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My Triumph, una chiacchierata con Paolo Rossi
19 mar 2019
Dall'incontro al Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci di Prato.
(articolo)
18 min
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Pubblichiamo la trascrizione del dialogo con Paolo Rossi, Pallone d'Oro e campione del mondo, che si è tenuto il 10 marzo al Centro d'arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, nel contesto della mostra di Aleksandra Mir, intitolata Triumph. È il primo di tre incontri a cui siamo stati invitati, nelle prossime settimane al Centro Pecci parleranno Jury Chechi e Christian Giagnoni.

Emanuele Atturo: Paolo Rossi non avrebbe bisogno di presentazioni, basterebbe il minuto e mezzo dei suoi highlights contro il Brasile per raccontare una leggenda del calcio italiano, uno dei suoi giocatori più iconici. Però vorrei leggere la lista dei trofei vinti da Paolo Rossi: 2 scudetti, una coppa dei campioni, una coppa delle coppe, una supercoppa europea, un campionato del mondo; a livello individuale invece: capocannoniere della Serie B e della Serie A, Scarpa d’oro, Pallone d’oro dei Mondiali.

Paolo Rossi ha vinto, quindi, nello stesso anno: Mondiale, titolo di capocannoniere del Mondiale. L’unico altro calciatore a riuscirci è stato Ronaldo, il Fenomeno. Ad anni di distanza il rischio è di appiattire la storia e la carriera di Paolo Rossi a questa somma di trofei, specie in una cultura che tende a celebrare il successo in maniera acritica. Rischiamo quindi di cancellare il percorso che ha preceduto questi trofei. Un percorso che è stato anche ricco di momenti delicati, e che contiene un certo senso di fragilità: riguardando la storia di Paolo Rossi a volte sembra che tutto sia passato attraverso dei piccolissimi dettagli, e che sarebbe bastato poco perché le cose andassero in maniera completamente diversa.

Daniele Manusia: Questo ciclo di eventi, My Triumph, avviene nel contesto dell’installazione di Aleksandra Mir, che espone più di 2500 coppe e trofei di persone comuni, raccolte attraverso un annuncio sul Giornale di Sicilia e una ricompensa simbolica di 5 euro per trofeo. Guardandoli ci si chiede perché la persona se ne sia liberata, e al contempo si pensa al momento in cui quella coppa è stata vinta. L’installazione ci ricorda il fatto che i successi sono sempre passeggeri, oltre che legati al ricordo personale: la vittoria, al di là del pezzo di latta (o di metallo, o d’oro, come nel caso di Paolo Rossi), sta nel ricordo.

Al tempo stesso noi possiamo guardare ai successi degli altri sempre dall’esterno, è impossibile immaginare cosa significhi vincere un Mondiale, o un Pallone d’Oro, così come il torneo di tennis di un circolo in provincia di Agrigento. Ma anche per chi lo vince è impossibile descrivere il senso di quello stesso trofeo in maniera completa. Forse quello che più conta è il modo in cui i successi servano per definire l'identità: se in un mondo parallelo Paolo Rossi non avesse vinto il Pallone d’Oro sarebbe stato comunque Paolo Rossi, sarebbe rimasta la stessa persona anche se magari il talento calcistico lo avrebbe espresso in un altro modo, o non lo avrebbe espresso affatto. Per noi però è impossibile non identificarlo con quel Mondiale, con i suoi successi. Per questo volevo cominciare con una domanda che si potrebbe fare a chiunque: che cosa avrebbe fatto Paolo Rossi se non avesse fatto il calciatore?

Paolo Rossi: Avrei fatto il ragioniere, visto che ho studiato ragioneria. Nel frattempo ho fatto il mio percorso nel settore giovanile iniziando a giocare qui nel Santa Lucia. Poi ho giocato un anno all’Ambrosiana Prato e poi per quattro anni ho giocato in una squadra giovanile a Firenze. Quando ho iniziato a giocare, come tutti, avevo delle ambizioni: sognavo di diventare qualcuno che vedevo in tv, come i ragazzi di oggi guardano Messi o Ronaldo. Il mio mito all’epoca era Kurt Hamrin, uno svedese che giocava ala destra nella Fiorentina (in Italia, Hamrin ha giocato anche con Juventus, Padova, Milan e Napoli, ma alla Fiorentina ha giocato per quasi dieci anni ndr). E infatti ho iniziato a giocare ala destra, e ho giocato lì fino a 20 anni. Per me Hamrin era un punto di riferimento: mi piaceva il suo modo di giocare, di fare gol. Non dico che avevo quelle caratteristiche ma in qualcosa gli assomigliavo.

Quando si inizia, si pensa ovviamente di poter arrivare un giorno. Ma è un pensiero lontano, lì per lì lo fai solo per passione, il resto è una conseguenza.

Emanuele: Sei andato alla Juventus a 16 anni, giovanissimo. Lì è cominciato un periodo difficile perché, in un'epoca in cui la medicina sportiva era molto più indietro di adesso, hai subìto due operazioni al menisco.

Paolo Rossi: Dai 16 ai 20 anni ho fatto 3 operazioni al menisco quando per un’operazione al menisco si stava fermi 7-8 mesi. Sono arrivato al Lanerossi Vicenza a 20 anni, e mi ero posto come obiettivo di aspettare ancora un anno: “O va quest’anno, e riesco a capire qual è il mio valore nella squadra, oppure posso tornare a fare altre cose”. Fino a 20 anni non sapevo se sarei diventato calciatore, nonostante si intuisse che avevo qualità: per sfondare nel mondo professionistico devi dimostrare di poterlo fare. Lo sport è una prova continua, fino a quando smetti sei sotto esame, sempre valutato.

Emanuele: Oggi fa impressione pensare che uno dei più grandi calciatori italiani fino a 20 anni non era neanche sicuro di diventare un calciatore. Ma è sorprendente anche che uno dei migliori attaccanti, ricordati soprattutto per le doti più istintive e di finalizzazione, non giocava attaccante ma ala.

Paolo Rossi: Gol però ne facevo anche da ragazzo, mi sono sentito sempre attaccante. Non giocavo a piede invertito, erano anni in cui si giocava sul “binario” - solo Bruno Conti giocava a piede invertito - e da lì mi inserivo per segnare. Per quanto riguarda il diventare calciatore, va detto che i dubbi e le incertezze fanno parte delle persone coraggiose, di quelli che a un certo punto decidono di mettersi alla prova. È normale avere qualche dubbio o qualche incertezza, ma la volontà - quella di voler arrivare, di farcela - non mi è mai mancata.

Daniele: Questa volontà si rivede anche nel tuo modo di giocare. Ad esempio nel lavoro continuo senza palla, una parte del gioco che gli altri magari trascuravano.

Paolo Rossi: Era una mia qualità, una mia forza, quella di giocare senza pallone, di non aspettare. Non avendo un grande fisico, in un ruolo in cui bisogna avercelo (se pensiamo a quelli di oggi poi…), dovevo sviluppare altre doti. È stato Fabbri, al Vicenza, a spostarmi punta e anche qui c’entra il caso. A Vicenza stava tornando un giocatore che si chiamava Sandro Vitali, che ha giocato anche nella Fiorentina, ma che alla fine non si è messo d’accordo col contratto. A quel punto erano rimasti solo alcuni ragazzi. Ad esempio c’era un tale Maruzzo, che è finito presto nel dimenticatoio - un giorno, quando giocavo ancora, l’ho trovato al casello dell’autostrada...

Fabbri è stato costretto a inventarsi qualcuno nel ruolo di attaccante, e pensava che io fossi il più adatto. Nelle prime partite mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Le prime due partite, alla terza però ho segnato. Per fortuna però l’ambiente mi ha aiutato: i compagni di squadra, l’allenatore, il presidente, la città, tutti mi sono stati vicini sin dall’inizio. Le squadre di calcio sono formate da tanti aspetti, e subentrano fattori diversi che possono determinare la tua fortuna o la tua sfortuna.

Emanuele: Sono troppo giovane per aver visto giocare Paolo Rossi, ma ho visto molti video e ho ascoltato le interviste di chi ha giocato con lui. Alcuni di loro, parlando del tuo talento, lo descrivevano con toni mistici: “Quando il pallone arriva in area di rigore, state sicuri che arriva a Paolo Rossi”; però c’era anche qualcun altro, come Bruno Conti, che diceva che la tua forza erano i movimenti: “Noi alzavamo la testa e vedevamo i tagli e gli scatti di Rossi”. Questo istinto in area di rigore, la capacità di andare dove la palla poi effettivamente finirà, è una questione di istinto o di allenamento?

Paolo Rossi: Diciamo che l’allenamento ti può dare il 20%, l’80% è l’istinto. Decidere di andare da una parte invece che dall’altra, in campo, è qualcosa di istintivo. Dopo un po’ di tempo diventa una questione di memoria involontaria: quelle cose le hai già fatte, quindi le ripeti. Però l’istinto è la cosa più importante. Gli attaccanti fanno gol perché ce l’hanno dentro: chi fa gol, ad ogni categoria, ha delle caratteristiche speciali.

Daniele: In effetti un modo comune di parlare di attaccanti di questo tipo, mi viene in mente Filippo Inzaghi ad esempio, è di farne una questione metafisica. Di solito il talento di giocatori si può scomporre - esiste un talento tecnico, uno fisico, o l’intelligenza, o i passaggi - mentre per gli attaccanti tutto sembra passare per un filo sottile, è quasi una questione spirituale. Sembra ci sia un rapporto privilegiato fra loro e il gioco del calcio. Ho visto un video in cui, intervistandoti nel Mondiale del ’78, ti dissero: “Ti rendi conto di quanto vali?”. Ed è sempre strano parlare con i giocatori di queste cose. È come interrogare un’opera d’arte: tu sei stato paragonato da Tosatti a Nureyev e a Manolete; mentre Farina, il presidente del Vicenza all’epoca, che ti comprò per una grande cifra, fu costretto a scusarsi pubblicamente: “Il calcio è come l’arte, e Paolo Rossi è la Gioconda”. Ma non si può chiedere alla Gioconda “perché vali così tanto”.

Paolo Rossi: Oggi i calciatori sono diversi, perché ci sono più mezzi di comunicazione, ma nella mia epoca i calciatori non erano in realtà così divinizzati: erano eroi popolari e venivano vissuti diversamente. Oggi i calciatori sono quelli che guadagnano tanti soldi, che hanno belle macchine; noi forse eravamo più passionali e meno materiali - nonostante poi tutti noi abbiamo provato a guadagnare il più possibile. Una volta però i procuratori non c’erano: quando sono arrivato davanti a Boniperti sul contratto c’era già scritta la cifra sopra. Gli agenti hanno cambiato il mondo del calcio, non solo in meglio, perché se da una parte tutelano gli interessi dei giocatori dall’altra le società li soffrono troppo.

Daniele: In quel periodo, quando eri a Vicenza, in due anni fai prima 21 gol, in Serie B, e poi 24 gol in Serie A. Poi resti fermo due anni. Ci può essere il paradosso che il miglior Paolo Rossi non sia stato quello del Mondiale ma quello dei due anni prima?

Paolo Rossi: È così. Io ho vinto il Mondiale quando non ero nella stessa condizione di due anni prima. La mia è una storia davvero strana, incredibile sotto tanti aspetti. Il mio periodo migliore va dai 20 ai 24. Al Mondiale in Argentina dal punto di vista fisico stavo molto meglio (rispetto al Mondiale spagnolo ndr), però non si sono verificate alcune condizioni. Ci siamo accontentati di pensare di poterlo vincere il campionato del mondo, mentre nell’'82 c’era una forte volontà di dimostrare al mondo intero il nostro valore. Però venivo da due anni di squalifica, e da appena tre partite giocate.

Daniele: C’è una tua dichiarazione in cui dici “Non ero in forma, anzi, ero un fantasma”. Poi il gol al Brasile ti ha sbloccato.

Paolo Rossi: Chi ha giocato a calcio da professionista sa cosa significhi rientrare dopo tanto tempo. Io avevo difficoltà soprattutto dal punto di vista mentale a rientrare nelle partite: non trovavo le distanze, la concentrazione. Tutte cose che avevo perso e che puoi riacquisire solo giocando a un certo livello, non basta l’allenamento. Sono stato fortunato a trovare un allenatore come Bearzot, che mi conosceva e si aspettava certe cose da me. È stato lui a insistere per farmi giocare anche nei momenti di grande difficoltà, quando tutti chiedevano la mia testa.

Emanuele: In quei momenti in cui aveva tutta l’opinione pubblica italiana contro, come l’hai gestita? Leggevi i giornali?

Paolo Rossi: I giornali erano vietati nel periodo del Mondiale, è stata una decisione di Bearzot. Noi siamo stati i primi a fare un silenzio stampa. La mia reazione alle critiche però è sempre stata positiva: le critiche mi potevano anche far bene. Era un modo per ripartire.

Emanuele: Questa capacità di reagire alle sconfitte, agli insuccessi, alle difficoltà, è centrale nella tua vicenda. In quel momento, prima della partita contro il Brasile, avevi parlato anche di “blocco mentale”. Per uno sportivo di alto livello la dimensione mentale è più importante di quella fisica?

Paolo Rossi: Oggi se non hai cura dell’aspetto atletico non vai da nessuna parte, ma l’aspetto mentale incide molto sulla prestazione. La serenità, la fiducia, la tranquillità, sono tutti aspetti importanti. Quel gol al Brasile è stato fondamentale, forse il più importante di tutta la mia carriera. Eppure, nonostante io sentissi che segnare mi mancava, ero tranquillo. Dopo quel gol, però, sono diventato un altro calciatore.

Daniele: Si può dire che il Pallone d’Oro sia arrivato davvero solo per quelle 4 partite al Mondiale, ed è forse una cosa irripetibile oggi.

Paolo Rossi: Tutti i riconoscimenti personali vanno comunque ricondotti ai successi di squadra, e li ho sempre considerati così. Sarò sempre grato a quella squadra e a quei giocatori per avermi fatto raggiungere questo tipo di successi.

Emanuele: Parlando di successi, hai dichiarato che i tre meravigliosi premi che hai vinto - scarpa d’oro, Mondiale e Pallone d’Oro - non ti hanno dato la gioia folgorante della tripletta al Brasile. Nonostante in teoria i premi hanno proprio la funzione di rendere eterno il passaggio di un calciatore nella memoria, quella funzione per te è stata un singolo momento, una singola partita.

Paolo Rossi: La gioia che ti dà fare un gol in campo non te la dà l’annuncio di un premio. Quello che provi in campo, quella gioia immediata, è la cosa più importante.

Daniele: Quando vediamo Cristiano Ronaldo è difficile vedere della gioia. Ci vediamo voglia di affermarsi, sollievo forse. Si può però dire che, in un certo senso, quella gioia sia stata barattata con una forma di successo più lunga, su più stagioni, su una quantità di gol impensabile fino a poco tempo fa. Ti chiedo una cosa anche se immagino come risponderai: tu baratteresti quei gol al Brasile, e quel Mondiale, con - diciamo - 6 palloni d’oro vinti consecutivamente, facendo tantissimi gol per 6 stagioni di seguito?

Paolo Rossi: Sai già che la mia risposta è no. A distanza di 37 anni, vi siete mai chiesti perché quel Mondiale è rimasto nell’immaginario collettivo della gente? Quel Mondiale è stata una vittoria non solo inaspettata - che sono quelle che ti danno maggiore gioia - ma anche di tutti: non solo di Paolo Rossi capocannoniere, né solo della squadra. Quella vittoria è considerata la vittoria dell’Italia, in cui tutti, nessuno escluso, hanno partecipato in maniera forte, e si sono sentiti dentro quell’Italia.

Noi tendiamo a vedere le cose in maniera distaccata, ma su quell’Italia c’era un sentimento diverso. La stampa ci aveva massacrato di critiche, poi in due giorni c’è stato un cambio totale di rotta e venivamo descritti come i più forti del mondo. Questo per dire quanto nel calcio una partita possa cambiare un giudizio. Dall'interno bisogna invece riuscire a mantenersi equilibrati, nelle critiche come negli elogi. Il primo a riconoscere come hai giocato sei tu stesso, il giudizio degli altri però serve sempre.

Emanuele: Lo hai ripetuto spesso anche oggi, ma lo ripetono quasi tutte le squadre che hanno vinto i campionati del mondo: la differenza in un Mondiale la fa la forza di un gruppo, la coesione di un gruppo. Per noi da fuori è difficile rendersi conto quanto conta questa coesione, e come si costruisce: chi sono i leader? Quanto conta l’allenatore?

Paolo Rossi: Sono tutti aspetti importanti. L’allenatore, Bearzot, dava molta importanza al gruppo. Era partito con un progetto dieci anni prima, scegliendo 6/7/8 calciatori con cui ha messo le basi. A Bearzot non interessava troppo convocare i giocatori più bravi, se questi non avevano anche i requisiti morali per vestire la maglia azzurra, e per fare parte di quel gruppo. Bearzot non ha convocato dei giocatori in quel Mondiale per paura si potessero creare dei dualismi, come era già capitato nelle nazionali precedenti alle nostre. Voleva costruire un gruppo coeso, in cui tutti si vogliono bene e remano dalla stessa parte. Quindi, per sintetizzare, è un aspetto molto importante, ed è venuto fuori soprattutto quando eravamo in difficoltà all’inizio del Mondiale. In quel momento ci siamo aiutati l’uno con l’altro, senza sentirci in competizione.

Daniele: Questa solidità mentale è una cosa che si riconosce alle squadre sempre dopo. Il Real Madrid ha vinto 3 Champions League consecutive, e solo dopo si arriva a dire che era una squadra molto solida. Secondo te c’è un modo per vedere questa qualità in una squadra oppure ci dobbiamo rassegnare al fatto che si piò vedere solo a posteriori?

Paolo Rossi: È difficile riconoscerlo dall'esterno, lo devi vivere da dentro. Peraltro più un gruppo è grande e più è difficile: Bearzot ricordava sempre quanto fosse difficile gestire la testa di 22 esseri umani. È per questo che gli allenatori devono essere soprattutto psicologi. Bearzot lo era, anzi, voleva quasi essere un papà per noi. Era una persona che voleva difendere a tutti i costi il suo gruppo, anche a costo di prendersi tutte le colpe. Questo aspetto noi lo sentivamo.

Daniele: C’è una frase particolarmente bella che hai scritto sul tuo libro, in cui parli della finale con la Germania Ovest, una frase che si ricollega anche al concetto di transitorietà del successo: “Guardavo i compagni, guardavo la folla e dentro sentivo un fondo d’amarezza: adesso, dovete fermare il tempo adesso”. In ogni vittoria c’è un senso di fine, soprattutto perché è irripetibile, soprattutto un Mondiale.

Paolo Rossi: È così, finisce una storia che tu vorresti non finisse mai. Da una parte c’è la consapevolezza di aver raggiunto un risultato straordinario, il pensare “ce l’ho fatta”; dall’altra c’è un’altra sensazione, che ti fa pensare “perché non può continuare?”. Avrei voluto che si potessero giocare altre partite, che si potessero avere altri successi. La vittoria, la gioia intensa, sfuma velocemente. Arrivato sul tetto del mondo pensavo: “E adesso?”.

Emanuele: Tu eri ancora giovane però.

Paolo Rossi: Avevo 26 anni, però due anni li avevo saltati (per la squalifica dovuta all'inchiesta sul calcioscommesse, ndr), e a 28 anni ho cominciato ad avere problemi a un ginocchio. Insomma, la mia carriera è durata 7-8 anni a un certo livello. Gli ultimi anni li ho fatti coi dolori, e ho dovuto smettere a 30 anni. Mi sono detto basta, la vita va avanti.

Emanuele: Però in questi 8 anni si sono concentrati tantissimi successi, e tu hai mantenuto sempre una certa capacità di scrivere la storia, ad afferrare il momento. Non mi riferisco solo a quello che abbiamo già detto, del Mondiale dell’’82, ma al fatto che hai segnato tantissimi gol in Europa, contribuendo al successo di due coppe. Anche quando sei andato al Milan, ormai a fine carriera, hai segnato appena 2 gol: eppure entrambi all'esordio nel derby.

Paolo Rossi: Si vede che era il mio destino incidere quando c’era la possibilità di farlo. Questa forse è davvero la casualità.

Daniele: Però è anche la capacità di entrare in contatto con la tensione del momento, sentire i momenti importanti e alzare il proprio livello.

Paolo Rossi: Più le partite erano importanti e più avevo voglia di “dimostrare”. Mi rendo conto che non per tutti è così, avevo alcuni compagni di squadra che prima delle partite importanti non dormivano. Io ho sempre pensato che era comunque una partita di calcio, e riuscivo a viverla con leggerezza.

Emanuele: Questo mi fa pensare a un’altra partita, alla finale contro la Germania Ovest. Nonostante nella memoria di tutti sia rimasta come un trionfo, una partita quasi semplice, finita 3-0, in realtà è stata sbloccata solo nel secondo tempo con un tuo gol, dopo che avevamo sbagliato un rigore nel primo tempo. Descrivendo quel gol tu hai detto: “Quello è proprio un gol mio. Se qualcuno vuole rappresentarmi può farlo con quel gol”. Non so quanti lo possono dire per un gol segnato in una finale di un Mondiale.

Paolo Rossi: Quel gol racchiude le mie caratteristiche. Giocavo sempre sul tempismo, sullo smarcamento, sulla rapidità. In quel gol sono partito prima, ho cercato di rubare il tempo all’avversario, pensando che la palla potesse arrivare lì. Poi magari non ci arriva: 9 volte su 10 non arriva, ma c’è la volta in cui arriva, e allora tu ci devi andare, devi pensare che la palla possa arrivare lì. A volte vedo gli attaccanti nascondersi dietro il difensore e mi chiedo come possano pensare di fare gol.

Daniele: In questo penso davvero che i calciatori siano simili agli artisti. Ci sono registi che nelle interviste dicono di non voler razionalizzare il proprio film e per un giocatore è difficile verbalizzare. Però penso esista una capacità di interpretare lo spazio, la traiettoria del pallone, il movimento del proprio corpo nello spazio e la coordinazione rispetto all’avversario... non sta al calciatore razionalizzare, ma allo stesso tempo è un’arte complessissima.

Però volevo tornare su una frase che hai detto prima, e cioè: “la vita va avanti”. C’è stata una parte della tua carriera in cui sei dovuto stare fermo, e quando hai ricominciato hai detto di aver capito, in quel periodo, che il calcio non era tutto. Come hai passato quei due anni? E come hai vissuto il momento del ritiro?

Paolo Rossi: Innanzitutto ho continuato ad allenarmi. Il secondo anno, quando mi ha acquistato la Juventus, mi allenavo più degli altri, nonostante l’allenamento non ti permetta da solo di arrivare a un buon livello di forma. Poi ho capito, in quei due anni, che il calcio poteva finire e tu avevi bisogno di proiettarti in un’altra dimensione, che era la vita comune, di tutti i giorni. Forse non tutto il male finisce per nuocere. In quel periodo ho fatto altre cose, ho fatto un corso di formazione aziendale a Milano, ad esempio. Erano corsi costosissimi, pagati ai dipendenti dalle società, io però conoscevo il direttore del corso, che mi ha invitato. Volevo fare un’altra esperienza, vedere come funzionava un’azienda dal suo interno. Cose che non avrei fatto da calciatore. Non che mi abbia aperto chissà che cosa, però ti fa comprendere che il calcio finisce in un momento in cui hai ancora una vita davanti.

Daniele: In realtà molti poi si mettono a fare l’allenatore, forse proprio per non passare ad altro.

Paolo Rossi: Sì ma poi lo diventano davvero in pochi, perché quello dell’allenatore è un mestiere complicato, molto diverso dal fare il calciatore.

Daniele: E tu perché non ci hai provato?

Paolo Rossi: Perché avevo voglia di staccare, di fare qualcosa di diverso. Volevo fare un’altra vita, diversa da quella di campo. Ho fatto altre cose e non lo rimpiango.

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