La posizione di dominio ottenuta in Francia - grazie soprattutto alle enormi disponibilità di denaro del fondo sovrano qatariota - da ormai diverso tempo non bastano a contenere le ambizioni del Paris Saint-Germain. L’affermazione in Champions League rappresenta una specie di ossessione, e nonostante gli sforzi economici e di programmazione fatti in questi anni il PSG non è mai andato oltre i quarti di finale.
Col tempo, nel nostro immaginario il PSG ha finito per assumere la figura della squadra ricca e fragile, contro cui il karma si è accanito in modo quasi crudele, come nella famosa rimonta subita dal Barcellona due anni fa, in cui i parigini riuscirono a sperperare il 4-0 della gara d’andata perdendo 6-1 al Camp Nou. O come anche in questa stagione, dove la squadra è uscita dopo un doppio confronto contro il Manchester United in cui è stato punito oltre misura dagli episodi.
Per rendere l’idea dello psicodramma dei parigini basterebbe riportare i risultati ottenuti nei sei anni in cui hanno partecipato: nel 2012/13 sono usciti ai quarti di finale contro il Barcellona; 2013/14 eliminati ai quarti dal Chelsea; 2014/15 eliminazione ai quarti contro il Barcellona (poi vincitore); 2015/16 usciti ancora ai quarti contro il Manchester City; nelle ultime due stagioni il PSG si è invece fermato agli ottavi, perdendo prima col Barcellona e poi col Real Madrid, che avrebbe sollevato la terza Champions consecutiva a Kiev.
Per rimediare a questa serie di risultati forse incoerenti col valore della rosa - almeno secondo l’ambiziosa dirigenza - la scorsa estate il PSG ha deciso di separarsi da Unai Emery, mai realmente amato dallo spogliatoio, affidandosi a Thomas Tuchel. Un allenatore originale, con una visione del calcio molto chiara ma attorno a cui esistevano diverse perplessità. Le sue idee così definite potevano attecchire anche in un contesto difficile e blasonato come quello del PSG? Sarebbe riuscito a gestire una rosa di superstar dopo aver avuto problemi di spogliatoio anche con il Borussia Dortmund? Il compito, come al solito, conteneva un margine d’errore molto sottile: continuare a dominare in patria vincendo il campionato con largo anticipo e la Coppa di Francia, ma soprattutto migliorare il proprio cammino europeo. Come ogni anno, il PSG non aveva diritto a sbagliare più di una o due partite.
Quando ha lasciato che il Manchester United rimontasse un doppio vantaggio in casa con un rigore al 94’, riuscendo come sempre a perdersi nei dettagli, il PSG ha trasformato una stagione di successo in un paradosso con poche vie d’uscita. Da quel giorno la squadra si è sciolta. Prima ha sprecato tre matchpoint per vincere il campionato - con dentro l’incredibile errore di Choupo Moting - e poi ha perso la Coppa di Francia in finale contro il Rennes, ancora in modo drammatica.
Il PSG è andato prima in vantaggio di due gol, due grandi prodezze di Dani Alves e Neymar. Poi è arrivato lo sfortunato autogol di Kimpembé e - dopo aver fallito diverse occasioni di segnare il 3-1 - il Rennes ha pareggiato con un colpo di testa da calcio d’angolo. La squadra ha perso la testa, e Mbappé ha rimediato un espulsione diretta per un brutto intervento su Da Silva. A quel punto, per come abbiamo imparato a conoscere la stagione del PSG, era quasi scontato che i parigini perdessero ai calci di rigore. L’errore decisivo, dopo una serie perfetta, è stato di Christopher Nkunku, uno dei pupilli di Tuchel.
Le scelte di Tuchel
Dobbiamo però fare un passo indietro e tornare sulla scelta della dirigenza di Tomas Tuchel. Al Borussia Dortmund, raccogliendo l’eredità di Jürgen Klopp, il tecnico era riuscito a rinnovare il gioco dei gialloneri, allontanandosi dal sistema di pressing e transizioni veloci utilizzato per giocare un calcio più orientato a dominare il possesso, riuscendo a vincere una Coppa di Germania nel 2017. Nonostante sia stato spesso paragonato a Klopp, con cui ha condiviso le tappe d’inizio carriera, Tuchel si è dimostrato sin un allenatore diverso per metodi e idee di gioco. In Germania era soprannominato “Sportwissenschaftler”, cioè scienziato dello sport. Con Tuchel il Dortmund non si è accontentato di essere una squadra intensa e verticale, ma ha sviluppato una forte volontà di controllo del pallone, passando con una certa fluidità da un sistema a un altro per adattarsi ai punti deboli avversari: un approccio, per l’appunto, scientifico.
La serie di partite giocate contro Guardiola nelle stagioni in cui si sono incrociati in Germania è stata una vetrina di finezze tattiche, e nonostante Tuchel abbia quasi sempre perso (quattro volte su cinque), riuscì a mettere in difficoltà il Bayern di Guardiola ben oltre quanto fosse lecito aspettarsi. Come l’allenatore catalano, anche Tuchel mostra una certa inclinazione a innovare e a sperimentare tatticamente. Prendiamo ad esempio il “falso centrale” (cioè un difensore centrale che si alza a centrocampo in fase di uscita del pallone), che Guardiola ogni tanto utilizza con Fernandinho al Manchester City e che il tecnico tedesco aveva già sperimentato con il Borussia Dortmund in una partita di Europa League contro il Tottenham.
A Parigi Tuchel ha trovato ovviamente un ambiente diverso. Il mercato estivo non è stato entusiasmante e ha aggiunto alla rosa soltanto Kehrer, Bernat, Choupo-Moting e Buffon, senza toccare quello che sembrava il reparto più sguarnito di tutti, il centrocampo. Nonostante i segnali lanciati da Tuchel in estate e a gennaio (ripetuti con molta meno flemma dopo l’eliminazione in Champions), il PSG ha dovuto affrontare la stagione senza un vero mediano, con la dirigenza che si è arresa al ritiro di Thiago Motta, bocciando Lo Celso e sottovalutando la situazione delicata di Rabiot, messo fuori rosa per aver rifiutato il rinnovo del contratto in scadenza a giugno.
Tuchel si è così affidato alle capacità di Verratti (che ha saltato diverse partite per infortunio) trasformando Marquinhos in un mediano, e adattando di volta in volta giocatori diversi ai suoi fianchi. Tuchel ha iniziato a sperimentare da subito alternando diversi sistemi: è partito col 4-3-3 ereditato da Emery, poi è passato a uno schieramento che prevedeva la difesa a tre e due uomini a centrocampo. In Champions League inizialmente ha puntato sul vecchio modulo, ma con movimenti particolari per assecondare le caratteristiche dei suoi giocatori più influenti.
Nella gara d’andata contro il Liverpool, il 4-3-3 del PSG creava un lato forte a sinistra, dove i movimenti a rientrare di Neymar spingevano Di María e Bernat a turno a prendere l’ampiezza, mentre l’altra mezzala, Verratti, si comportava da regista a tutto campo senza una posizione fissa.
Nella partita d’andata contro il Napoli, Tuchel aveva incoraggiato questa tendenza schierando Neymar da trequartista, in un sistema fluido che poteva disegnare un 4-2-3-1 o un 4-3-2-1 a seconda della posizione di Di María, ago della bilancia a metà tra la mezzala e l’esterno. Con questa fluidità in fase di possesso il PSG rischiava sempre di sbilanciarsi e di perdere stabilità nelle transizioni difensive. Verratti e Rabiot erano liberi di muoversi incontro al pallone, possibilmente coordinando i movimenti, e lo stesso facevano Neymar e Di María più avanzati: il PSG faticava però a trovare un’occupazione del campo efficace contro il 4-4-2 piatto di Ancelotti e si limitava a cercare Neymar alle spalle del centrocampo per creare i presupposti per un’occasione.
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Ambientarsi a vicenda
Dopo la sfida contro il Napoli, si è aperto il primo spartiacque della stagione. Tuchel ha abbandonato quasi definitivamente la difesa a quattro in fase di possesso, forse giudicandola poco adatta a far uscire la palla in modo pulito contro il pressing avversario, ed è tornato al 3-4-2-1, con Di María tra centrocampo e trequarti, e un esterno che in fase di non-possesso scalava indietro a formare una linea a 4. Con questa sistema il PSG ha affrontato prima il Lille, con Verratti e Draxler a centrocampo, e poi la gara di ritorno contro il Napoli al San Paolo, con Di María che in fase difensiva agiva da mezzala e in quella di possesso avanzava sulla trequarti avvicinandosi a Mbappé e Neymar.
È però nella partita di ritorno contro il Liverpool che il PSG ha dato per la prima volta dimostrazione di maturità tattica. Tuchel aveva scelto un sistema fluido, con Marquinhos che oscillava tra la linea dei centrocampisti e quella difensiva. Senza palla il PSG si schierava con un 4-4-2, in fase offensiva diventava invece un 3-5-2 o 3-4-1-2 a seconda dei momenti. Marquinhos partiva come mediano di fianco a Verratti, ma quando la squadra aveva il pallone tra i piedi abbandonava la sua posizione per agire in mezzo ai difensori centrali, con Kehrer che si alzava e si allargava come un terzino. In questo modo, il PSG resisteva al pressing del tridente del Liverpool, contando poi sull’abilità di Neymar e Verratti per risalire il campo palleggiando. Il rischio preso da Tuchel aveva migliorato la prestazione del PSG rispetto alla gara d’andata, che la squadra di Klopp aveva dominato sul piano del gioco.
Marquinhos diventa il libero della difesa a tre, causando la scalata di Neymar a centrocampo e l’allargamento di Kehrer. Il PSG riesce a salire più compatto e non dipende da un singolo giocatore.
Tuchel ha alternato molti sistemi e spostato alcuni dei suoi giocatori in posizioni di volta in volta diverse, con compiti spesso delicati come quelli assegnati a Marquinhos e Di María. Questa fluidità da un lato ha reso il PSG poco prevedibile, dall’altro lato lo ha fatto sembrare una squadra dall’identità tattica ancora poco definita, anche se alcune idee di gioco, come la volontà di manovrare palla a terra e di forzare il recupero attraverso il pressing e il gegenpressing, si sono mantenuti stabili e riconoscibili.
Manchester-Parigi, andata
È difficile dare un giudizio definito sull’impatto avuto da Tuchel nella prima parte di stagione. I suoi metodi e le sue sperimentazioni tattiche, in una squadra abituata a risolvere i problemi con il sovrabbondante talento dei suoi giocatori, ha generato qualche ambiguità, e però l’allenatore tedesco ha dimostrato abbastanza pragmatismo da non imporre una struttura tattica rigida e frustrante, concedendo diverse libertà ai suoi campioni. Il questo senso è stato tanto il sistema ad adattarsi ai giocatori quanto i giocatori ad adattarsi al sistema, in un necessario rapporto di fiducia reciproco.
A non aiutare sono stati però gli infortuni, tra cui quello grave di Neymar nel momento decisivo della stagione, e quelli ripetuti di Cavani e dei centrocampisti, che hanno finito per ridurre all’osso una rosa già non molto estesa. Basti pensare che a un certo punto della stagione, in campionato il PSG schierava Dani Alves e Marquinhos come duo di centrocampo.
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La partita contro il Rennes è un esempio di pragmatismo e sopravvivenza. Con due difensori a centrocampo, il PSG sceglie di manovrare direttamente dalla difesa all’attacco, sfruttando l’atteggiamento abbastanza passivo del Rennes nel non leggere l’ampiezza.
Le due partite contro il Manchester United, dove il PSG si è giocato l’obbiettivo più importante della stagione, possono aiutarci a comprendere meglio quanto la commistione fra ideologia tattica e applicazione sul campo sia stata la grossa ambiguità gestionale del PSG 2018/19.
Nella partita d’andata, Tuchel ha rimediato alle pesanti assenze di Neymar e Cavani schierando una squadra abbastanza prudente, con la difesa a tre composta da Kehrer, Thiago Silva e Kimpembé, la coppia Verratti-Marquinhos come interni a centrocampo, Dani Alves e Bernat sulle fasce e Di María, Draxler e Mbappé a formare il tridente offensivo.
Nella risalita del campo Tuchel ha usato in maniera brillante gli esterni difensivi: quando il PSG cercava di consolidare il possesso uno tra Bernat o Dani Alves restava basso, fluido e centrale per agevolare la manovra, mentre Verratti come al solito andava alla caccia del pallone per fornire sempre una soluzione di passaggio, a qualsiasi altezza del campo. Il gol di Mbappé nasce proprio da un’azione in cui Bernat è al centro e trova il corridoio per Di María, poi Mbappé brucia i difensori centrali e gira in porta il cross da sinistra dell’esterno argentino. A Manchester il sistema del PSG ha esaltato i giocatori più decisivi per l’equilibrio della squadra, da Verratti a Marquinhos e Di María, tutti protagonisti di grandi prestazioni che hanno indirizzato la partita.
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Verratti è il centro di gravità permanente del PSG, i reparti uniti e i movimenti collettivi gli permettono di essere decisivo. Qui fa uscire il PSG da una situazione complicata, attaccato da tre giocatori, e trenta secondi dopo rifinisce per di Di María, che sfiora il gol.
La mancanza di due giocatori come Neymar e Cavani non ha pesato più di tanto sul gruppo, dimostrando quanto anche quelle che normalmente sono le seconde linee della rosa potessero essere decisive in una sfida europea, se inseriti in un contesto di teoria e applicazione del piano gara praticamente perfetto, che per la prima volta (e forse l’unica durante tutta la stagione, nonostante i successi) il PSG si è mostrato come una squadra coerente, e perciò – non per il solo talento –forte.
Parigi-Manchester, ritorno
Quello che è successo al ritorno, dove sulla carta il PSG doveva solo gestire il doppio vantaggio, è difficile da spiegare – considerando sopratutto che in campo, il PSG quella gara è riuscito a gestirla davvero, e per molti tratti della partita anche bene, rischiando certo qualcosa, ma senza dare l’impressione di poter perdere tutto.
In un’edizione di Champions che si è giocata particolarmente sui dettagli e sulla gestione della casualità, il PSG si è giocato il passaggio del turno in due circostanze molto occasionali: una è stata l’imprecisione di Buffon su un tiro dai venti metri di Rashford, l’altro il movimento che ha portato Kimpembe a colpire il pallone col braccio sul tiro di Dalot. Nonostante una preparazione tattica efficace e una prestazione tutt’altro che negativa, il PSG non ha dimostrato la forza necessaria ad evitare quei momenti ormai classici di Champions in cui sembra poter accadere qualsiasi cosa.
L’eliminazione ha così praticamente capovolto l’intera stagione di Tuchel e della squadra, aprendo evidenti crepe dove prima c’erano solo linee storte. Il PSG, nonostante la vittoria del campionato, si ritrova così in una situazione delicata sul piano societario, dove inevitabilmente il lavoro e le scelte passeranno per il mercato.
A gennaio la società si era già mossa per aggiungere Paredes al reparto di centrocampo, ma il suo contributo è stato marginale sulla stagione della squadra. È stata una scelta controintuitiva rispetto al passato: un giocatore dall’alto valore tecnico ma con evidenti carenze difensive. Thiago Motta è stato un giocatore fondamentale per i movimenti e la consapevolezza tattica che riusciva a imporre in campo, completandosi alla perfezione con l’istintività di Verratti; Paredes è un giocatore diverso, un trequartista statico che ha dovuto adattarsi alla velocità del calcio europeo, finendo per interpretare il ruolo di regista basso in modo pressoché unico, nei pregi e nei difetti, entrambi molto marcati.
Tuttora Paredes non sembra un giocatore molto diverso da quello visto in Italia. Nello Zenit si è alternato negli ultimi due anni fra regista in un centrocampo a tre e doble pivot in un 4-4-2, mantenendo oltre a un numero roccioso di presenze, una certa continuità di rendimento che gli ha permesso di rimanere nei radar europei. Da quando è arrivato in Francia ha giocato allo stesso modo, facendo per lo più da sostituto di Verratti o da ulteriore sfogo creativo e statico quando l’italiano era più libero di spingersi in avanti.
Quello che salta subito all’occhio, però, guardando una qualsiasi partita del PSG con Paredes, è la pigrizia difensiva che accompagna fedelmente l’argentino, in una squadra che, tentando di tenere il pallone tra i piedi in modo insistito, tende a lasciarlo in balìa delle transizioni offensiva avversarie. In sostanza, la presenza di Paredes come vertice basso non è dissimile dall’interpretazione che fino all'anno scorso faceva Lo Celso, considerato però un esperimento fallito da Emery nel suo lavoro a Parigi.
Paredes sbaglia completamente i tempi d’intervento ma il Nîmes affronta il contropiede comunque in inferiorità numerica contro la linea a tre del Paris.
Inevitabilmente, dunque, le speranze di miglioramento del PSG il prossimo anno passeranno per l’infoltimento della rosa, sopratutto a centrocampo e in attacco, reparti che quest’anno hanno lasciato il progetto tecnico in situazioni precarie e difficoltose. Passerà per la fiducia in un allenatore che si è confermato comunque brillante nella sua capacità di unire un’ideologia concreta di gioco di posizione con una gestione abbastanza pragmatica del capitale umano. Il PSG può ripartire dalle prestazioni contro il Liverpool e il Manchester United (e non, per esempio, dal 5-1 subito contro il Lille a campionato già deciso), a patto di trasformare questi casi isolati in una continuità di rendimento prima di tutto mentale, che permettano alla squadra di porre basi solide su cui reggersi nei momenti più delicati dell’anno.
Per la prima volta da quando il fondo sovrano qatariota ha acquistato la squadra parigina, sembra che il futuro dipenderà da una spinta paziente sul lavoro già fatto e da fare. In questo senso, il PSG si trova davanti un bivio: o dare senso al progetto tecnico ascoltando le richieste di equilibrio del proprio allenatore, o continuare a puntare sulla via della squadra ricchissima, fortissima, dominante, e puntualmente fragile.