali peggiori. La partita l’ha sbloccata Paolo Rossi esercitando la più metafisica delle sue qualità: essere al posto giusto al momento giusto.

Dice che questo è il gol che descrive di più le sue caratteristiche, perché legge in anticipo dove andrà la palla, quindi parte qualche secondo prima del difensore, e una volta che è partito il difensore non lo riprende più. Impatta la palla con la fronte, come caricandola, e la infila alle spalle del portiere lasciandola rimbalzare. «In quel gol sono partito prima, ho cercato di rubare il tempo all’avversario, pensando che la palla potesse arrivare lì. Poi magari non ci arriva: 9 volte su 10 non arriva, ma c’è la volta in cui arriva, e allora tu ci devi andare, devi pensare che la palla possa arrivare lì. A volte vedo gli attaccanti nascondersi dietro il difensore e mi chiedo come possano pensare di fare gol».

In quel gol c’è l’idea della sfida al difensore non come battaglia fisica, né tecnica, bensì come gara d’astuzia, di lettura dello spazio e del tempo. In questo senso Paolo Rossi è stato il più italiano tra i numeri 9. Gianni Brera scrisse che «Paolo Rossi in trionfo è tutti noi».


L’arte e la preveggenza di Paolo Rossi (contro l’Austria, Mondiale ‘78)

di Marco D’Ottavi

Questo contro l’Austria è il terzo gol segnato da Paolo Rossi nel Mondiale del 1978, l’ultimo in quella edizione e, a pensarci, anche l’ultimo prima che i suoi gol Mondiali diventassero macigni in un trionfo scolpito nella storia del nostro Paese. Sembra strano a leggerlo oggi, ma in quella spedizione in Argentina Paolo Rossi partì da titolare dopo appena due presenze in Nazionale, in due amichevoli in cui non aveva neanche segnato. Aveva appena ventidue anni e - escludendo 6 presenze con il Como - aveva appena terminato la prima stagione della sua carriera in Serie A con una squadra neopromossa, il Lanerossi Vicenza.

Questo per far capire quanto fosse in qualche modo assurdo, nel 1978, vederlo come centravanti titolare di una Nazionale in grande spolvero, che oggi per molti è da considerarsi la migliore di sempre, almeno sotto il profilo del gioco. Ma per dimostrare di saper fare quello che sapeva fare Paolo Rossi bastava poco. In stagione aveva segnato 26 reti in 34 partite, numeri da attaccante moderno. Insomma non era Bruno Conti o Antognoni, per rimanere a quel piccolo universo di calcio tutto italiano, ma i gol li sapeva fare eccome anche prima del 1982. Li sapeva fare perché era scaltro e scattante. A vedere le sue foto pare un unico fascio di nervi, magro come un chiodo e sempre con gli occhi aperti, spalancati. Possiamo considerare poco nobile vivere in attesa del momento in cui il pallone bisogna solo spingerlo in rete, ma se lo trasformi in arte diventi Paolo Rossi.

L’Italia recupera un pallone nella propria trequarti e in pochi tocchi arriva a Rossi sulla trequarti. Spalle alla porta con il difensore distante due metri, chiude un triangolo con Causio passandogliela di tacco. Lo fa in maniera nervosa, come volesse dimostrare di poter fare anche lui cose complesse, anche se non c’era davvero bisogno. Dopo essersi liberato del pallone corre nello spazio ma il secondo passaggio di ritorno di Causio è corto e arriva tra i piedi del difensore dell’Austria. Quello sta correndo all’indietro e invece di spazzarla o girarsi verso il centro, tocca il pallone per continuare la sua corsa all’indietro. È difficile capire perché lo fa, forse non sa che alle sue spalle c’è Paolo Rossi, perché Rossi era leggero come una piuma che non la senti, oppure pensava di poter comunque gestire il possesso, difendendosi con il corpo, ma nel momento in cui ha deciso di giocarsela di scaltrezza con Paolo Rossi ha già perso.

Come nel secondo gol al Brasile, dove approfitta dell’errore della difesa avversaria, anche qui è incredibilmente rapido nel intuire l’incertezza e punirla con un gol. A Rossi basta mettere la punta del piede e con un diagonale lento battere il portiere che invece non l’aveva mica capito quello che sarebbe successo. Paolo Rossi capiva prima ed è per questo che quattro anni dopo sarebbe diventato Pablito Rossi.


Paolo Rossi ragazzo prodigio (Lanerossi Vicenza-Bologna, Serie A 1977-78)

Di Daniele V. Morrone

Prima di arrivare a Vicenza il ruolo di Rossi era quello di ala destra, Italo Allodi lo porta alla Juventus sedicenne definendolo il “nuovo Garrincha”. Lui si rivede in Kurt Hamrin, l’elegante ala destra svedese della Fiorentina anni ’60: «Per me Hamrin era un punto di riferimento: mi piaceva il suo modo di giocare, di fare gol. Non dico che avevo quelle caratteristiche ma in qualcosa gli assomigliavo». Succede però che nelle giovanili si ritrova con tre operazioni al menisco prima ancora di debuttare in Serie A, la Juventus diventa improvvisamente troppo grande e la sua carriera ad alto livello deve passare quindi per un ritorno futuro. La prima esperienza fuori è a Como in prestito e non va benissimo. La seconda è a Vicenza, questa volta in comproprietà e scendendo di categoria, lui decide che è l’ultima possibilità prima di provare altro nella vita.

La fortuna vuole che a inizio stagione Alessandro Vitali, la punta titolare del Lanerossi Vicenza, si ammutina e porta quindi l’allenatore Giovan Battista Fabbri a dare corda ad una delle migliori intuizioni della storia del calcio italiano: Rossi è veloce e tecnico, ma soprattutto si muove benissimo senza palla e quindi può giocare al centro del suo attacco invece che sull’esterno, essere la sua punta anche se non ci ha mai giocato. Ha scritto Sconcerti: «Era magro, aveva un’altezza normale, poteva solo contare su controllo e scatto, colpo d’occhio, posizione. Finì per farlo meglio di chiunque altro».

Fabbri è uno dei primi allenatori italiani ad attingere con successo alle idee del Calcio Totale olandese. Gioca con il 4-3-3: davanti c’è il tridente con la sua giovane punta Paolo Rossi, con sulle fasce Cerilli a destra e Filippi a sinistra, a centrocampo Guidetti, Salvi e Faloppa. Rossi ha tanto spazio per muoversi e palloni che arrivano da tutte le parti del campo. A 20 anni chiude la sua prima stagione da punta come capocannoniere della Serie B con 21 gol, aiutando la promozione del Vicenza. In estate viene convinto a rimanere, anche perché la Juventus preferisce acquistare Pietro Paolo Virdis. La prima stagione in Serie A è con la squadra confermata ed un successo storico. Racconta Fabbri che gli disse Brera: «Veramente, non avrei mai creduto che una squadra di provincia giocasse al calcio come ha giocato il Vicenza».

Io ho scelto il primo gol di una doppietta segnata al Bologna il 18 dicembre 1977. Il nono della sua stagione, all’undicesima giornata. Tre giorni dopo questa partita esordisce in Nazionale in una vittoria in amichevole contro il Belgio. Rossi ha compiuto 21 anni da poco e gioca in un calcio con ancora le immagini in bianco e nero e le partite considerate minori mostrate solo tagliate per rientrare in un servizio di pochi minuti.

In giro non ho trovato l’azione dall’inizio né replay, quindi non sono in grado di dire se l’assist arriva da un’azione in movimento o da calcio piazzato, né chi ha fatto il passaggio e neanche come Rossi è arrivato a stare spalle alla porta davanti al marcatore (che stando al numero 5 e ai capelli lunghi dovrebbe essere Mario Bellugi). Ha scritto Condò: «Paolo era un fruscio in area di rigore, quando lo avvertivi era già successo tutto, ladro di tempi di gioco come nessuno». Qui Rossi ha già guadagnato il vantaggio sul marcatore e non si possono apprezzare le sue doti di smarcamento, ma sì quelle di finalizzazione: la tecnica sobria e il controllo dei tempi di gioco.

Quello che mi piace di questo gol e il motivo per cui l’ho scelto tra i 66 con la maglia del Vicenza è la naturalezza con cui manipola queste due armi, pur sapendo che gioca da punta da poco più di un anno. Condò parla di fruscio per i movimenti, ma si può dire anche che quello dell’erba accarezzata dal vento è il rumore che deve aver fatto sulla palla il suo controllo orientato, una carezza sulla palla con il destro (il suo piede forte) per rallentarne la corsa. Poi un giro veloce come il vento che fa con il corpo in senso orario per mandare fuori dai giochi il marcatore. Eccolo il ladro di tempi: calcia in anticipo con il sinistro sull’intervento in aiuto del terzino avversario. Come tante volte sui suoi gol i difensori avversari finiscono per accartocciarsi su loro stessi, in questo caso il terzino che ha provato l’intervento inciampa sulla gamba già a terra del compagno fermo a guardare la palla che entra. Come tante volte sui suoi gol Rossi finisce per inciampare lui stesso a terra dopo aver tirato e festeggia rialzandosi e scattando allontanandosi dal pallone già in rete.

In questa stagione gioca titolare tutte e 30 le partite di campionato, segna 24 gol e diventa capocannoniere della Serie A, il primo a riuscirci l’anno dopo esserlo in Serie B. Per avere un metro di paragone al suo impatto come punta nella Serie A: il secondo nella classifica marcatori è Giuseppe Savoldi del Napoli con 16 gol. Il Vicenza chiude la stagione al secondo posto, ancora ad oggi la miglior posizione finale in classifica per una neopromossa. Enzo Bearzot capisce che ha trovato l’attaccante perfetto per la sua Italia e a fine stagione lo porta al Mondiale argentino con solo due presenze alle spalle. All’esordio del Mondiale con la Francia parte titolare e segna il suo primo gol in Nazionale.


Attaccante furbo ma anche tecnico (Juventus-Verona, 1983-84)

di Alfredo Giacobbe

Di Paolo Rossi si è sempre sottolineato quanto fosse spietato, o elettrico, in area di rigore. Si diceva anche che era un atipico, fino ai venti anni era stato un’ala destra e non sarebbe mai stato il classico centravanti, né nelle movenze né nel fisico. Aveva però in dote una divinazione magica che gli permetteva di sapere prima di tutti gli altri dove il pallone sarebbe caduto, e hai detto poco. E spesso capitava che Rossi non fosse il più tecnico tra i giocatori in campo. Per fare un esempio, nella Juventus che il 6 novembre 1983 scese in campo per affrontare il Verona c’erano, tra gli altri, Gaetano Scirea, Michel Platini e Zbigniew Boniek. Ma Rossi era anche una punta tecnica, e della bontà dei suoi fondamentali credo che non si sia scritto abbastanza.

Ho scelto questo gol perché mi stupisce, ogni volta che lo rivedo, come lo stesso giocatore riuscisse ad accoppiare la leziosità del primo controllo alla potenza del calcio successivo, che Rossi svolge un unico movimento, un continuum in splendida coordinazione. L’azione è convulsa, la Juventus batte un calcio di punizione in fretta, attaccanti e difensori corrono insieme verso la porta. Il pallone si alza dopo un colpo di testa di Domenico Penzo, Rossi ha la forza e la lucidità di fermarsi e fare qualche passo indietro, verso il punto di caduta della palla, mentre il difensore resta piantato sulle gambe, e questo consente a Rossi di guadagnare un metro di spazio al marcatore. Un metro era tutto quel che serviva al tipo di centravanti che Rossi era.

Un metro gli basta per controllare il pallone e fulminare il portiere. Come riesce ad adattare il corpo, a modificare la postura in un baleno fino a ritrovare la coordinazione, per me ha dell’incredibile. L’azione è convulsa, Rossi prima corre, poi sterza, si trova spalle alla porta. Ma è come se ce l’avesse disegnata in testa la porta, sa perfettamente dov’è e cosa serve per segnare, non ha bisogno dell’amatissima area di rigore, non questa volta. Un controllo di piatto, a guadagnare un tempo di gioco, per alzarsi il pallone di quel tanto che basta per calciare forte, di collo pieno, in mezza girata. Gol.


Un’altra categoria (Perugia-Inter, 1979-80)

di Federico Aquè

Prima dell’estate magica del 1982, Paolo Rossi era già “Pablito”. Così almeno lo chiama Beppe Viola nel servizio per la Domenica Sportiva di una partita tra Inter e Perugia giocata il 9 dicembre del 1979. Rossi gioca nel Perugia e segna entrambi i gol della sua squadra, che però perde per 3-2. Due gol di testa, beffando i difensori e il portiere, dando la sensazione di pensare e giocare su un piano diverso rispetto a tutti gli altri, di essere più furbo, più svelto, più testardo nel credere che anche certi palloni innocui e lanciati un po’ a caso in area potessero essere occasioni buone per segnare. Due gol in cui insomma Paolo Rossi si mostra nella sua versione più pura, ideale.

Il primo in particolare è un manifesto del suo calcio. Beppe Viola lo racconta così: «Ecco come fanno a rilanciare gli ospiti. Una crisi di incomunicabilità tra Bordon e Bini e tutto ritorna pari. Il primo dice “mia”, il secondo “lascia”, il terzo, Pablito è ovvio, segna il pareggio con una zuccata». L’azione è molto semplice: c’è un lancio lungo senza pretese che arriva in area, non è indirizzato verso un giocatore del Perugia in particolare e non sembra nemmeno una giocata offensiva. L’esito sembra scontato, la palla è destinata a essere controllata facilmente da un difensore interista o dal portiere e nessuno la segue. Nessuno tranne Paolo Rossi, l’unico a correre in direzione della palla, a credere di poter ricavare qualcosa anche da quel lancio. La differenza di atteggiamenti è impressionante. I difensori si fermano, sembrano disinteressati all’azione, Bini addirittura dà le spalle al pallone, mentre Bordon esce in ritardo. Rossi invece è scattante, intuisce subito l’incomprensione tra difesa e portiere. Dopo il rimbalzo è ovviamente il primo ad arrivare sulla palla, e di testa la accompagna in porta anticipando Bordon.

Quel giorno Rossi esce sconfitto da San Siro, ma conta poco per Beppe Viola, che il suo servizio lo chiude così: «Il vincitore morale è sempre lui, Pablito. Checché se ne dica in giro, è un’altra categoria».


Del suo saper essere anche un dieci (la doppietta nel derby di Milano, 1985-86)

di Fabrizio Gabrielli

Di Paolo Rossi, di Pablito, non ho una memoria storica lucida, di quelle che si formano con l’osservazione diretta: lo ricordo come si ricorda un pensiero sbiadito, un aneddoto non particolarmente memorabile, su uno dei miei primissimi album di figurine, con una maglia che avrei imparato con gli anni a riconoscergli aliena, decontestualizzata, quella del Verona. Perché certi calciatori, nell’immaginario collettivo, o meglio in quel tipo d’immaginario che finisce per rimanere cristallizzato, indossano sempre la stessa maglia, lo stesso numero, hanno la stessa posa, stanno per compiere encore, eternamente, un gesto che ne farà un dagherrotipo.

Paolo Rossi in maglia bianconera con il nove sulle spalle, Pablito vestito d’azzurro con il venti: ogni altra sua incarnazione sembra quasi strana. Non so se ha fatto lo stesso effetto nel tempo stesso in cui accadeva.

Il Milan della stagione 1985-86 è una miniera di piccole storie, e in fin dei conti la polaroid di una squadra che di lì a poco avrebbe vissuto un grande momento spartiacque: in quella stagione le maglie erano fornite da Gianni Rivera in persona (già, sponsor tecnico), gli attaccanti titolari erano Pietro Paolo Virdis e Mark Hateley, il presidente Giussy Farina, sull’orlo della bancarotta, avrebbe passato il testimone all’unico che aveva voluto sobbarcarsi i debiti con l’intenzione di provare a sperimentare una visione, Silvio Berlusconi.

Paolo Rossi, in quel Milan, è arrivato dopo un ciclo così esaltante, alla Juventus, da togliergli la voglia di continuare. Campionato, Coppa delle Coppe, Supercoppa Europea, Coppa dei Campioni: nonostante i successi Pablito si sentiva sfiduciato, svuotato, vittima di un complotto per il quale se c’era qualcuno da sostituire, quel qualcuno era sempre lui. Non sente più vicino neppure Boniperti, che pure al termine della squalifica per il Totonero era stato il primo a credere in lui.

Pablito Rossi con la maglia numero 10 del Milan, però, con quella stessa maglia che era stata (e di fatto ora era) di Gianni Rivera (ultimo italiano, prima di lui, ad aver vinto un Pallone d’Oro), nella società presieduta dal suo presidente ai tempi del Lanerossi, è un dipanarsi della trama coerente, non poi così straniante (non come sarebbe stato vedere Paolo Rossi con la divisa dei Buffalo Stallions, dopotutto fa strano anche addosso a Eusebio, no?).

Il gol che ho scelto, e l’ho scelto per un preciso motivo, è quello del 2-2 in un derby scintillante di emozioni che lui stesso aveva aperto, con un gol figlio di un tocco più astuto che fortunoso, un calcio al pallone verso terra, per farlo rimbalzare a scavalcare le gambe del portiere interista.

Ma, dicevamo, il 2-2. Il Milan è stato rimontato, ora è in svantaggio: Mandorlini respinge di testa un pallone crossato in area, una parabola sulla quale, quando vedi avvicinarsi Di Bartolomei, nella maniera in cui corre incontro al pallone e si coordina Di Bartolomei, sai già che sta per realizzarsi quel grido che oggi è cristallizzato su un muretto del Tufello, «Ago, tira la bomba».

Ed è qua che un po’ Candyman evocato tre volte davanti allo specchio, un po’ deus ex-machina, compare - in quella maniera unica che aveva di comparire, di spuntare come dal nulla per materializzarsi nell’esatto punto in cui ci si aspettasse che lui fosse, come se sapesse prevedere dove sarebbe passato il pallone, dopo aver toccato l’ultimo cuoio - Pablito. Che fa un gesto tecnico che non siamo abituati a riconoscere come suo, che non potrebbe essere la sua cifra stilistica: fa uno stop delizioso, la palla gli resta attaccata al piede come se avesse il velcro sugli scarpini; e poi si gira, con una rapidità ma soprattutto grazia armonica, che oggi non citeremmo neppure tra le prime dieci caratteristiche del Paolo Rossi calciatore: l’eleganza discreta del tocco.

Paolo Rossi sapeva anche essere un dieci, nel senso meno letterale del termine della contingenza milanista. La sensibilità e delicatezza con cui ammaestra questo pallone, prima di fare-il-Paolo-Rossi, è la stessa che rivedo nel tocco con cui nel Mundial ‘78 (prima di fare-il-Paolo-Rossi) triangola con Bettega, un tocco preciso, elegante, quasi un no-look, di una classe così facilmente riconoscibile che avrebbe fatto innamorare mezzo sudamerica (lo sapevate che il padre di Paolo Guerrero voleva battezzare El Depredador come Paolorossi Guerrero?).

Pablito è stato molti Pablitos: l’istantanea che conserveremo sarà sempre la stessa, ma non dovremmo dimenticare, e anzi forse sarebbe il caso di riscoprire, le molteplici personificazioni di cui era capace in campo, anche inusuali: il prodigio di un calciatore con il dono di un talento, e la fortuna di essere diventato un eroe, intimo, nazionale.




Il famoso Paolo Rossi (Aston Villa-Juventus , Coppa Campioni 1982-83)

Di Fabio Barcellona

Paolo Rossi rappresenta il mio battesimo nel calcio. Avevo 5 anni e mio padre mi portò allo stadio per la prima volta. Mio padre non era abituato ad andare allo stadio ad ogni partita, ma in quell’occasione, assieme a mio zio, decise di andare a vedere un giovane giocatore di cui si dicevano meraviglie: appunto, Paolo Rossi. Era il campionato di serie B 1976-77 e Rossi, che avrebbe terminato la stagione con 21 reti, stava trascinando il Lanerossi Vicenza alla promozione. Ricordo la mia eccitazione per la mia prima volta allo stadio, amplificata dalle parole di mio padre e di mio zio che, descrivendo Paolo Rossi come un fenomeno, caricarono ulteriormente di attesa quella domenica pomeriggio. I miei ricordi sono piuttosto vaghi. Ricordo però bene la sorpresa di vedere un calcio “a colori” – il prato verde, la maglia rosanero del Palermo e biancorossa del Vicenza – confrontato con quello in bianco e nero della TV e la mia concentrazione nell’osservare il famoso Paolo Rossi, che, nella mia memoria di bambino di 5 anni non giocò una partita memorabile.

La stagione 1982/83 fu la prima realmente giocata da Paolo Rossi alla Juventus, dopo le 3 partite conclusive della stagione precedente, al termine della squalifica di 2 anni e il trionfale campionato del mondo in Spagna. La Juve ha sostituito l’irlandese Liam Brady con Michel Platini e Zibì Boniek, ma in campionato soffre alle spalle della Roma di Falcao che conquisterà lo scudetto. Nelle notti di Coppa dei Campioni però i bianconeri sembrano davvero la squadra più forte d’Europa. Dopo avere conquistato il Mondiale e il titolo di capocannoniere del torneo, Paolo Rossi è stato anche nominato Pallone d’Oro del 1982, ma in serie A sembra soffrire. Il 2 marzo 1983 la Juve deve affrontare a Birmingham l’Aston Villa per i quarti di finale della Coppa dei Campioni. I Villains sono i campioni d’Europa in carica e circa un mese prima hanno conquistato la Supercoppa Europea battendo 3-0 il Barcellona nella gara di ritorno giocata a Birmingham, dopo la sconfitta per 1-0 al Camp Nou. Le squadre inglesi hanno vinto le 6 precedenti edizioni della Coppa dei Campioni e l’unica vittoria italiana in Inghilterra fino ad allora è stata quella del Bologna contro il West Bromwich Albion nella Coppa delle Fiere del 1966. È pertanto una prova durissima quella cui è chiamata la Juventus, che scende in campo a Birmingham con 6 campioni del mondo, più Roberto Bettega - che non è stato l’attaccante titolare al fianco di Rossi in Spagna a causa di un infortunio – Michel Platini e Zibì Boniek.

La Juventus batte il calcio d’inizio e il pallone giunge sulla fascia sinistra ad Antonio Cabrini che gioca il pallone in avanti, verso Roberto Bettega. Bettega tiene palla, attira un raddoppio e serve la sovrapposizione di Cabrini con un colpo di suola all’indietro. Cabrini crossa verso l’area di rigore presidiata a zona al primo palo dal centrale di destra McNaught e al centro da quello di sinistra Desmond Bremner, centrocampista scozzese che sostituisce al centro della difesa il titolare Allan Evans. Il cross scavalca McNaught e sembra potere essere impattato da Bremner. Ma, all’improvviso, alle spalle di Bremner spunta la sagoma di Paolo Rossi che anticipa il difensore e di testa insacca alle spalle del portiereNigel Spink. Sono passati solo 47 secondi, l’Aston Villa non ha toccato il pallone, Bremner non si è nemmeno accorto che da dietro stava per essere anticipato in maniera mortifera e Paolo Rossi ha già disegnato il destino della sfida. La Juventus vincerà per 2-1 con il gol di Boniek sul solito assist di Platini, la prima vittoria di una squadra italiana in Inghilterra in Coppa dei Campioni. I bianconeri giungeranno in finale e da super favoriti perderanno ad Atene contro l’Amburgo.

Paolo Rossi finirà il campionato di serie A con soli 7 gol, ma sarà, con 6 reti in 9 partite, il capocannoniere della Coppa dei Campioni. Nel gol contro l’Aston Villa c’è forse l’essenza di Paolo Rossi, descritto sempre come un attaccante dall’inspiegabile capacità di essere piazzato in area nel punto esatto in cui sarebbe finito il pallone. Ma non era inspiegabile. Era comprensione degli sviluppi del gioco, attenzione sempre vigile per sfruttare le indecisioni dei difensori avversari, rapidità nell’anticipo, astuzia, capacità di finalizzazione. Paolo Rossi era agile e scattante, ma non così tanto agile e scattante da farlo diventare una leggenda. Era un attaccante dalla buona tecnica e dal buon tiro, ma non così buoni da farlo entrare nella storia. È stata la sua abilità nello sfruttare al massimo le proprie doti atletiche e tecniche, con la forza dell’intelligenza e della volontà a renderlo forse uno degli sportivi italiani più amati in patria e conosciuti nel mondo.


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