There was a man with a plan and the name Pat Riley
He roused the troops and said come on Mighty "D"
He professed to rock the "D".
È il ritornello di una canzone composta dai Tenacious D, un gruppo di comedy rock formato da Kyle Gass e Jack Black—faccia tonda, pancia oversize, re delle smorfie demenziali, mitico protagonista di School of Rock. Hanno pubblicato tre album che contengono pezzi deliziosamente assurdi come "Cock Pushups", "Papagenu (He's My Sassafrass)" e "Fuck Her Gently". Due pazzoidi di mezza età appassionati di basket (li si vede spesso fare il tifo per il Lakers allo Staples Center, il campo da gioco delle due squadre di Los Angeles) sono riusciti a sintetizzare meglio di chiunque altro la ragione per cui Pat Riley è indiscutibilmente uno dei più grandi personaggi della storia del basket. Riley è sempre stato—ed è ancora— "the man with a plan". Aveva un piano quando era un "role player", un gregario con i baffi a ferro di cavallo, i basettoni e la chioma fonata nei Lakers di Jerry West e Wilt Chamberlain; aveva un piano nel 1981, quando a trentasei anni ha ereditato un gruppo di campioni in crisi e l'ha trasformato nei Lakers dello show time; ha avuto un piano dieci anni dopo, quando ha preso in mano i New York Knicks di Patrick Ewing, un gruppo di giocatori modesti che avevano in comune tra di loro solo l’odio reciproco, e ne ha fatto una delle squadre più toste che si siano mai viste su un parquet; e ha un piano oggi, da presidente dei Miami Heat, campioni in carica e favoriti per vincere il terzo titolo consecutivo.
Pat Riley ha vinto cinque campionati da allenatore, uno da giocatore, uno da assistente allenatore e due da presidente, può vantare un record strabiliante del 63 per cento di vittorie (1210 vinte contro 694 perse), è stato tre volte allenatore dell'anno, è stato inserito nella lista dell'Nba dei dieci migliori allenatori della storia e ancora oggi è l'unico sportivo americano a essere riuscito a vincere un campionato da giocatore, da allenatore e da dirigente. Ma i numeri dicono poco o niente del contributo reale che ha dato all'Nba. Come allenatore, Riley aveva due qualità che lo rendevano speciale: riusciva ad adattarsi a contesti diversi, a cambiare il sistema di gioco in base alle caratteristiche tecniche e fisiche dei giocatori, creando squadre sempre forti ma in modo molto diverso; e poi aveva un’abilità strabiliante nel tirare fuori il meglio dai giocatori, motivando quelli più forti e facendo migliorare quelli meno dotati.
Poi c'è la parte mitologica del personaggio, quella serie di dettagli che negli anni ha creato la leggenda di Pat Riley. Ha inventato un modo completamente nuovo di stare in panchina. Si è imposto come una star in un periodo in cui gli allenatori erano poco più che comparse. Negli anni ottanta tifare per i Lakers era entusiasmante perché giocavano meglio, perché avevano in squadra un genio illuminato chiamato Magic Johnson e un gigante con le mani da pianista chiamato Kareem Abdul Jabbar, ma anche perché erano la squadra più cool della lega. Ovunque andassero si lasciavano dietro una scia di fascino che sgorgava a fiotti dal loro comandante in capo, un uomo magnetico con i capelli neri impomatati pettinati all'indietro, un impeccabile completo Armani grigio o nero, con cravatta scura e camicia bianca, e posture eleganti e composte da capitano d'industria.
Questo non significa che tutti lo rispettino o che la sua carriera non sia oggetto di discussione. Riley è quel tipo di personaggio sportivo troppo spregiudicato, egocentrico e sicuro di sé per non farsi dei nemici. Per ottenere quello che voleva alle condizioni che voleva ha violato contratti, ha tradito presidenti, ha maltrattato giornalisti, ha attaccato gli arbitri e la lega e ha insultato altri dirigenti. Il suo passaggio dai New York Knicks ai Miami Heat, che ha dato vita a una delle rivalità più accese della storia sportiva recente, è una ferita ancora aperta, e nelle decine di articoli che girano in rete con titoli come "100 reasons to hate the Miami Heat", il suo nome è sempre in cima alla lista.
The man with a plan
Patrick James Riley è nato a Rome, New York, il 20 marzo del 1945, tre giorni dopo la festa di San Patrizio. È cresciuto a Schenectady, una cittadina di circa sessantamila abitanti un tempo conosciuta come "the city that lights and hauls the world", la città che illumina e trasporta il mondo. Il riferimento era alle due grandi aziende che furono fondate nella città: nel 1892 Thomas Edison fuse la sua azienda elettrica con la Thomson-Houston Electric e creò la General Electric, che oggi è la quarta compagnia più grande del mondo; nove anni dopo una fusione simile diede vita alla America Locomoitve Company, un'azienda che progettava e costruiva locomotive a vapore e che ha prosperato fino a dopo la seconda guerra mondiale, quando le rotaie, a differenza delle lampadine, sono passate di moda. La Schenectady in cui è cresciuto l'attuale presidente dei Miami Heat era un posto ordinato, quasi idilliaco, che rifletteva alla perfezione lo spirito sereno e produttivo degli Stati Uniti che avevano appena vinto la seconda guerra mondiale.
Riley è l'ultimo di sei figli messi al mondo e allevati da Mary—una cattolica appassionata—e da Leon Francis detto Lee, un giocatore di baseball e un padre severo che invece credeva nelle potere salvifico dello sport. Patrick non è stato l'unico in famiglia a farsi strada nel mondo imparando a maneggiare una palla: suo fratello maggiore Leon Francis Jr. è stato un buon defensive back di football; tra il 1955 e il 1960 ha giocato nella National Football League per i Detroit Lions, i Philadelphia Eagles e i New York Giants. In un'intervista di qualche anno fa, Pat ha raccontato di quando la famiglia girava per la costa est degli Stati Uniti a bordo di una woody, una di quelle enormi e pesanti station wagon con le fiancate in legno che abbiamo visto in centinaia di film. «Ci spostavamo continuamente per seguire nostro padre nelle partite della Minor League. Dormivamo negli hotel. I miei primi ricordi sono le serate passate con i miei fratelli a giocare a nascondino dentro buie sale da ballo mentre fuori la pioggia batteva sulle finestre.»
Devono essere stati i metodi educativi di Lee, più che le partite a nascondino, a trasmettere al piccolo Patrick la determinazione, la disciplina e la prontezza di riflessi che negli anni seguenti gli avrebbero aperto, un centimetro alla volta, la porta del basket che conta. Quando aveva nove anni i suoi fratelli maggiori Lee e Lenny lo portavano quasi tutti i giorni—su ordine del padre—a giocare a basket a Lincoln Heights, una delle zone più dure della città. Patrick veniva buttato nella mischia contro ragazzi spesso più grandi di lui. Lo provocavano, lo spingevano, lo picchiavano. Il pomeriggio tornava a casa piangendo e andava a leccarsi le ferite in garage. Una sera, mentre tutta la famiglia era a tavola per cena, Leon Francis Jr. ha chiesto al padre perché insistesse a portare Pat a Lincoln Heights. Leon Francis Sr. ha risposto: «Perché voglio che impari a non avere paura. Deve imparare che la competizione tira fuori il meglio e il peggio di ognuno. In questo momento c'è solo il peggio. Ma se non si arrenderà prima o poi arriverà anche il meglio». Poi ha guardato il bambino di nove anni che aveva gli occhi pieni di lacrime e gli ha detto: «Pat, devi tornarci domani».
Kareem Abdul Jabbar in Boston-Lakers, gara 2
Boston, 29 maggio 1985. Vigilia di gara 2 delle finali Nba tra i Los Angeles Lakers e i Boston Celtics. Qualche anno dopo Pat Riley l'avrebbe definita la partita più importante del decennio per i Lakers, forse la più importante della sua carriera. Due giorni prima si è giocata gara 1 e i Lakers sono stati massacrati, letteralmente. È finita 148 a 114 e non c'è mai stata partita: i Celtics hanno impostato la partita su ritmi frenetici, hanno tirato con percentuali altissime e sono riusciti ad annullare Kareem Abdul Jabbar, che ha chiuso con 12 punti e 3 rimbalzi. K.C. Jones, l'allenatore di Boston, un enorme afroamericano con la faccia da attore e il carisma di un pastore protestante, ha dato a Riley una lezione di basket. Il giorno dopo i giornali titolavano "Memorial day massacre" e i tifosi di Boston prendevano in giro i rivali chiamandoli "L.A. Fakers". Quando comincia a preparare gara 2, Riley sa che la situazione è anche peggiore di quanto sembri dall'esterno, perché sa che il problema della sua squadra non è tecnico ma mentale. Non tanto per com'è andata gara 1. Il fatto è che quella partita ha definitivamente innestato nella testa dei giocatori la convinzione di essere le ennesime vittime della maledizione di Boston: fino a quel momento i Lakers hanno affrontato per sei volte i Celtics in finale e hanno sempre perso. L'ultima nel 1984, quando un errore di Riley in gara 2 (un time out chiamato nel momento sbagliato) ha tenuto in vita i Celtics e ha spostato l'inerzia della serie dalla loro parte. Per sconfiggere la bestia nera e scongiurare la maledizione, Riley costringe la squadra a guardare e a riguardare per ore i filmati di gara 1, mostrando tutti gli errori commessi senza risparmiare giudizi severi a nessuno, neanche a Magic e a Kareem. Poi indossa i panni del motivatore sentimentale. Prima della partita raduna la squadra e pronuncia un lungo discorso in cui racconta di quando suo padre Lee lo mandava a Lincoln Heights a imparare a non avere paura. Di quando tornava a casa piangendo e andava a rinchiudersi in garage. «Non pensavo che sarei mai riuscito a superare quei momenti. Invece ce l'ho fatta, e poco tempo dopo ero io quello che mandava gli altri ragazzi a leccarsi le ferite nei loro garage.» Pausa scenica, poi torna a parlare di Lee. Racconta del giorno del suo matrimonio con Chris, nel 1970, quando era un giocatore senza futuro e indebitato di cinquemila dollari. «Mio padre venne da me e mi disse: "Ricorda quello che ti ho sempre detto, Pat: arriverà il giorno in cui dovrai alzarti e prendere a calci qualche sedere". Quel giorno è arrivato». Poi conclude: «È l'essenza della competizione. È quello che i Celtics ci stanno offrendo oggi». Gara 2 è un'altra storia: i Lakers vanno all'intervallo sopra di 18 punti e controllano il vantaggio fino alla fine senza troppi problemi. Kareem torna se stesso e domina sotto canestro—30 punti e 17 rimbalzi. Guidati dal loro gigante, i Lakers vinceranno serie (4 a 2) e titolo. Jerry Buss, il proprietario della squadra, proclamerà la fine della maledizione di Boston («it can never be said again that the Lakers have never beaten the Celtics»). E i giornali cominceranno a parlare di Riley come dell'allenatore della più forte squadra di tutti i tempi.
Dopo le parole di suo padre a tavola, quella sera del 1954, Patrick sarebbe tornato al campetto e avrebbe anche imparato a non avere paura, ma non nel senso di disciplinata determinazione che intendeva Lee: le botte prese a Lincoln Heights l'hanno trasformato in un ragazzo sfrontato, impertinente e un po' arrogante. Un ribelle. A dodici anni andava in giro con un paio—sempre lo stesso—di pantaloni con l'orlo avvolto e stretto intorno alle caviglie, camicia e capelli pettinati alla Elvis. In quel periodo Riley aveva un problema di disciplina che non lo rendeva molto portato per gli sport di squadra. Ma in campo se la cavava benone, non solo a basket: era anche un ottimo quarterback di football, lo sport di suo fratello Lee. Un po' alla volta ha cominciato a capire che poteva usare il suo talento nello sport per crearsi un'identità anche fuori dal campo, e appena entrato al liceo ha messo da parte l'attitudine da ribelle senza una causa per buttarsi anima e corpo nello sport. L'allenatore della squadra di basket della Linton High School era Walt Przybylo, uno dei più vincenti allenatori di basket liceale del paese. Prima di ogni allenamento, Przybylo faceva alla squadra un discorsetto in cui parlava di cose che non avevano niente a che fare con il basket: «Una giorno ci spiegava come dovevamo comportarci nella vita, e il giorno dopo raccontava che il meccanico gli aveva fatto un pessimo servizio», ha detto Riley qualche anno dopo, spiegando che gli insegnamenti di Przybylo sono stati decisivi per migliorare la sua attitudine verso il basket.
Al momento di scegliere l'università, Riley era un uomo maturo e un atleta disciplinato che faceva gola a molti atenei. Ha rifiutato un'offerta di Bear Bryant, il leggendario allenatore di football dell'università dell'Alabama, e ha scelto di andare a giocare a basket all'università di Kentucky. La squadra era allenata da Adolph Rupp, uno dei cinque coach più vincenti della storia del basket universitario americano. Rupp era un uomo e un allenatore vecchio stile, credeva nella disciplina, esigeva dai suoi giocatori un'abnegazione costante e giocava un basket semplice, basato sui fondamentali. Ma per certi versi era anche un innovatore: fu uno dei primi negli Stati Uniti a usare il "fast break", il contropiede veloce da palla recuperata che vent'anni dopo sarebbe diventato uno dei pilastri dei Los Angeles Lakers dello showtime. Riley ha giocato a Kentucky per tre anni, segnando circa 18 punti di media a partita. A quel tempo giocava da ala piccola. Era il leader dei Rupp's runts, i nani di Rupp, una squadra dove nessuno dei giocatori era alto più di un metro e 98 centimetri. Al secondo anno Riley, che era alto 1,95 e non saltava granché, è riuscito a vincere cinquanta palle a due di seguito contro giocatori il più delle volte molto più alti di lui. Merito di un trucchetto sleale che suggerisce qualcosa sull'astuzia e sull'ingegnosità di un uomo che non ha mai veramente accettato che potessero esistere dei limiti, e che non ha mai avuto problemi a trovare un modo per superarli: «Mi piegavo prima e saltavo prima dell'avversario. Poi tiravo fuori il gomito, e quando lui saltava mi agganciavo e mi facevo sollevare. Henry Finkel di Dayton era alto 2,13 e mi ha sollevato quasi un metro sopra la sua testa».
Nella stessa stagione, Riley ha segnato 22 punti a partita e ha guidato la squadra alla finale Ncaa. La partita si è giocata il 19 marzo del 1966 e ancora oggi è ricordata come uno dei più importanti avvenimenti dello sport americano, per motivi che vanno parecchio oltre il basket. Quella volta Riley si è trovato dalla parte sbagliata della storia: dall'altra c'erano i Texas Western, una squadra composta in prevalenza da afroamericani e che era arrivata in finale sfidando pronostici e pregiudizi razziali. La partita è cominciata con una schiacciata di David Lattin, il centro di Texas, sulla testa di Pat Riley, ed è finita con la vittoria della squadra di El Paso per 72 a 65. La storia dei Texas Westers è stata raccontata nel film Glory Road, del 2006.
L'impresa dei Texas Westers
Riley ha lasciato Kentucky per entrare nell’Nba nel 1967, senza il titolo Ncaa ma con la convinzione di essere uno dei giocatori più promettenti in circolazione. Fino a quel momento aveva sempre giocato in squadre di cui era il leader, quello che segnava più punti, quello che stava in campo per più minuti, la prima scelta quando c'era da prendere l'ultimo tiro. Un giocatore speciale. Quando è arrivato nell'Nba magari non credeva di poter diventare un all-star, ma sicuramente pensava di potersi ritagliare un ruolo da protagonista. Di certo non voleva diventare un comprimario. Suo padre Lee gli aveva insegnato a non sentirsi inferiore a nessuno, Walter Przybylo gli aveva spiegato che non c'è risultato che non si possa raggiungere se si lavora duramente, e Adolph Rupp gli aveva dato gli strumenti tecnici per essere un gran giocatore. Ma sapeva anche che avrebbe dovuto faticare parecchio, soprattutto all'inizio: durante il suo ultimo anno a Kentucky aveva avuto un'ernia del disco che l'aveva costretto a stare fermo per alcune partite e poco prima del draft si era sottoposto a un intervento chirurgico. È stato comunque selezionato con la settima scelta assoluta dai San Diego Rockets. Nella sua prima stagione tra i professionisti Riley ha giocato circa 15 minuti a partita con numeri piuttosto deludenti. Al secondo anno è stato spostato nel ruolo di guardia e le cose sono migliorate: più tiri, più responsabilità, più punti. Dopo un periodo di assestamento necessario, sembrava incamminato verso il riconoscimento nazionale che era convinto di meritare. Ma poi un ginocchio ha fatto crack. Alla terza stagione ai Rockets ha giocato solo 36 partite. Da quel momento ha dovuto convivere con gli infortuni per il resto della sua carriera. A 25 anni sembrava già destinato al ruolo della meteora. Nel 1970 ha sposato Chris Rodstroms, la donna a cui ancora oggi dedica ogni successo nella vita, ha sfruttato l’expansion draft ed è stato selezionato dai Portland Trail Blazers. Nell’Oregon c'è rimasto solo tre settimane, il tempo di chiedere al suo amico Chick Hearn, leggendario radiocronista e telecronista delle partite dei Lakers, di mettere una buona parola per lui con i dirigenti della squadra californiana.
L’arrivo a Los Angeles segna la svolta della sua vita, ma non nel senso che aveva immaginato. Riley resterà ai Lakers per cinque stagioni, e in quegli anni dovrà dimostrare ogni santo giorno, durante ogni allenamento e in ogni minuto giocato, di meritare un posto in squadra. All’inizio della stagione 1971-1972 Bill Sharman, che ha appena sostituito Joe Mullaney come allenatore, prende Riley da parte:
«Vuoi un lavoro, ragazzo?»
«Sissignore!»
«Bene. Allora cerca di tenere Jerry West in forma.»
Il ragazzo ostinato da Shenectady, l’atleta promettente della Linton High School, la stella di Kentucky, non è diventato un comprimario. Peggio: è uno sparring partner. A 27 anni è un atleta tormentato dagli infortuni e senza prospettiva costretto a portare le borracce e a tirare la volata al leader della squadra. Oltre a West, in quei Lakers ci sono anche Elgin Baylor e Wilt Chamberlain. «In campo ero terrorizzato. Avevo sempre paura di perdere il posto. Facevo tutto quello che potevo per restare in squadra. Ma nei Lakers di West e Chamberlain essere un role player era un inferno.» La stagione 1971-1972 è la migliore della storia dei Lakers: la squadra vince 33 partite di fila e il titolo di campione Nba battendo in finale i New York Knicks di Walt Frazier, Earl Monroe, Willis Reed e Phil Jackson, uno spilungone con i baffi, i capelli ricci e le spalle da nuotatore nato sei mesi dopo Riley, con cui esattamente vent'anni dopo avrebbe dato vita a una delle serie di playoff più belle di sempre. Ma per Riley il titolo del 1972 non cambia granché. Nell'estate del 1975 si opera al ginocchio e i Lakers lo cedono a Phoenix. In quel momento è un giocatore ammaccato e un uomo frustrato. Quando arriva ai Suns la sua carriera è già finita, ma lui non vuole—non può—accettarlo. In Arizona gioca 60 partite. Ogni volta, prima di scendere in campo, si fa fare delle iniezioni di novocaina e cortisone per alleviare il dolore alle ginocchia causato della tendinite. «Dopo le iniezioni non sentivo più niente dalla coscia in giù. Non mi sono mai chiesto cosa potesse succedere alle mie ginocchia.» A fine stagione Phoenix lo lascia andare e nessuna squadra è interessata a prenderlo. In un bellissimo articolo su Sports Illustrated, Kenny Moore ha scritto: «Il basket e Pat Riley erano cresciuti insieme come due alberi. Ma adesso uno dei due stava per morire». Riley lo capisce e si ritira. Ha 31 anni. Comincia il suo periodo peggiore. È furioso per aver fallito nell'unica cose che gli importava davvero e allo stesso tempo è depresso perché per lui una vita senza basket non ha nessun senso. Torna a Los Angeles e si rifugia nella sua casa di Brentwood, intorno alla quale costruisce una recinzione che serve a nascondere il dolore e la rabbia. È in quel periodo tormentato che avviene la sua seconda—più importante—trasformazione umana: Riley capisce che ci sono tanti modi per essere un vincente. A 33 anni manda al diavolo i sogni infranti e le aspettative radicate e accetta se stesso. Per circa due anni lavora con Chick Hearn nella tv dei Lakers, dove ha il compito di produrre highlights e speciali sui giocatori. Si sforza di diventare un bravo giornalista, acquisisce competenze tecniche e comincia a vedere il gioco sotto un'altra luce. Sulla panchina dei Lakers ci finisce—prima come assistente, poi come head coach—grazie alla classica serie di fatalità di cui ogni tanto la storia si serve per mettere l'uomo giusto al posto giusto. All'inizio della stagione 1979-1980 l'allenatore capo Jack McKinney cade dalla bicicletta e si infortuna gravemente. Viene sostituito dal suo primo assistente, Paul Westhead. La squadra arriva in finale e vince il titolo contro Philadelphia grazie alla prima magia di un ventenne travolgente chiamato Ervin Johnson. Ma la stagione successiva comincia male. I Lakers perdono troppe partite. Magic Johnson chiede di essere ceduto. Jerry Bass, il proprietario della società, licenzia Westhead e convoca una conferenza stampa in cui spiega che la squadra sarà co-allenata da Jerry West e da Pat Riley. West prende il microfono e dice: «No, l'allenatore sarà Riley». In un meraviglioso ribaltamento del destino, la massima autorità cestistica della città consegna le chiavi della squadra all'uomo che dieci anni prima gli aveva fatto da sparring partner. Riley, che nel frattempo ha tagliato i baffi a ferro di cavallo e il casco di capelli che lo facevano somigliare a un boscaiolo del Maine, resta un po' interdetto, come tutti i presenti, e riesce a dire solo: «Voglio solo dirvi che se nessuno vuole questo lavoro, io sono felice di prenderlo». Ha 36 anni, pochissima esperienza in panchina e si ritrova a gestire un gruppo di giocatori fortissimi e scontenti.
Il benvenuto di Pat Riley
Negli anni ottanta Riley ha guidato i Lakers a sette finali in otto anni e a quattro titoli Nba. Il primo l'ha vinto subito, alla sua stagione d'esordio, quando aveva un problema a farsi chiamare "coach" perché era convinto di non esserselo meritato. Ma era abbastanza sveglio da capire che per conquistare il gruppo doveva prima guadagnarsi il rispetto dei giocatori chiave. Quando ha preso il timone, la squadra era spaccata da invidie e risentimenti. I giocatori con più esperienza, a cominciare da Abdul Jabbar, erano infastiditi dal successo travolgente di Magic Johnson, che dopo la performance strepitosa in gara 6 delle finali del 1980 era diventato il giocatore simbolo della squadra, il più amato dai tifosi, il può intervistato dalle tv, il più coccolato dal presidente. Nel 1981 la società gli aveva fatto firmare un contratto irripetibile: 25 milioni di dollari per 25 anni. Un po' alla volta, Riley ha rimesso insieme i pezzi del giocattolo, dando la prima prova di un'abilità eccezionale nel motivare il gruppo valorizzando le caratteristiche tecniche ed emotive di ogni giocatore. Ha convinto Kareem che il suo ruolo di leader spirituale non era in discussione, e poi ha convinto gli altri che mettendo la squadra nelle mani di Magic sarebbero arrivate soddisfazioni per tutti. Dopo aver sistemato l'aspetto mentale, si è preoccupato del sistema di gioco. I Lakers avevano usato già ai tempi di McKinney e Westhead l'attacco che poi sarebbe passato alla storia come showtime. Riley ha perfezionato quel sistema, e con i vestiti italiani firmati e i capelli pettinati all'indietro ci ha aggiunto un tocco hollywoodiano. Riley non giocava lo showtime perché era un amante dello spettacolo. Tutto il contrario: era un allenatore pragmatico che adattava la sua idea di gioco alle caratteristiche dei giocatori. In una squadra che aveva un genio chiaroveggente come playmaker e che poteva contare su atleti formidabili come Byron Scott, James Worthy e Michael Cooper, il run-and-gun, far correre la palla il più possibile, era l'opzione più efficace. E lo era anche far ruotare il gioco contro la difesa schierata intorno all'abilità in post basso di Abdul Jabbar. Riley aveva anche un'abilità sorprendente nel leggere le partite e sapeva adottare accorgimenti e contromisure in tempi rapidi. Dietro ogni scelta c'era un perfezionismo patologico che prevedeva allenamenti massacranti—a bordo campo faceva sistemare delle tinozze su cui a fine allenamento più di qualcuno si accasciava per vomitare—e richiedeva una devozione totale alla causa—una volta Abdul Jabbar non si è presentato al barbecue di Michael Cooper e il giorno dopo si è beccato da Riley una sfuriata memorabile. In poco tempo, il giovane uomo che si sentiva a disagio quando veniva chiamato "coach", è diventato un monarca assoluto che pretendeva rispetto o perfino sottomissione: nella sua casa di Brentwood aveva costruito porte alte solo un metro e 95, così i giocatori erano costretti a fargli un inchino prima di varcare la soglia. Nel 1988 Pat Riley ha fatto dei Lakers la prima squadra in vent'anni a vincere il titolo in back-to-back (annunciato l'anno prima durante un discorso rimasto nella storia), e l'anno successivo, dopo aver perso 4 a 3 in finale contro i Bad Boys di Detroit, ha lasciato una squadra vecchia e demotivata. E dopo un altro anno in tv è andato a salvare New York.
Jordan ricorda Riley
Springfield, Massachussetts, 12 settembre 2009. Michael Jordan pronuncia il suo discorso d'ingresso nella Hall of Fame. Ricorda tutte le persone—compagni e avversari, amici e nemici—che durante la sua carriera gli hanno dato gli stimoli per migliorarsi. Verso la fine si rivolge al presidente dei Miami Heat. Racconta di quando Riley, nel periodo in cui allenava New York, gli ha lasciato un biglietto sotto la porta della sua stanza di hotel: «Mi è piaciuto competere con te. Complimenti. Ma ci incontreremo di nuovo». Poi continua: «Quel messaggio mi ha incoraggiato. Ho capito che sei competitivo esattamente come me. Mi hai costretto a dare del mio meglio ogni volta che ho giocato contro i Knicks e contro gli Heat. In ogni squadra avevi degli jordan stoppers, avevi John Starks, che adoro [risata generale]. Ricordo che in quel periodo non potevo andare a pranzo con i miei amici Charles Oakley e Patrick Ewing. Mi dicevano: "Non possiamo mangiare con te perché Pat non crede nell'amicizia tra avversari"».
Ai Lakers Riley era un soldato semplice che si era ritrovato a capo dell’esercito dopo che tutti gli ufficiali erano caduti o avevano disertato. A New York, invece, è arrivato come comandante in capo con pieni poteri. La squadra non aveva semplicemente bisogno di un buon allenatore. Serviva un uomo carismatico che sapesse trasmettere una mentalità vincente a giocatori. I Knicks avevano bisogno di un uomo forte, come tutta New York, che attraversava uno dei periodi più brutti della sua storia recente (il 1990 e il 1991 il numero di omicidi aveva raggiunto cifre record). Anche dal punto di vista tecnico, Riley ha trovato una situazione completamente diversa da quella di Los Angeles. In squadra aveva un all-star—Patrick Ewing—, alcuni giocatori buoni ma non eccezionali—Charles Oakley, Mark Jackson, Gerald Wilkins—e poi dei comprimari su cui non avresti scommesso più di tanto—John Starks e Xavier McDaniel. L’unica analogia con la sua squadra precedente era il pessimo clima nello spogliatoio, spaccato in gruppetti in guerra tra loro. All'inizio della stagione 1991-1992, dopo qualche sconfitta che rischiava di far implodere la squadra, Riley ha cercato di invertire la rotta con la classica trovata scenografica. Ha chiuso tutti i giocatori in una stanza d'hotel e li ha divisi in gruppi: da una parte i giocatori chiave (o presunti tali), da un’altra i ribelli, quelli che non rispettavano i leader e si lamentavano tutto il tempo, in un angolo quelli convinti di non giocare abbastanza, nell’angolo opposto un’altra fazione e, da solo contro una parete, un giocatore che non parlava mai con nessuno. Poi è rimasto in silenzio per tre minuti, osservando compiaciuto le facce prima perplesse e poi infastidite dei giocatori. In mano teneva uno specchio, in modo che tutti potessero vedere in cosa avevano trasformato la squadra: un arcipelago in un mare ostile. Stava portando le tensioni allo scoperto. Nessuno poteva più nascondersi, era la resa dei conti: «Nessuno esce da questa stanza fino a quando non avrete risolto il problema». Ne è venuta fuori quella che anni dopo Riley avrebbe definito «la più preparata, laboriosa, professionale, altruista, tenace, cattiva, detestata squadra del campionato».
Michael Jordan in Bulls-Knicks, gara 1
Il resto della stagione è un capolavoro personale di Riley. La squadra, che l’anno prima ha chiuso la stagione con 39 vittorie e 43 sconfitte ed è stata spazzata via dai Chicago Bulls nel primo turno dei playoff, arriva alla post season con 51 vittorie e 31 sconfitte. In semifinale di conference ci sono ancora i Bulls di Michael Jordan, Scottie Pippen e Phil Jackson. Tutti si aspettano la solita vittoria facile di Chicago. Tecnicamente i Knicks non sono cambiati molto rispetto alla stagione precedente, di sicuro non hanno comprato nessuno in grado di spostare gli equilibri. Eppure sono una squadra completamente diversa. In pochi l’hanno capito, certamente non i Bulls, che in gara 1 restano paralizzati di fronte al carattere e alla cattiveria agonistica degli avversari. Dopo la partita Michael Jordan si presenta davanti ai giornalisti e dice: «I Knicks sono una squadra vera. Se qualcuno pensava che la nostra vittoria fosse scontata, be’... abbiamo capito che questa è una squadra con cui bisogna fare i conti». Il giocatore che esprime meglio lo spirito dei Knicks di Riley è John Starks, uno degli Jordan stoppers. Starks è stato un outsider per buona parte della sua vita. A 26 anni non era ancora sicuro che il basket sarebbe stato il suo futuro. Ha giocato solo per un anno nella squadra di basket del liceo. Poi è entrato e uscito dalle università dell’Oklahoma, una volta per aver rubato lo stereo di un’altro studente, un’altra dopo essere stato sorpreso a fumare marijuana in stanza. È anche stato condannato a cinque giorni di carcere per furto. Nel 1988 ha provato a entrare nell’Nba ma nessuna squadra l’ha chiamato, ha firmato un contratto da free agent con Golden State ma dopo un anno è stato tagliato per contrasti con l’allenatore. Ha ripiegato sui campionati minori della Continental Basketball Association e della World Basketball Association. I Knicks l'hanno preso nel 1990 senza troppo entusiasmo, probabilmente per usarlo come pedina di scambio. In uno dei primi allenamenti, Starks ha provato a schiacciare sulla testa di Patrick Ewing e si è rotto un ginocchio. È stata la sua fortuna, perché i Knicks sono stati costretti a tenerlo in rosa. Poi è arrivato Riley, e la sua carriera è decollata.
Starks è il simbolo di una squadra tecnicamente modesta e abbastanza brutta da vedere. New York segna poco—è la 22esima squadra della lega per punti a partita—, tira con percentuali non eccezionali e nelle classifiche dei migliori giocatori nelle varie specialità (difesa, punti, rimbalzi, tiri, stoppate), l’unico Knick che compare è Patrick Ewing. Ma dopo i Detroit Pistons sono la squadra che concede meno punti agli avversari e sono terzi nella classifica delle percentuali concesse nei tiri da due. Per mettere in difficoltà i Chicago Bulls puntano tutto sulla difesa e sull’intimidazione psicologica. Giocano durissimo, a volte giocano sporco. Dopo una partita vinta Xavier McDaniel, un’ala piccola irascibile e fisicamente debordante, va davanti ai microfoni e dice: «Pensano che siccome sono i campioni dobbiamo farci da parte e fargli fare quello che vogliono. Questo è un gioco, un gioco da uomini». La serie è bellissima, di quelle fisiche e intense che vent’anni dopo ti ricordano perché il basket anni novanta è il migliore che si sia mai giocato. Il piano di Riley è elementare: in difesa, marcature asfissianti—doppie, triple—su Jordan e intimidazione psicologica su Pippen e Horace Grant, due anelli fondamentali della catena di Chicago; in attacco, giocare in modo semplice cercando di sfruttare la superiorità di Patrick Ewing nei confronti dei lunghi dei Bulls, l'unico duello favorevole a New York. Riley costringe Phil Jackson a portare la serie sul piano fisico.
Vittoria dei Knicks in gara 6
I Knicks demoliscono Chicago in gara 6 e portano la serie alla settima partita. All’intervallo sono sotto solo di cinque punti. Nel terzo quarto Jordan mette insieme un paio di giocate leggendarie, la folla si esalta, i Knicks perdono la testa e i Bulls vincono di 29. L’anno dopo New York fa meglio di Chicago nella stagione regolare ma perde di nuovo contro Jordan e compagni nei playoff. Il 1994 sembra l'anno buono per New York. A gennaio entra in carica come sindaco Rudolph Giuliani, l'uomo forte che rimetterà in piedi la città, e a giugno i Knicks arrivano in finale, anche grazie al fatto che Jordan sta mangiando la polvere nei campi di baseball di periferia. Contro gli Houston Rockets è un’altra serie stupenda. Si arriva a gara 7, il 22 giugno del 1994. Si decide tutto nei minuti finali. Patrick Ewing perde il duello con Hakeem Olajuwon, il leader dei Rockets. John Starks, l’utilitaria che Riley ha pazientemente trasformato in un’auto da corsa, si schianta all’ultima curva—2 su 18 dal campo. New York, che è stata in vantaggio per 3 a 2 nella serie, perde l’occasione della vita. Riley va vicinissimo a compiere il miracolo che avrebbe cancellato in un colpo solo le discussioni su chi fosse il miglior allenatore in circolazione. Invece diventa il primo—e unico, ancora oggi—a perdere due finali in gara 7 con due squadre diverse. La finale contro Houston è stata l’apice di una parabola che da quel momento scende inesorabilmente fino agli ultimi secondi di gara 1 delle semifinali di conference contro Indiana, nella stagione 1994-1995, quando Reggie Miller riesce a segnare 8 punti in 9 secondi contro una difesa che sembra tutto meno che la difesa di una squadra di Pat Riley. Forse proprio in quel momento capisce che New York non ha più niente da dargli. Più o meno in quel periodo Riley pubblica The Winner Within, il tipo di libro in cui un uomo di successo spiega ai lettori come vincere nella vita, in qualsiasi ambito. Una sorta di discorso motivazionale di 300 pagine infarcito di aneddoti che celebrano l’orgoglio, la speranza e la forza di volontà. Il penultimo capitolo si intitola Moving On. È proprio quello che Riley fa dopo la sconfitta con Indiana, volta pagina. Non lo fa come un allenatore qualsiasi, ovviamente. Lo fa come un uomo che ormai è così consapevole di essere una star da sentirsi onnipotente. E da salvatore della patria si trasforma in nemico giurato di un’intera città.
La maledizione di Reggie Miller
Il passaggio di Riley dai New York Knicks ai Miami Heat è all’origine di due leggi fondamentali non scritte del codice Nba. La prima: una partita tra Kninks e Heat non è mai una partita normale. La seconda: mai fidarsi di Pat Riley. Il 5 giugno del 1995 Riley manda una lettera a Micky Arison, il proprietario degli Heat. La nota comincia con una frase che sembra tratta dalla conversazione tra un agente dell’Fbi e un boss della mafia che negozia il suo pentimento: «Tutte le discussioni devono restare confidenziali. Pubblicamente negheremo qualsiasi discussione e qualsiasi rivelazione ucciderà l’accordo». Segue una lista con le 14 richieste di Riley per diventare l’allenatore di Miami, tra cui: un contratto di 5 anni a 3 milioni di dollari l’anno, carte di credito collegate a un conto della società, 300 dollari al giorno per spese varie, servizio limousine il giorno della partita e il 20 per cento delle quote della società, il 10 per cento subito e l’altra metà più avanti. Circa due mesi dopo la lega lo scopre, ed è un problema, perché Arison ha ricevuto la lettera quattro giorni prima che Riley parlasse del suo futuro con Dave Checketts, il presidente dei Knicks, e dieci giorni prima che Riley rassegnasse le sue dimissioni. New York accusa Miami di aver violato le regole e Riley rischia una squalifica di un anno. La questione viene risolta con un accordo in cui Miami si impegna a risarcire New York con 4 milioni di dollari e una scelta al primo giro del draft. A forza di dire che l’aspetto autoritario, i vestiti firmati e i capelli pettinati all’indietro lo fanno somigliare a Gordon Gekko, il protagonista di Wall Street di Oliver Stone, sembra che Riley sia veramente diventato quel tipo di uomo avido e arrivista. A chi lo accusa di essere scorretto e affamato di denaro, lui risponde che i soldi non c’entrano. Ed è vero. Riley non vuole più soldi (lo stipendio che chiede agli Heat è lo stesso che gli offrivano i Knicks). Vuole il controllo assoluto. Essere il monarca della squadra non gli basta più. Vuole essere il padrone della società. Arison, che ha appena comprato la squadra e ha grandi progetti, è l'unico che può accontentarlo. A fine giugno fa salire centinaia di giornalisti su una nave da crociera e presenta Riley come nuovo head coach e presidente della squadra. Quando prende la parola, Riley dice: «Ho in mente le immagini delle parate per festeggiare le vittorie. Questo è l'unico motivo per cui alleno».
Pat Riley ha allenato i Miami Heat in due riprese (1995-2003 e 2005-2008), complessivamente per undici stagioni. A differenza di quello che era successo a New York, dove era stato costretto ad adattarsi allo status quo, i poteri speciali concessi da Arison gli hanno permesso di costruirsi la squadra che voleva. Fin dalla prima stagione ha dimostrato la capacità di sviluppare un progetto per il lungo periodo e di saper scegliere i giocatori giusti per metterlo in pratica. Dopo una prima stagione di assestamento, la squadra è diventata più forte anno dopo anno. Come a New York, in Florida Riley ha costruito un edificio solido basato su una difesa tostissima, ma con più armi offensive e con giocatori che permettevano un gioco più veloce e spettacolare. La squadra della stagione 1996-1997 è probabilmente la più forte che Riley abbia allenato a Miami: Tim Hardaway e Voshon Lenard formano una delle coppie di guardie più forti della lega, Alonzo Mourning è uno dei tre migliori centri della lega, P.J. Brown è un colosso affidabile e Dan Majerle è uno dei migliori tiratori piedi a terra in circolazione. A febbraio del 1997 si aggiunge anche il talento di Jamal Mashburn. Gli Heat chiudono la stagione con 61 vittorie e 21 sconfitte, e Riley diventa l'unico allenatore della storia a vincere il titolo di allenatore dell'anno con tre squadre diverse. Ma Miami non vince. Non arriva neanche in finale. Né quell'anno né nelle stagioni seguenti. Un po' perché Michael Jordan è tornato e i Bulls, che nel frattempo hanno preso Dennis Rodman, sono ancora troppo forti per Riley. E poi perché Miami viene eliminata per tre volte di fila (1998, 1999 e 2000) dai Knicks, una squadra con il dente avvelenato allenata da Jeff Van Gundy, assistente di Riley ai tempi di New York. Miami vince il titolo nel 2006, quando Riley scende dal trono presidenziale, strappa la panchina all'altro fratello Van Gundy e porta al successo una squadra formata da campioni a fine carriera—Mourning, Shaquille O'Neal, Gary Payton, Antoine Walker—e da un campione emergente—Dwyane Wade.
L'ultima partita di LeBron a Cleveland
I momenti migliori di Riley a Miami sono quelli da dirigente. Viene subito in mente la sua trasferta a Cleveland, nell'estate del 2010, per convincere LeBron James a giocare per gli Heat. Durante l’incontro ha preso una borsa che conteneva 21 anelli—per ogni campionato vinto una copia in oro, una in argento e una in platino, da indossare a seconda dell'abbigliamento—e l'ha buttata sul tavolo, poi ha guardato il giocatore più corteggiato del mondo e gli ha detto: «Hey, provane uno». La mossa successiva, convincere James, Wade e Chris Bosh a rinunciare a un pezzo della gloria in campo e a una parte dei potenziali guadagni, è stato un capolavoro che solo un uomo quella statura poteva realizzare. Ma la storia di come è stata costruita la squadra che da due anni domina la lega è fatta anche di scelte meno evidenti ma comunque decisive. Riley ha dimostrato un'abilità unica nello scegliere il giocatore giusto al momento giusto. Come quando era in panchina, da presidente riesce a vedere cosa c'è nei giocatori—soprattutto in quelli apparentemente a fine corsa—e riesce a capire come fare per tirarlo fuori. Tre esempi. Il primo è quello di Shane Battier, arrivato agli Heat a 33 anni dopo una carriera al di sotto delle aspettative e due stagioni non entusiasmanti a Houston e a Memphis. Tra lo scetticismo generale, nel 2011 Riley gli ha fatto firmare un contratto di 3 anni. Battier, che è in grado di difendere su giocatori più grossi di lui ed è un ottimo tiratore piazzato, ha permesso a Erik Spoelstra, l'allenatore di Miami, di giocare con il quintetto piccolo e veloce che è stata la chiave di molte vittorie. Il secondo è Ray Allen, arrivato a Miami a 37 anni, dopo aver già vinto un titolo Nba e con il titolo ad honorem di miglior tiratore della storia del basket. Nell'estate del 2012 Riley gli ha offerto un contratto da 6 milioni di dollari, circa la metà di quello che gli offrivano i Celtics per restare a Boston. Lui ha accettato perché i soldi non gli interessavano più di tanto: voleva sentirsi di nuovo amato e rispettato. Meno di un anno dopo ha ricambiato segnando il tiro leggendario che ha salvato Miami in gara 6 delle finali. Il terzo è Greg Oden. Prima scelta assoluta nel draft del 2007, Oden è probabilmente l'atleta più tartassato dagli infortuni della storia recente dello sport. Ha giocato 82 partite in sei anni. Quando Riley gli ha offerto un contratto, nell'estate del 2013, non metteva piede sul parquet da tre anni. Il 15 gennaio del 2014 è tornato in campo per otto minuti. La decisione di portarlo a Miami potrebbe essere stato un azzardo troppo grande anche per Riley. Ma se c'è una minima possibilità che Oden torni a essere un giocatore vero, il regno di Pat è l'unico posto dove può riuscirci.
Ray Allen vuole sentirsi di nuovo amato
Nell'estate del 2011, dopo che Miami ha perso malamente in finale contro i Dallas Mavericks, molti hanno criticato Riley per aver costruito una squadra incompleta e senz'anima, e per averla affidata a un incompetente. Si diceva che fosse infuriato. Qualcuno era sicuro che avrebbe licenziato il suo ex pupillo e sarebbe tornato in panchina, come nel 2006. Molti erano convinti che fosse la scelta giusta. Dicevano: solo Riley può trasformare quell'ammasso di campioni in una squadra vera. Di sicuro lui c'ha pensato. Però stavolta non l'ha fatto. Ha dato fiducia a Spoelstra ed è rimasto dietro le quinte. L'anno dopo è arrivato il titolo, e poi un altro. Il ragazzo ambizioso di Schenectady, la stella di Kentucky, l'uomo frustrato di San Diego, il monarca di Los Angeles, il salvatore di New York, il padrone di Miami, ha messo da parte le ossessioni e ha capito di essere finalmente arrivato dove voleva. E a 68 anni si gode serenamente i successi di una vita straordinaria.