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Dario Vismara

I Sixers non potevano trovare nulla di meglio di Paul George

Non la firma ideale, ma il meglio che si potesse fare in questo mercato.

Le scrivanie che ESPN utilizza per le proprie dirette televisive sono molto grandi, o almeno grandi abbastanza per farci stare i fisici di giocatori di pallacanestro del passato e del presente. Eppure a osservare lo show pre-partita di gara-4 delle ultime NBA Finals c’era qualcosa che non tornava: Kendrick Perkins e la sua tripla cifra di chili era un po’ troppo fuori dalla scrivania, una mancata simmetria che nessun professionista della televisione avrebbe permesso di mandare in onda.

 

Qualcosa di inatteso in effetti c’era stato. Lo show prevedeva la presenza solamente di Paul George come opinionista d’eccezione al tavolo del commento, un ulteriore passaggio di una carriera post-campo che lo vede già ben posizionato nell’universo del content con il suo “Podcast P” che si sta facendo apprezzare per la qualità delle sue conversazioni. Quella che non era prevista era anche la presenza di Joel Embiid, stretto in mezzo tra George e Perkins come uno troppo grosso che si siede sui sedili posteriori di un’automobile. Ma cosa ci faceva lì l’MVP del 2023?

 

La leggenda narra che Tim Bontemps, il giornalista che segue le squadre della East Coast per ESPN, abbia incrociato casualmente Embiid e il proprietario dei Philadelphia 76ers Josh Harris in un corridoio dell’American Airlines Center. Dopo un paio di convenevoli, Bontemps ha segnalato a Embiid la presenza di Paul George nello studio di ESPN e immediatamente Embiid — che qualche giorno prima aveva già fatto furore come ospite dell’imperdibile CBS Golazo per la finale di Champions League con Micah Richards, Jamie Carragher e Thierry Henry — ha voluto aggiungere un’altra esperienza televisiva al suo curriculum, presentandosi a sorpresa pronto per essere microfonato e andare in onda al fianco di PG13.

 

Una volta andato in onda, Embiid ha effettivamente rubato le luci della ribalta, facendo capire al mondo intero qual era il suo piano.

 

Dopo aver ribadito quanto non sopporti i Boston Celtics, Embiid ha aggiunto: «Speriamo in questa off-season di trovare un modo per migliorare e aggiungere qualche giocatore», lanciando un’occhiata evidentissima in direzione di George al suo fianco.

 

Lì per lì era sembrato un tentativo veramente goffo di tampering, ma facendo fast-forward di due settimane, ha avuto il suo effetto. Paul George infatti nelle prime ore della free agency ha deciso di unirsi a Embiid, accettando il contratto al massimo salariale da 212 milioni di dollari in quattro anni messo sul tavolo dai Philadelphia 76ers per portarlo via dagli L.A. Clippers. Si tratta senza dubbio del cambio di maglia più pesante di questa free agency, sia per l’entità del contratto (a 38 anni di età George guadagnerà oltre 56 milioni di dollari) sia per l’importanza del giocatore e le ripercussioni che può avere questa firma. Perché magari i Philadelphia 76ers non saranno allo stesso livello dei Boston Celtics campioni in carica, ma di sicuro — come peraltro i New York Knicks — ci stanno provando.

 

Cosa può dare Paul George ai 76ers

Come in uno di quei film in cui il piano del cattivo si scopre solamente alla fine, anche le macchinazioni orchestrate da Daryl Morey da quando è arrivato a Philadelphia hanno infine raggiunto il compimento con la firma di Paul George. In questi tre anni Morey ha tenuto duro anche quando tutto il resto del mondo gli diceva che stava sbagliando a farlo, prima trasformando Ben Simmons in James Harden, poi trasformando James Harden in contratti che — uniti alla scadenza del pantagruelico accordo di Tobias Harris — gli hanno permesso di presentarsi all’estate del 2024 con il monte salari pressoché vuoto.

 

Per una volta facciamo il percorso inverso, partendo prima dagli aspetti negativi della firma di George. È ragionevole infatti avere dei dubbi: PG13 ha appena compiuto 34 anni, è sempre alle prese con diversi acciacchi di varia entità, non ha esattamente la più scintillante delle esperienze ai playoff alle sue spalle e da qualche tempo ormai non è più nemmeno quel tipo di giocatore in grado di spostare nelle due metà campo. In un mondo ideale, non sarebbe il giocatore migliore possibile da mettere di fianco a Joel Embiid in termini di tenuta fisica e passato ai playoff, e non ha nemmeno una carta d’identità tale da sposarsi al meglio con quella di Tyrese Maxey. Quel contratto, inevitabilmente, sarà brutto nel giro di poco tempo, per quanto le doti di tiro di George dovrebbero permettergli di “invecchiare bene” o almeno meglio di tanti suoi coetanei.

 

Ma il mercato della NBA, specialmente quello della free agency, non è un mondo ideale: è il mondo di chi prova a fare il meglio possibile con quello che si ha a disposizione in termini di giocatori, asset e spazio salariale. E in questo Daryl Morey è un maestro: quella del 2024 era l’unica estate in cui poteva avere un cap così vuoto e lo ha massimizzato prendendo il miglior free agent disponibile, senza dover cedere asset per poter firmare un 9 volte All-Star e 6 volte All-NBA, peraltro convincendolo a lasciare Los Angeles per spostarsi a Philadelphia. 

Se si parla di giocatori “esteticamente appaganti”, ce ne sono pochi come Paul George quando è in serata.

 

Almeno sulla carta, il fit tecnico per la prossima stagione è lineare: George agirà sul perimetro mentre Maxey e Embiid continueranno a gestire il centro del campo con i loro giochi a due, facendosi trovare pronto sugli scarichi ma allo stesso tempo avendo abbastanza talento per potersi prendere soluzioni estemporanee in prima persona quando uno degli altri due non è in campo, anche togliendo un po’ di peso creativo e realizzativo dalle spalle di Maxey — una delle cose che è mancata maggiormente ai Sixers lo scorso anno, con Tobias Harris disperso in una coltre di mestizia e inesistente fiducia nei suoi mezzi. Diciamo che l’asticella è posta piuttosto in basso in quanto a predecessore da sostituire, e l’upgrade di talento rimane notevolissimo anche a 34 anni.

 

Difensivamente poi George non è più il portento in grado di marcare con successo qualsiasi avversario gli si parasse davanti, ma con le sue dimensioni e la sua apertura di braccia è ancora un playmaker difensivo in grado di produrre recuperi e deviazioni, la linfa vitale di cui si nutre il sistema di coach Nick Nurse. Più difensore di squadra e meno difensore sulla palla, per intenderci, con le responsabilità sul punto di attacco che verranno demandate con ogni probabilità a Kelly Oubre, non a caso uno dei pochi giocatori confermati dai Sixers con un biennale da 16.3 milioni di dollari complessivi.

 

Come ogni squadra costruita attorno a tre giocatori con contratto al massimo salariale — a proposito: Maxey ha rinnovato a 205 milioni in cinque anni, e la firma di George non sarebbe stata possibile se lui non avesse avuto la maturità di rimandare di un anno il suo “giorno di paga”, rinunciando ad estendere subito per dare il massimo spazio salariale possibile alla squadra — per i Sixers sarà fondamentale azzeccare i giocatori da mettere attorno ai Big Three. Oltre al già citato Oubre, Morey ha impiegato poco tempo per riprendere un suo pretoriano come Eric Gordon (apparso però decisamente al limite della presentabilità lo scorso anno a Phoenix) e un cavallo di ritorno come Andre Drummond (già visto nel 2021-22 prima di inserirlo nello scambio Simmons-Harden). Al Draft sono stati presi due come Jared McCain alla 16 (guardia tiratrice mortifera dal perimetro e difensore volenteroso, oltre che personalità debordante in senso positivo) e Adem Bona alla 41 (una palla di energia e versatilità difensiva, seppur sottodimensionato) che potrebbero avere spazio anche subito, visto quanto è scarna la rotazione finora, in attesa di capire cosa ne sarà di Paul Reed, ultimo asset di un certo rilievo rimasto nelle mani di Morey per muoversi sul mercato tagliando il suo contratto non garantito o cedendolo in uno scambio.

 

Una cosa è certa: i Sixers si affacciano alla prossima stagione con prospettive migliori rispetto a quelle con cui hanno terminato quella passata. Dopo l’addio di Harden era chiaro a tutti che la stagione 2023/24 sarebbe stata di transizione in attesa della free agency, ma l’arrivo di Paul George ripaga di quella attesa nella quale comunque Nurse ha potuto prendere le misure a giocatori di riferimento e ambiente. Poi, inevitabilmente, si torna al punto cruciale di tutta la questione: sarà la salute che riuscirà ad avere Embiid in primavera a determinare successo o fallimento dei Sixers, ma questo sarebbe stato vero con o senza Paul George. E tra le due opzioni, averlo dalla propria parte è certamente preferibile.

 

Qual è il piano degli L.A. Clippers ora?

Come in ogni firma che si rispetti, non è interessante analizzare solamente la nuova destinazione di un giocatore ma anche quella che ha deciso di lasciare, specie se si tratta di una wannabe contender come i Clippers. Al momento della notizia è diventato inevitabile ricordare quanto abbiano ceduto in termini di asset a L.A. per prendere Paul George — se Shai Gilgeous-Alexander e Jalen Williams sono ora alla guida degli Oklahoma City Thunder è anche per via dello scambio che ha portato PG13 ai Clippers —, ma bisogna anche sottolineare come i Clippers cinque anni fa non avessero davvero scelta, perché senza George non sarebbero nemmeno riusciti a prendere Kawhi Leonard, che era reduce dall’MVP delle Finals appena vinto con i Toronto Raptors ed era con ogni probabilità il miglior giocatore del mondo, mentre George aveva chiuso al terzo posto nella classifica per l’MVP della regular season.

 

Quando hai la possibilità di firmare due giocatori del genere nell’assoluto prime della loro carriera lo fai e basta, specie se vivi in un mercato mediatico come quello di Los Angeles all’ombra dei Lakers (a proposito: Leonard rischiava di finire in gialloviola, e quello sì che avrebbe condannato i Clippers all’oblio). Con il senno di poi sono tutti i migliori analisti della storia, e anche se Gilgeous-Alexander aveva fatto intravedere qualche lampo di grandezza già da rookie, nessuno si sarebbe potuto immaginare che sarebbe diventato un candidato MVP di questo calibro alla prima squadra competitiva avuta a disposizione.

 

Nessuno, soprattutto, avrebbe potuto immaginare che in cinque anni i Clippers di Leonard e George avrebbero vinto solamente tre serie di playoff, di cui nessuna dopo il 2021 in cui — senza Kawhi — sono riusciti a raggiungere le prime finali di conference nella storia della franchigia. È un bottino troppo magro per il tipo di coppia che promettevano di essere insieme e per i soldi che sono stati spesi dalla proprietà di Steve Ballmer per mettere assieme roster sempre competitivi ma mai davvero coesi nelle mani prima di Doc Rivers e poi di Tyronn Lue.

 

Ma se il passato non è certamente esaltante, il futuro prossimo di L.A. rischia di essere molto peggio. Non si riesce esattamente a capire il motivo per cui i Clippers si siano impuntati così tanto sul non offrire un quarto anno al massimo salariale a George, spingendosi al massimo a tre anni e facendo saltare così le trattative e perdendo un giocatore cruciale (peraltro: se lo avessero messo sul mercato fra sei mesi o un anno, quanti asset sarebbero riusciti a recuperare in un mercato in cui Mikal Bridges vale cinque prime scelte al Draft?). Certo, il fatto che Leonard avesse esteso il suo accordo a cifre inferiori al massimo salariale e per sole tre stagioni rappresentava un precedente difficile da ignorare, ma in questa contrattazione il leverage era tutto nelle mani di George, consapevole che sull’altra costa c’erano i Sixers pronti a dargli tutto quello che chiedeva, oltre probabilmente a un contesto tecnico più competitivo rispetto ai Clippers — non fosse altro che per la minor competitività della Eastern Conference a confronto del bagno di sangue che sarà la Western il prossimo anno.

 

Con una mossa comunicativa di cui non si hanno troppi ricordi (se non l’infausta lettera del proprietario dei Cleveland Cavaliers, Dan Gilbert, nel 2010 in Comic Sans sputando bile contro LeBron James dopo The Decision), prima ancora che venisse annunciato l’accordo tra George e i Sixers dai vari insider, i Clippers hanno pubblicato un comunicato stampa nel quale hanno spiegato il mancato accordo con George.

 

In ben tre momenti diversi viene citato il CBA, ovverosia il contratto collettivo, come a dire: se avessimo rinnovato Paul George, ci saremmo infilati in un vicolo cieco dal quale non saremmo riusciti a risalire.

 

L’intero comunicato è sembrato un tentativo di trovare una giustificazione a quanto accaduto, usando la scusa del CBA e dell’ormai famigerato “second apron” per non essere riusciti a trattenere George, specie alla vigilia del delicato passaggio della franchigia nella nuova e costosissima arena di Inglewood che verrà inaugurata il prossimo autunno.

 

I Clippers la inaugureranno con una squadra avanti con l’età, incapace di vincere in passato e non talentuosa come le avversarie in una conference che non aspetta nessuno, oltre che ancor più dipendente dalle condizioni fisiche di Kawhi Leonard. Da qualunque parte la si guardi, è difficile trovare un modo per definire la giornata di ieri come positiva per i Clippers, che a cinque anni di distanza dalla trade che sembrava averli portati in paradiso si ritrovano di nuovo impantanati nella mediocrità.

 

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Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).