Il 4 aprile il Senegal ha celebrato il sessantesimo anniversario della propria indipendenza. Ci sarebbero stati grandi festeggiamenti, se solo l’emergenza COVID-19 non avesse spinto il presidente Macky Sall ad annullare ogni evento pubblico: non solo la commemorazione dell’emancipazione dalla Francia, ma anche ogni raduno religioso. Tra cui il pellegrinaggio del Kazu Rajab, l’evento principe per la corrente musulmana del Muridiyya, che ha tra i suoi capisaldi la santificazione del lavoro: «Prega come se dovessi morire domani e lavora come se dovessi vivere per sempre», stando alla massima del maggiore esponente della corrente, Cheick Ahmadou Bamba.
In quest’atmosfera di lockdown, anche emozionale, il Senegal ha pianto la sua prima vittima del Coronavirus: Pape Diouf, figura carismatica dello sport senegalese, uno che il proprio lavoro - i propri lavori - li ha davvero sempre amati fino alla venerazione, e a suo modo santificati. In qualche modo è stato come se se ne fosse andata anche una proiezione eccellente del Paese all’esterno: Pape Diouf, giornalista, agente di calciatori africani ma, soprattutto, primo presidente nero di una delle più importanti società dei maggiori campionati europei, l’Olympique Marsiglia, è stato molte volte all’avanguardia, un precursore, un pioniere: come ha detto lui stesso a Le Monde nel 2005, «primo in tutto».
Con una strana forma di coerenza, è stato anche il primo senegalese a cedere agli effetti del virus. «Il nostro Pape è morto», ha titolato all’indomani della sua scomparsa L’Equipe, in copertina.
Un American Dream che sa di bouillabaisse
Quella di Pape Diouf è soprattutto una grande storia di «marsigliesità», di genius loci, di affinità elettive. A Marsiglia è sbarcato nel 1970, proveniente da Dakar, con una promessa di carriera militare e tutta la voglia di disattenderla. Aveva un solo abito, grigio, e 150 franchi in tasca. Al padre, che aveva combattuto al fianco di De Gaulle per la liberazione della Francia durante la Seconda Guerra Mondiale, aveva giurato che avrebbe ripercorso i suoi passi, ma frequentare lo IEP (l’Istituto di Studi Politici di Aix-en-Provence), avrebbe presto realizzato, non faceva davvero per lui. Troppo sconfinata era la sua curiosità, il suo anarchismo, la sua volontà di mescolarsi al ventre molle della città.
A Marsiglia ha lavorato come manutentore, poi come scaricatore al porto. Dormiva in un ostello che ospitava giovani in difficoltà, faceva volontariato al refettorio e insegnava ai pensionanti i trucchi su come scrivere. Viveva a Belsunce, un quartiere periferico, simbolo della diversità, dice lui, ma che al contrario di come vengono stereotipate le periferie francesi non conosce la violenza: un quartiere in cui l’incontro tra africani, arabi, antillani era compenetrazione culturale, e quindi arricchimento.
Diouf era anche un grande appassionato di calcio. E un accanito lettore de «Le Miroir du Football», il mensile creato nel 1970 da François Thébaud. In un mondo che si stava orientando verso la mass-medializzazione del calcio, «Le Miroir» preservava un’anima politica, una visione del calcio «di sinistra». Il suo manifesto estetico riconosceva la primazia del gioco offensivo, del collettivo. All’interno ospitava rubriche pedagogiche, che si proponevano di spiegare il passaggio corto, l’uno-due, la difesa a zona.
Un mensile che non disprezzava il tono polemico, in aperto conflitto con la Federazione «schiavista» nei confronti dei professionisti, e che esplorava i rapporti tra calcio, economia, società. La narrazione del calcio messa in scena su «Le Miroir» rappresentava un tipo di approccio di cui Pape si sarebbe innamorato, che gli era congeniale e che non avrebbe tardato a emulare una volta entrato - nel 1975 - nella redazione di «La Marseillaise», quotidiano piuttosto orientato a sinistra, grazie all’intercessione di un freelance, Tony Salvatori, conosciuto alla società postale francese in cui Diouf aveva preso a lavorare per sbarcare il lunario.
Foto di Anne-Christine Poujoulat / AFP via Getty Images.
«Per scrivere bene bisogna leggere molto. Io ho letto e riletto i giornalisti francesi più quotati, ma anche i grandi classici. Attraverso la lettura massiva ho ricercato, al di là del piacere di leggere in sé, quello che mi sarebbe servito nel giornalismo. Il ritmo, il vocabolario, la fluidità», ha scritto nella sua autobiografia (da cui provengono molti dei virgolettati di questo pezzo).
La scuola di Pape Diouf è una commistione di strada, società civile, grande letteratura consumata in contesti lontani da quelli accademici. Forse è proprio da questa mescidanza inusuale che traeva linfa vitale la sua inimitabilità. Un’eleganza, un garbo, una delicatezza in qualche modo innati. «Nessun altro padroneggiava l’imperfetto del congiuntivo come lui», ha scritto Jean-Paul Delhoume, il caporedattore dello sport a «La Marseillaise».
Dopo essersi occupato brevemente di basket, Pape Diouf è subito approdato a quello che sarebbe diventato il suo spirito guida, la costante della sua parabola: l’Olympique Marsiglia. Nel periodo in cui viveva a Belsunce lo avevano portato a vedere l’OM di Skoblar e Magnusson, campione per due anni di seguito nel 1971 e '72. Se ne era innamorato. Raccontare l’Olympique nel periodo più liminale della sua storia, quello della militanza in seconda serie e del rischio di retrocessione in terza, prima che cominciasse a prendere vita il progetto di Bernard Tapie, a metà degli anni ‘80, di portare les phocéens sul tetto d’Europa, era soprattutto una maniera per raccontare la città che lo aveva accolto.
Nel 1987, dopo aver vinto due Prix Martini per il miglior articolo dell’anno - non solo tra quelli sportivi - decide di accettare l’offerta di «Le Sport», uno dei principali concorrenti de «L’Equipe», un quotidiano a tiratura nazionale, all’altezza delle sue ambizioni. Anche se è evidente la volontà di superare i confini della dimensione locale, per Diouf è, per certi versi, un tradimento a Marsiglia. L’esperienza dura poco, perché breve è la vita del progetto editoriale. Anche se non lo sa, al suo interno è già iniziato il processo di metamorfosi, e il suo animo ha dismesso la pelle vecchia, come fanno i serpenti.
Sta per prendere forma la Seconda Vita di Pape Diouf, il secondo grande tradimento.
Rinnegarsi con coerenza
Diouf aveva stabilito una buona relazione con Joseph Bell, portiere camerunese che nel 1985 aveva firmato per il Marsiglia. Quando «Le Sport» stava fallendo, Diouf si era confessato con Bell, che gli aveva proposto di fare l’agente. Il suo numero circolava già tra molti giocatori africani, che lo contattavano per un consiglio quando si trovavano in difficoltà. «E chi mi ingaggerebbe mai? Chi si fiderebbe di me?», gli aveva risposto Diouf. «Nessuno si fida di un agente nero. Neppure i giocatori neri».
Negli anni ‘80 i calciatori africani erano visti come grandi atleti: poche volte l’accento veniva messo sul loro talento. Forse perché gli agenti stessi non ne sentivano l’esigenza di rimarcarlo: Diouf avrebbe contribuito a ribaltare la percezione. «Nel giornalismo non c’è niente di innato. Più precisamente, non credo nel talento innato per la scrittura. Bisogna avere un po’ di genio, come Pelè nel calcio, van Gogh nella pittura o Berlioz nella musica, ma ho anche sempre constatato l’evidenza che sul talento si può lavorare», scrive ancora nella sua autobiografia Diouf.
Uno dei suoi talenti, evidentemente, era quello di tessere trame, relazioni, perorare cause. Un talento da coltivare, su cui lavorare. Diventare un agente, in qualche modo, però, è anche snaturare la propria visione del mondo. «Avevo conservato la visione del calcio de «Le Miroir», la difesa del gioco morale ed elegante, la messa al bando dei soldi: scegliere di fare l’agente è stato un po’ tradire quella filosofia che aveva impregnato i miei anni giovanili».
Per la Mondial Football, la sua agenzia di rappresentanza, fondata nel 1989, passeranno, oltre a Bell, Abedì Pelè, stella e campione dell’OM vincitore della Coppa dei Campioni 1993; Desailly, Lama, Song, Omam-Biyick e, più in avanti, Didier Drogba e Samir Nasri.
Pape Diouf era una figura rassicurante, paterna, conferiva sicurezza. Alto, imponente, ma con un comportamento placido, la voce calda e il tono posato, sprizzava carisma e inflessibilità. A un calciatore, insomma, dava l’impressione di uno di cui potersi fidare. Non solo della sua visione, plasmata da anni di conoscenza del contesto e da una cultura generale che ne ingigantiva la saggezza, ma anche dei suoi modi, dei suoi consigli che parevano sempre disinteressati, nonostante fosse un agente. «Non voglio che i soldi guidino la mia vita: sono io che voglio guidare i soldi».
«Quel che conta è la coscienza», dice ancora del suo ruolo di agente. «Non ho mai fatto firmare contratti ai miei giocatori, bastava la parola. Gli dicevo di mettere soldi da parte per pagare le tasse e comprare una casa, meglio se nel loro paese, per quello che sarebbe venuto dopo il calcio. Non prendevo percentuali sul valore del trasferimento: fatturavo a parte, e mi pagava il club». È una figura non foss’altro inusuale, nel panorama degli agenti. «Un impresario non è più malvagio di un altro: se lo diventa è perché lo era già prima. Non è la professione che giustifica la disonestà».
Il primo presidente nero
Dopo aver collaborato strettamente con l’OM da giornalista e poi da agente è sembrato inevitabile che qualcuno proponesse a Diouf di entrare a far parte della società: nel 2004 viene nominato general manager del club, deputato agli affari sportivi; in quello stesso autunno diventa direttore del consiglio di sorveglianza e l’anno successivo, forte dell’appoggio dell’azionista di maggioranza Robert Louis-Dreyfus, presidente.
Foto di Jean-Christophe Verhaegen / AFP via Getty Images.
Quando entra a pieno titolo nel club acquista una casa su Corniche Kennedy, lontano dai quartieri del nord, dalle periferie. Ma non è l’emancipazione borghese del parvenu, è più una scelta filosofica. La Corniche, dice in un’intervista a La Provence, è il suo quartiere preferito di Marsiglia, perché il primo posto in cui ogni visitatore perde ogni pregiudizio sulla città. Ancor più del sole che la bacia, dice, è rapito dal senso di incognito che trasmette affacciarvisi di notte, o passeggiarci: perché anche se fai un percorso lungo hai sempre l’impressione che ci sia ancora un sacco di strada da fare. Una metafora perfetta della sua parabola, anche.
«Non si può fare il presidente all’inglese, a Marsiglia. Bisogna conoscere socialmente, culturalmente il posto in cui si lavora. Specie se quel posto è Marsiglia». Diouf crede nel dialogo sincero: per questo riesce a farsi amare dai giocatori, non solo quelli che rappresenta o ha rappresentato, e dai tifosi. Meno, forse, dalle altre figure dirigenziali in seno all’OM.
Quando nel 2004 è appena diventato presidente del consiglio di sorveglianza è ancora il procuratore di Drogba. Lo raggiunge a Yaoundé, in Camerun, dove è impegnato con la Costa d’Avorio per dirgli che l’offerta che il Chelsea ha fatto per lui è stata accettata. «Ma cazzo, Pape, non ho voglia d’andarmene, sto troppo bene a Marsiglia». Diouf non risponde: scrive soltanto su un foglietto la cifra dell’ingaggio che Drogba percepirà a Londra. Negli occhi ha più lo sguardo del buon padre di famiglia, che del manager che deve far accettare a una delle sue punte di diamante un’addio emotivamente difficile da metabolizzare.
Poco prima dell'inizio del Mondiale 2006, mentre sta trattando il suo acquisto dal Liverpool, Djibril Cissé si infortuna. «Per me la parola conta più di ogni altra cosa», gli dice Diouf. «L'infortunio non mi farà mai cambiare idea sulla tua qualità e sul fatto che sei fatto per indossare i colori del tuo club del cuore». L’anno successivo, insieme a Mamadou Niang, Cissé formerà la coppia più prolifica della Ligue1.
Sotto la sua presidenza, l’OM non vincerà niente: arriverà due volte in finale di Coppa di Francia, sempre sconfitto, e per tre volte si classificherà al secondo posto. Un salto in avanti rispetto alla mediocrità delle stagioni precedenti, ma è stato soprattutto un periodo in cui sono state poste le basi per il ritorno al titolo che, beffardamente, arriverà l’anno successivo alla sua epurazione. «Sono il solo presidente nero di un club in Europa», dice all’acme della sua presidenza. «È una scoperta dolorosa per l’immagine della società europea ma soprattutto francese, che esclude le minoranze etniche».
Il maggiore successo di Diouf, se vogliamo inquadrarla in quest’ottica, è stato quello di mettere il tema del razzismo, esplicitamente e implicitamente, al centro dello scenario in maniera prepotente. «Bisogna dimostrare che certi posti ci appartengono», dice a Dacourt nel 2019, nell’ambito del reportage prodotto dall’ex calciatore: «Je suis pas un singe». «Conosco molti neri che non vogliono prendere un diploma e si dicono che tanto non avrebbero chances. Bisogna che noi neri iniziamo a rifiutare l’idea di essere martiri».
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Una battaglia, quella contro il razzismo, che ha continuato a condurre ovviamente anche una volta lasciato il ruolo di presidente, quando è tornato a dedicarsi al giornalismo con l’Istituto Europeo di Giornalismo di Marsiglia. Quando nel 2010 è emersa l’idea, in seno alla Federazione calcistica francese, di stabilire delle "quote" nei vivai per neri e arabi, Diouf non ha tardato a far sentire il suo punto di vista, chiaramente contrario.
Così come nel 2014, quando ha avuto uno scontro piuttosto duro con Willy Sagnol, uno dei vincitori della Coppa del Mondo 1998 con la Nazionale dei black-blanc-beurres. In un’intervista al quotidiano «Sud-Ouest», Sagnol aveva disegnato un ritratto discutibile del «tipico giocatore africano», imbevuto di stereotipi al limite del razzismo. «Un’uscita che si iscrive nell’ordine normale di quest’epoca», aveva controbattuto Diouf in un editoriale su Le Monde. «Il colpevole non è Sagnol, ma il sistema. Un sistema che poggia su molti giocatori africani che però alla fine delle loro carriere scompaiono, perché non si ha più bisogno di loro». Per protesta, Diouf aveva invitato i giocatori neri a boicottare, pur senza mai parlare esplicitamente di boicottaggio, la successiva giornata di campionato.
Il primo
L’ultima mossa di Pape Diouf da presidente dell’OM è stata quella di finalizzare l’ingaggio di Didier Deschamps come allenatore in sostituzione di Eric Gerets: il belga era l’idolo incontrastato del pubblico, ma non propriamente la figura prediletta di Robert Louis-Dreyfus, il proprietario del club. Pape, con coerenza e acume, aveva accontentato l’azionista di maggioranza, ma sempre nell’ottica di alzare il livello competitivo. Il 1 Maggio 2009 Louis-Dreyfus e Pape si incontrano a Lugano: è il giorno del commiato. «Quando sono arrivato all’OM c’era un buco di 35 milioni. Alla mia partenza c’erano 50 milioni da investire nei giocatori che poi avrebbero portato l’OM a vincere. Me ne sono andato con una certa aura», ha detto.
Nel 2013, dopo essere stato nominato Cavaliere della Legione d’Onore da parte di Hollande, Pape Diouf ha annunciato che si sarebbe candidato alle elezioni amministrative di Marsiglia previste per l’anno successivo. «Ho presieduto la squadra di una città dove il lepénismo, e altre forme d’estremismo, hanno guadagnato parecchi consensi. Ho beneficiato della considerazione, della simpatia e addirittura dell’amicizia dei marsigliesi, perché ho abbattuto il muro dell’ignoranza. Forse non sono stato il miglior presidente del club, ma di certo non il peggiore. Il giorno in cui gli africani occuperanno dei posti importanti si potrà giudicare la loro capacità senza pregiudizi. Allora avremo fatto fare all’ignoranza un passo indietro».
La candidatura è stata alla testa di una lista civica che comprendeva ecologisti, attivisti e imprenditori: «Ci sono due tipi di persona che si candidano in politica», ha detto a Tapie in un’intervista faccia a faccia. «Quelli che hanno una rete di interessi e devono difenderla, e quelli che da onesti cittadini vogliono dare qualcosa per amore». Nel percorso di Diouf, da agente a presidente, ci sono stati entrambi, e non ha mai disconosciuto nessuno dei due. Non guadagnerà molti consensi, però, racimolando poco più del 5% delle preferenze.
«Non ho paura di venire dimenticato», ha scritto nella sua autobiografia. «Nei grandi uomini che ho ammirato, di cui ho letto le opere e scoperto i percorsi, mi ha sempre intrigato e colpito questa volontà selvaggia di voler entrare nella storia. A me non fa né caldo né freddo. Se posso dire di aver lasciato ai miei figli, ai miei nipoti, un certo tipo d’insegnamento che può tornargli utile in maniera positiva nella loro vita, mi basta. Mi sarà sufficiente che possano dire che gli ho trasmesso qualcosa, un’intransigenza o un’apertura, a qualche principio o regola di vita».
C’è un’altra frase di Pape che mi ha colpito: «Si nasce, si vive, si parte. Si è tutti di passaggio. Si succede gli uni agli altri. È la legge della natura». Trasmette un fatalismo che è stato, in qualche modo, il fil rouge dell’intera esistenza di Pape Diouf. Un uomo che, forse suo malgrado, senza voler a tutti i costi entrare nella storia, ha finito per scriverla. Con l’eleganza della penna, il coraggio di snaturarsi e riscoprirsi, l’amore per una città e per uno sport. Con la potenza dirompente di chi sa prendersi il proprio destino. Di chi riesce ad essere, anche inconsapevolmente, sempre il primo.