
Ogni cosa è illuminata da una grandissima solennità, a partire dalla location, un tavolo al centro di un’austera ma imponente sala del Vaticano, spoglia. C’è un’atmosfera di grande – verrebbe da dire religiosa – intimità. A sinistra l’uomo che siede sullo scranno di Pietro, la più alta figura in carica del Cattolicesimo: il Papa. A destra, un giornalista dalla faccia furba, vestito di nero, che si chiama Jordi Évole. Non so cosa si possa provare, a intervistare un Papa: credo che la tentazione più grande sia quella di provare a chiedere il senso delle cose, il significato profondo della forza contundente dell’amore, e in un certo qual senso è esattamente quello che fa Jordi – che è un giornalista catalano, val bene specificarlo, e siamo nel 2019.
«Non voglio diventare frivolo», dice, e il rischio che qualsiasi argomento possa apparire frivolo, di fronte a un pontefice, in effetti, è sempre dietro l'angolo. «Ma visto che lei li conosce entrambi: è un sacrilegio dire che Messi è Dio?».
Ecco: per me Papa Francesco, al secolo Jorge Mario Bergoglio, il senso di Papa Francesco, la mia personalissima percezione di Papa Francesco, la sua capacità di farsi trasversale, trascendente, a sua immagine e somiglianza, e pure a nostra immagine e somiglianza, è tutto nella risposta che dà a questa domanda. Nella prossemica del corpo mentre si prepara a rispondere, e poi nelle parole familiari, e stranianti a un tempo, che pronuncia subito dopo.
«In teoria è un sacrilegio, non si può dire. Io non credo. Tu credi di sì?». Quando il giornalista risponde che lui sì, lui ci crede, Papa Francesco traccheggia, sminuisce, dice «ma sono modi di dire della gente, esagerati». «Però come gioca, eh», incalza Jordi. Non è tanto in quello che dice il Papa adesso, «eh, è una bellezza vederlo», ma nel movimento impercettibile che fa con il sopracciglio prima di esprimersi che c’è tutta l’umanità di Jorge Mario Bergoglio. Il suo essere terreno. E futbolero.
Jorge Mario Bergoglio è argentino, e per quanto quest’affermazione possa suonare retorica – come è successo che siamo arrivati a percepirla come retorica? – non c’è paese al mondo che abbia saputo stringere con il gioco del calcio un rapporto così interconnesso da finire per diventare osmotico, indivisibile. In un Paese in cui il fulbo è stato uno strumento di costruzione identitaria, di rivalsa sociale, un grimaldello metaforico per interpretare la vita, l’unica panacea davvero popolare di fronte alle storture politiche, sociali, economiche, questa indissolubilità è data per assodata, e se a noialtri sfugge, o ci sembra melensa, pazienza: no traten de entenderlo, dicono a quelle latitudini, e forse è davvero il suggerimento più saggio che abbiano saputo forgiare in quasi due secoli di storia. In fondo da dove credete venga chi ha detto che si gioca come si vive e si vive come si gioca?
Per capire quanto sia penetrato nella quotidianità basterebbe buttare un occhio alle messe in cui si intonano cori sacri come fossero cori da stadio, o viceversa, in cui si chiede un minuto de silencio… shhh… para el diablo que está muerto.
Oppure, più semplicemente, a Papa Francesco: il primo pontefice latinoamericano, ma anche il primo a essere conclamatamente hincha e socio di un club, il San Lorenzo de Almagro, tessera 88235. Ogni volta che provo a immaginare cosa possa significare tifare per la squadra che è anche quella del Papa mi viene in mente una barzelletta che mi raccontava mio zio da piccolo, quella in cui il Papa è all’Olimpico per osservare un derby di Roma, si lascia affascinare dall’idea di tifare per la squadra che porta i colori del cielo; però, poi, di fronte a un cardinale che suggerisce «Santità, ma quelli vincono ogni morte de papa» cambia repentinamente sponda e si mette a intonare i cori della Roma. Chissà se un tifoso del San Lorenzo si sente orgoglioso come mi sentivo io quando ascoltavo la barzelletta.
Proprio come le memorie di un cattolico fervente, immagino, sono scandite dalla successione dei papati – la vita è quella cosa che succede tra un conclave e l’altro – quelle degli appassionati di calcio trovano puntelli funzionali nel ricordo di stagioni gloriose, gol indimenticabili, miti d’infanzia. Una stratificazione che ci plasma, e che soprattutto abbiamo voglia di raccontare, perché ci ricorda la felicità, un tempo in cui eravamo spensierati, tele bianche sulle quali le passioni imprimevano pennellate fantasiose. Bergoglio, proprio perché eminentemente futbolero, non fa eccezione, e per capire quanto ci somiglia basterebbe pensare a quella volta in cui, di fronte alle Nazionali di Italia e Argentina in udienza prima di un’amichevole pre-Mondiale brasiliano, ha detto «vediamo chi ha il coraggio di fare un gol più memorabile di quello di Pontoni».
Il Pontoni in causa è René Pontoni, goleador del San Lorenzo stellare che a metà anni Quaranta dominava il calcio argentino e mondiale – subito dopo la vittoria del campionato, quell’anno, fece una tournée in Spagna durante la quale demolì ogni avversario fino a ridefinire l’idea stessa di calcio in Spagna. «Mi ricordo un gol in cui fece tac, tac, tac, gol», ha continuato, con lo sguardo perso nel passato, come se gli si stesse rimaterializzando davanti agli occhi. Quale altro pontefice si era mai trasformato, seppur per qualche secondo, nel gordo Soriano intento a raccontare a Eduardo Galeano un gol di José Francisco el nene Sanfilippo all’interno di un supermercato?
La narrazione di Pontoni – l’idolo di un decenne Bergoglio – e del San Lorenzo – club nato a Boedo, ma per tutta una serie di vicissitudini poi spostatosi a Bajo Flores, cioè nel quartiere che ha dato i natali a Papa Francesco, quando la dittatura ha deciso di espropriare el viejo Gasometro e venderlo all’Auchan, che ci avrebbe costruito un supermercato, da cui la rievocazione di Sanfilippo – è perfettamente coerente: in fondo il soprannome del San Lorenzo è los cuervos, i corvi, come vengono chiamati i preti, perché da un prete è stato fondato, Don Lorenzo Massa, uno di quei preti di barrio che prometteva ospitalità nell’oratorio in cambio di una presenza costante alle Messe domenicali.
La corvità di Bergoglio è così indiscussa, e mitopoietica, che c’è chi è arrivato a teorizzare che il nome Francesco non sia un tributo al Santo d’Assisi ma a Sanfilippo, e che la vittoria in Libertadores del San Lorenzo – arrivata non casualmente l’anno successivo alla sua ascensione al soglio pontificio – sia una coincidenza troppo significativa. Eh, oh: no traten de entenderlo.
Di fatto c’è il riconoscimento di un legame ombelicale: quando i vertici del club e una delegazione della squadra, capeggiata dall’allenatore Edgardo Bauza, è volata fino a Roma per portargli la Libertadores da sfiorare, Bergoglio li ha ringraziati durante l’introduzione all’udienza papale: «Saluto in maniera speciale i campioni d’America, la squadra del San Lorenzo, che è parte della mia identità culturale».

Non è che tutti i preti, come Don Lorenzo Massa, fondino squadre di calcio. Così come non è che tutti i preti, come Jorge Mario Bergoglio, diventino Papa. Molti preti, però, diventano tifosi di calcio perché nella continua lotta tra il divino e il terreno, tra l’immanente e il trascendente, il match non è così impari come possiamo presumere. Papa Francesco, in fondo, è il risultato della transustanziazione di quel personaggio di fantasia inventato da Guido Morselli in Roma senza papa, frate Marcello, che guida una rivoluzione di tifosi fino a instaurare la Repubblica Autonoma della Lazio (chissà se Morselli conosceva la famosa barzelletta). Ma è ancor di più la cristallizzazione di una frase di Morselli: «Reverendo, il calcio è la molla della nazione, è il motore della vita nazionale». Per Papa Francesco più di ogni altro papa. Per gli argentini, più di ogni altri tout court.
E se Bergoglio è così tifoso è perché tutti i papi, che prima d’esser papi son stati preti, e prima d’esser preti son stati ragazzini, si sono lasciati abbindolare dalla più seria delle facezie: un pallone che rotola. In un frammento della sua autobiografia, Speranza, Bergoglio rievoca quei tempi, tempi di pelotas de trapo, di palle di stracci, di piedi quadrati (di sé stesso dice che fosse una pata dura, uno un po’ negato), di ruoli che la vita ti insegna a ricoprire: il suo era in porta, una scuola di vita, dice, perché «il portiere deve essere pronto a rispondere a pericoli che possono arrivare da ogni parte». Un portiere, Bergoglio. Come Milei, alla fine.

Così come Karol Wojtyla si è definito «un semplice operaio nella vigna del Signore», Papa Francesco si sarebbe potuto definire «un semplice portiere nell’undici di Dio», o meglio ancora uno che dalle gradinate grida a Gesù che no lo deja no lo deja de alentar.
Forse proprio perché, ricco della sua forma mentis argentina, Bergoglio sente – ha sempre sentito – la tentazione di spiegare il mondo attraverso paradigmi calcistici. Di portare la religione fuori dalla religione, nei potreros della vita, tra i diseredati, tra i meno felici, tra quelli ai quali basta un pallone, o un pezzo d’ostia, da farsi bastare per essere un po’ meno tristi, un po’ meno soli. Ha identificato nel pallone un tramite. Un legame.
Quando nel 2014, a un anno dalla sua elezione, sotto la sua egida a Roma si è disputata la Partita per la Pace (durante la quale Diego Armando Maradona inscenò, in maniera perfettamente coerente alla sua vicinanza al Vaticano, una bella litigata a centrocampo con Juan Sebastian Verón), Bergoglio ha parlato del calcio come fosse il cattolicesimo, uno strumento di abbattimento delle discriminazioni, di benevolenza ecumenica. Un calcio tanto lontano da quello che il calcio era (ed è, ed è diventato sempre di più), quanto vicino alla sua idea di calcio, quella di quando era ragazzino, di quando ogni cosa, nella nostra testa come nella sua, è più povera di sfaccettature, pura, divina. Ma anche, in qualche modo, in maniera deliziosamente partitaria, campanilistica, identitaria, terrenissima: a Ronaldinho, un altro degli invitati alla partita, davanti a tutti IL PAPA ha chiesto «ma insomma, era acqua o non era acqua?», e lo ha fatto riferendosi alla presunta querelle secondo la quale il team di Bilardo, nei Mondiali del 1990, durante la partita degli ottavi contro il Brasile, avrebbe messo del Roipnol nelle borracce. Un riferimento popolarissimo, così terra terra da ottenere l’effetto contrario di elevarlo, almeno nella percezione: oh, il Papa è uno di noi, uno che da un momento all’altro ti aspetti possa intonare Brasil, decime que se siente.
Subito dopo la storica vittoria della Coppa del Mondo in Qatar, nel 2022, nel pieno della successiva esplosione incontrollabile di passione, mitomania e senso di appartenenza ottocentesco deflagrato in Argentina, da qualche parte negli stadi sono spuntati striscioni in cui Diego Armando Maradona, Lionel Messi e Papa Francesco comparivano l’uno di fianco all’altro, Santa Trinità sincretica, mezzo blasfema.

Bergoglio la finale ha dichiarato di non averla seguita (per un voto, dal luglio 1990, non guarda la tv, cioè da quando «eravamo tutti insieme e stavamo osservando qualcosa che poi ha finito per rivelarsi volgare, spregevole, brutta»: nel luglio del 1990 c’è stata la finale tra Argentina e Germania, quella del hijos de puta di Maradona, ma anche quella del rigore inesistente assegnato alla Germania e del furto ai danni dell’Albiceleste, poi le conclusioni traetele da voi).
Però ha comunque colto l’occasione per utilizzare quella partita – in un’intervista con il direttore di Infobae Daniel Hadad in cui sembra troppo sul pezzo per non aver visto almeno gli highlights – come metafora per spiegare un atteggiamento e un’idiosincrasia tutti argentini, che chissà riscontra anche nel suo papato, cioè quelli di complicarsi terribilmente la vita, e di lasciare le cose sospese a metà, aspettando che sopraggiunga, deus ex machina, un momento di illuminazione a farsi dirimente e risolutivo. Qualcosa che potrebbe essere il caso, come dice; o magari Dio, come potrebbe aver pensato.
Quando un giorno ripenseremo al pontificato di Francesco I come qualcosa di definito, compiuto, forse troveremo altre tracce della sua legacy calcistica, tornerà a riaffiorare nella memoria come il prozio di quel calciatore che ha fatto carriera (o parlare di sé) dispensando benedizioni negli spogliatoi, o l’ispiratore di quella squadra arrivata fino all’Ascenso, che lotta per la promozione in Primera, o magari rimasta lì a veleggiare nella Liga Lujanense, tra i semiprofessionisti, rivendicandosi orgogliosamente il soprannome El Santo del Sur. Come quel Papa che giocava a fare classifiche di merito, muovendo sul tavolo i santini di Pelè, Leo Messi e Maradona come fossero quelli di San Giuseppe, San Pietro e San Francesco, che come fai a decidere chi è stato il migliore? (Per Bergoglio, controintuitivamente, Pelè è una spanna sopra a Maradona – «troppo fragile come uomo» – e a Messi. Tra i santi, invece, non sappiamo precisamente l’ordine gerarchico). Come l’uomo, prima che il capo del cattolicesimo, che una volta qua su Ultimo Uomo ho immaginato presidente della FIFA honoris causa, in un’ucronia che sembrava più realistica di molte altre.
Come il Papa che una volta, in un’intervista, quando gli hanno chiesto se fosse possibile dire che Messi è Dio, ha negato, anche se tutto, in sé, nelle parole usate, nelle espressioni del viso, sembrava disposto a concedere una deroga.
Come la perfetta personificazione di quel personaggio inventato da Eduardo Sacheri in quel bellissimo libro che è “Papeles en el viento”, el Mono, che mentre la vita gli scivola via intesse paralleli tra tutto quello che gli sta succedendo e quello che sta passando, subendo ma con dignità, la sua squadra del cuore, l’Independiente.
O meglio ancora come l’esatta e puntuale conferma a un altro assunto, sempre di Sacheri, che compare in “El secreto de sus ojos”: «Uno può cambiare tutto: faccia, casa, famiglia, fidanzata, religione (no, magari la religione no, ecco, NdR)... Però c’è una cosa che non può cambiare mai. La passione».