Lunedì 25 settembre 2017. Milano ha appena vinto la seconda Supercoppa Italiana della sua storia, con Simone Pianigiani che ha coronato nel migliore dei modi il suo rientro nella pallacanestro del nostro paese.
La mattina successiva alla finale di Forlì è dedicata alla presentazione del campionato di Serie A. Per una coincidenza fortuita la nostra lega di prima fascia si presenta in contemporanea a quello che è, da una decina d’anni ormai, il principale campionato nazionale europeo: la Liga ACB. Sul palco spagnolo si susseguono, a interagire con i due presentatori, i rappresentanti di tutte le squadre, con continui omaggi a leggende come Juan Carlos Navarro o Felipe Reyes.
La presentazione della ACB 2017/18
In contemporanea, in Italia, la cerimonia è presieduta dal presidente di una squadra di A2, che tra una battuta poco riuscita e l’altra invita sul palco presidenti, dirigenti, politici, sponsor e allenatori (ma solo dopo un’ora abbondante di evento). I pochi giocatori presenti sono relegati al semplice ruolo di modelli per i fotografi. E, come i modelli delle sfilate, non gli è concesso di parlare, in quanto “non c’è tempo”.
Tutto molto emblematico dello stato di salute della pallacanestro italiana del 2017: un microcosmo dove l’attenzione è posta principalmente sull’aspetto burocratico e le voci più “rumorose” sono quelle di persone che poi, ogni domenica, al massimo si siedono nei parterre di tutta Italia. Molti sono a conoscenza delle proposte di riforma dei tesseramenti, in pochi magari sanno citare due giocatori di ognuna delle 16 squadre del massimo campionato italiano.
Poco più di un anno fa abbiamo raccontato del Millennium Bug che ha infettato il basket italiano dal 2000 ad oggi: nelle ultime stagioni l’incessante sequenza di fallimenti e ripescaggi sembra aver rallentato la sua marcia (ma non si è certo interrotta), e l’inappellabile mediocrità della pallacanestro nostrana è proseguita senza sosta nel confronto con l’Europa (nonostante alcune poche fiammelle positive), ma si è manifestata anche nella gestione dello stesso sistema - gestione di cui la mattinata del 25 settembre è, come già detto, il manifesto migliore.
All’inizio di una stagione nella quale il basket italiano ritrova l’Eurocup e otto squadre su 16 di Serie A disputeranno le coppe europee, può essere utile fare il punto della situazione per capire dove siamo, come ci siamo arrivati e, soprattutto, come la pallacanestro nostrana può ragionevolmente sperare di tornare ad avvicinare i fasti degli anni ‘90 e dei primi anni 2000.
Quando dominavamo l’Europa
Fa decisamente impressione, alla luce della situazione attuale della pallacanestro nostrana in Europa, pensare a un periodo nel quale ogni anno il movimento cestistico italiano era in grado di esprimere almeno una formazione capace di arrivare tra le prime quattro squadre continentali.
Tra il 1969 e il 1988 in tutte le stagioni (tranne una, il 1984-85) l’Italia è stata in grado di portare almeno una sua squadra tra le prime quattro classificate dell’odierna Eurolega. Se la squadra principe degli anni ‘70 fu senza dubbio Varese, capace di centrare per 10 stagioni consecutive (un record europeo) la finale della massima competizione continentale per club, gli anni ‘80 furono ad appannaggio soprattutto di Cantù e Milano, capaci entrambe di centrare un prestigiosissimo back-to-back. Per dare l’idea dell’impresa: nell’era ULEB soltanto Maccabi Tel Aviv nel 2004-2005 e Olympiakos nel 2012-2013 sono state in grado di conquistare due Euroleghe consecutive.
Gli anni ‘90 videro il dominio italiano estendersi anche alle competizioni europee “secondarie”. Considerando anche la Saporta, la Coppa Korac e la Coppa delle Coppe, in tutte le stagioni (tranne la lontanissima annata 1968-69) tra il 1963 e il 2004 almeno una squadra italiana è arrivata tra le prime quattro di una competizione europea. In particolare, in tutte le stagioni degli anni ‘90 almeno un’italiana all’anno ha giocato una finale continentale, per un totale di quattro vittorie in Coppa Korac, tre in Saporta e l’Eurolega vinta nel 1998 dalla Virtus Bologna di Ettore Messina.
La prima Virtus campione d’Europa
Egemonia a livello continentale che si è vista anche nella prima metà dello scorso decennio, con l’Olimpiade di Atene che è stata un’involontaria cartina di tornasole anche per i destini delle squadre italiane in Europa: prima, sempre ai massimi livelli (almeno una finale ogni anno, con le due Saporta vinte dalla Virtus nel 2000 e da Siena nel 2002, oltre all’Eurolega del Triplete delle stesse Vu Nere nel 2001) e poi un lento declino fino ai giorni nostri (nel resto del decennio, solo la Final Four 2008 di Siena in Eurolega e l’Eurochallenge 2009 vinta dalla Virtus Bologna).
Generazioni d’oro, quelle degli anni ‘90 e dei primi anni 2000, che il basket italiano ricorda anche per il contributo massiccio alla prima ondata di giocatori internazionali che iniziò a popolare l’NBA a partire dalla metà degli anni ‘90. Squadre come Treviso e le due bolognesi sono state tra le più importanti contributor internazionali della NBA, in gran parte grazie a quei giocatori che hanno fatto la traversata oceanica dopo essersi messi alla prova nel nostro campionato.
La nostra capacità di individuare e sviluppare campioni stranieri, però, si accompagnava a quella di formare gruppi di giocatori italiani che giocavano per merito e per effettive capacità, piuttosto che grazie a regole protezionistiche, soluzione oggi ventilata come panacea di tutti i mali. La generazione dei Galanda, Basile e Pozzecco diventò grande grazie alle grandi sfide europee e alla possibilità di giocare contro le migliori squadre del continente, il tutto inserito in un sistema che prestava contemporaneamente attenzione anche a ciò che succedeva al di fuori delle big del nostro campionato, ma non per una questione di necessità virtù come sembra essere oggi.
Ma come siamo arrivati a questo punto? Ed è davvero Atene 2004 la cartina tornasole?
ItalExit
Analizzando quella specie di Millennium Bug che ha colpito il basket italiano nel nuovo millennio, avevamo visto come il picco dei fallimenti e delle alterazioni al “merito sportivo” si è avuto nella seconda metà dello scorso decennio.
La fenomenale estate greca fu, senza alcun dubbio, il picco di una generazione operaia, mediaticamente lodata anche perché priva di rappresentanti NBA, in un periodo dove la globalizzazione della lega americana era in fase di crescita e tutte le principali nazionali, europee o non, potevano annoverare almeno un “rappresentante NBA”. In generale vi era l’impressione che per avere un giocatore italiano nella principale lega sportiva al mondo non bisognasse aspettare poi così tanto tempo.
L’arrivo, nel corso di tre stagioni consecutive, negli Stati Uniti di Andrea Bargnani, Marco Belinelli e Danilo Gallinari e la conseguente maggiore attenzione mediatica, a livello nazionale, sulla nostra pallacanestro, non si è però convertita in almeno un mantenimento di quei meravigliosi risultati raccolti fino ai primi anni 2000.
La stagione che culminò con la medaglia di Atene è anche l’ultima stagione, ad oggi, ad aver visto una squadra italiana in campo in una finale di Eurolega: dopo il netto -44 della Fortitudo Bologna sul campo del Maccabi Tel Aviv, il tricolore è tornato ad apparire in una Final Four due volte, entrambe per mano della Montepaschi Siena (2008 e 2011), con i toscani che però non riuscirono in entrambe le occasioni ad approdare all’atto finale.
6 anni and counting...
Proprio Siena, in quegli anni, fu additata come capro espiatorio dell’andamento decadente delle italiane in Europa: il messaggio che passava era quello di un movimento italiano che faticava a livello continentale perché in campo nazionale c’era una squadra a fare razzia di titoli.
Mentre la Nazionale arrancava, mancando addirittura la qualificazione all’Europeo 2009 (un avvenimento successo solo due volte in precedenza: nel 1949 e nel 1961) e staccando il biglietto per l’Europeo 2011 in Lituania solo grazie a un ripescaggio, le squadre di club si assestavano, tra il 2004 e il 2013, in media, su un normale 52% di vittorie nelle coppe Europee - lontano sì dai fasti degli anni ‘90 o in generale degli anni pre-Atene (mai sotto tale cifra), ma indubbiamente superiore a quello che è stato il risultato delle ultime cinque stagioni (contando anche l’attuale), dove solo in un'occasione, nel 2013-14, le squadre italiane in Europa hanno avuto un record superiore al 50%.
Il 2013-14 è una stagione indicativa, poiché si tratta della prima dalla fondazione dell’Eurolega nel 2000-01 in cui l’Italia è stata rappresentata nella massima competizione continentale da soltanto due squadre, quelle che poi furono le finaliste in campionato di quella stagione (Milano e Siena; Varese fu eliminata nel Qualifying Round).
Negli anni in cui il panorama nazionale era dominato da Siena, però, le squadre italiane faticavano molto in Eurolega (solo Treviso nel 2006-07 e Cantù nel 2011-12 chiusero la stagione europea con almeno il 50% di vittorie), dovendo spesso ripiegare sulle competizioni minori: l’Eurocup, nella quale sempre Treviso fu protagonista nel 2009 (Final Eight) e nel 2011 (Final Four), e l’EuroChallenge organizzata dalla FIBA - oggi idealmente sostituita dalla Champions League - e vinta dalla Virtus Bologna nel 2009 e da Reggio Emilia nel già citato 2013-14.
Quello di Reggio è l’ultimo titolo in Europa di una squadra italiana: per quanto lo sarà ancora?
Se nelle nove stagioni successive alla medaglia di Atene si era avuta un’avvisaglia di un lento declino, è nelle ultime quattro annate che il calo si è fatto più fragoroso. Eccezioni come la vittoria di Reggio, le semifinali di Trento in Eurocup (2015-16) o Venezia nella scorsa Champions League, o la finale di Varese in Europe Cup sono solo aghi in un pagliaio composto da squadre di un campionato che ha continuamente perso di importanza e prestigio in Europa e che adesso stenta a conquistare spazio in un panorama continentale che tende a dare più risalto al merito anche extra-sportivo e, al massimo livello, a non garantire il posto perché ti chiami Italia.
Ce lo chiede l’Europa
Che l’Olimpia Milano sia l’unica rappresentante italiana nella nuova Eurolega è semplicemente una naturale conseguenza dell’attuale livello della nostra pallacanestro.
I requisiti richiesti dagli uffici con sede a Barcellona, infatti, vanno al di là di un estemporaneo risultato in campionato e puntano più a garantire il posto all’interno della propria lega a quelle società in grado di garantire il raggiungimento di determinati livelli economici, di capienza per le partite e, in modo non prioritario ma comunque rilevante, di merito sportivo.
Le 11 squadre che hanno firmato il contratto decennale di partecipazione alla nuova Eurolega nel 2016 sono a rischio di perdere la propria licenza pluriennale nel caso in cui arrivino ultime, nel corso dei 10 anni, per tre volte. L’altro modo di partecipare alla seconda lega cestistica professionistica al mondo, per importanza e valore economico generato, è attraverso una delle cinque licenze annuali, che però vengono distribuite in maniera prestabilita: un posto è garantito alla vincitrice dell’Eurocup, mentre gli altri quattro tendono ad essere distribuiti ai campioni nazionali di Germania e Spagna (qualora non sia una tra Real, Barcellona e Baskonia, tutte in possesso di licenze pluriennali) e alle vincitrici di Lega Adriatica (che comprende squadre dei paesi dell’ex Jugoslavia) e VTB League, comprendente prevalentemente squadre russe (nel caso in cui il titolo sia vinto dal CSKA parteciperebbe all’Eurolega l’altra squadra finalista).
I margini di accesso per ulteriori squadre italiane sembrano essere abbastanza ridotti, sempre stando alla situazione attuale e non prendendo in considerazione ipotesi di allargamento dell’Eurolega: scenari che non passano attraverso la vittoria dell’Eurocup da parte di una rappresentante italica - come detto in precedenza, Trento ci andò molto vicina due stagioni fa - devono prendere in considerazione una possibile wild card da parte della stessa Euroleague Basketball - e in ogni caso l’invito sarebbe assegnabile a una squadra virtuosa in grado di adempiere ai requisiti citati in precedenza.
Quella Trento che arrivò a 120’ dall’Eurolega
L’Eurocup e la Champions League della FIBA devono essere, quindi, l’obiettivo principale della pallacanestro italiana per rilanciare la sua competitività a livello continentale. In queste due competizioni l’Italia avrà sempre dei posti pre-assegnati (cinque delle sette squadre impegnate in questa stagione sono entrate nella competizione direttamente alla fase a gironi, e soltanto Torino partecipa a una delle due per mezzo di una wild card) anche se il numero di queste potrà variare. Dal 2013 al 2016 quattro italiane per stagione hanno partecipato all’Eurocup, ma in nessuna di queste tre stagioni il record è andato oltre il 50% complessivo di vittorie: starà alla nostra pallacanestro saper reggere il confronto e mostrarsi all’altezza delle proprie avversarie continentali, notevolmente migliorate negli ultimi anni.
L’erba del vicino è davvero più verde?
Negli anni ‘90 la leadership europea del nostro campionato era quasi indiscussa, e la competizione avanzata da campionati come Spagna e Grecia si limitava principalmente ai principali top team espressi da quei movimenti. Soprattutto nelle coppe minori come la Korac o la Saporta, le nostre rappresentanti - non appartenenti, tranne poche eccezioni, all’élite rappresentata da squadre come Treviso o le due bolognesi - riuscivano regolarmente a dimostrarsi superiori alle controparti degli altri paesi.
Oggi la realtà è ben diversa, e paesi come Spagna, Turchia e Germania o leghe intra-nazionali come la Lega Adriatica o la VTB League sono in grado di esprimere squadre di livello mediamente superiore al nostro, e riescono con maggiore frequenza di noi a conquistare risultati prestigiosi a livello europeo al di fuori del cerchio ristretto dei rispettivi top team.
Andando però ad osservare la struttura di questi cinque campionati, si notano alcune similitudini con quanto avviene all’estero. Ad esempio, in Spagna (5.000), Germania e VTB League (3.000 per entrambe) è presente il limite della capienza minima di posti a sedere nei singoli palazzetti. La ACB, in Spagna, aggiunge a questo anche un severo limite economico composto da un deposito (pagabile in quattro stagioni) di 1,6 milioni di Euro, restituibile in caso di retrocessione, e l’obbligo di un budget minimo di almeno 2 milioni di Euro.
I due limiti presenti oggi sono l’evoluzione di un sistema che si è dovuto adattare alla crisi economica: in precedenza era previsto anche il pagamento di un deposito a fondo perduto di 3 milioni di euro (poi ridotti a 2), dichiarato illegale nello scorso mese di aprile dalla Comision Nacional de los Mercados y la Competencia, deposito che ha portato all’effettiva promozione in ACB di solo due squadre in cinque stagioni, delle dieci avente diritto (l’odierna Tenerife nel 2013 e Andorra nel 2014), quando nelle prime 29 stagioni di ACB solo due squadre (negli anni ‘80) avevano rinunciato alla promozione nella massima serie poiché impossibilitate a sottostare ai requisiti economici e organizzativi.
Andorra, nel 2014, è diventata una delle due squadre capaci di sostenere economicamente e organizzativamente il diritto sportivo acquisito sul campo: giocare in ACB.
Il sistema spagnolo potrebbe apparire come eccessivamente severo, ma la longevità di queste regole e la loro adattabilità alla situazione hanno creato un campionato la cui competitività è evidenziata anche dal livello raggiunto in Europa dalle sue rappresentanti, e la garanzia che “gioca chi se lo può permettere” elimina quasi del tutto la possibilità di casi come quelli del Millennium Bug del basket italiano.
Un campionato in crescita come quello tedesco è tale grazie ad una gestione organizzativa lungimirante e chiaramente definita: la Basketball Bundesliga GmbH, l’entità che organizza il massimo campionato tedesco, fu fondata nel 1996 ed è gestita al 74% dai singoli club e al 26% dalla DBB, la federazione tedesca. La separazione societaria in quote permette che la divisione sia chiara e la sfera d’influenza sia limitata, e tende ad evitare casi come quello visto due stagioni fa in Italia, con la revoca da parte della FIP della convenzione che permette alla LegaBasket (organismo non considerabile di certo autonomo come quello tedesco o quello spagnolo) di organizzare il campionato di Serie A.
Già nel 2014 la Bundesliga era affascinante a livello d’immagine, immaginarsi ora con la competitività, in Europa, di squadre come Bamberg, Alba Berlino e Bayern Monaco.
Un altro fenomeno che si è visto nell’organizzazione dei campionati europei è quello dell’unione di squadre di paesi vicini nell’organizzare una lega comune. Esempi sono la Lega Adriatica, campionato cui ormai partecipano esclusivamente paesi balcanici dopo una fase iniziale in cui si erano viste apparizioni di squadre di altri paesi, e la VTB League, formata principalmente da squadre russe e andata a sostituire per importanza la Lega Baltica, svuotata d’interesse dopo il recente rafforzamento del campionato lituano.
Questi esempi, però, non possono essere d’ispirazione per un ipotetico rilancio della pallacanestro nostrana: sono leghe che nascono, indirettamente, dall’unione di paesi che fino a non troppo tempo fa erano racchiusi sotto un’unica egida, formate da squadre storicamente “abituate” a giocare un campionato tra di loro. Lega Adriatica e Lega Baltica, inoltre, non si sostituiscono ai campionati nazionali dei paesi dell’ex Jugoslavia o della parte baltica dell’ex Unione Sovietica, ma ne rappresentano un’aggiunta, facendo sì che le squadre che disputano il proprio campionato nazionale e la determinata lega giochino più partite nel corso di una stagione.
È certamente indubbio che per una squadra come la Stella Rossa poter abbinare agli impegni del proprio campionato contro squadre non di prim’ordine le sfide contro blasonate rivali come Olimpia Lubiana o Cibona Zagabria, per fare due esempi, ne migliori le prestazioni attraverso le maggiori possibilità di confronto interregionale, ma è altrettanto palese come il vero miglioramento, per la Stella Rossa, avvenga grazie alla possibilità di disputare le coppe europee e spostare la base del confronto tecnico dall’area regionale all’area continentale.
Dove può andare il basket italiano
Quando la situazione è così compromessa, non esiste una ricetta unica, univoca e universale.
Il basket italiano che era grande ai tempi della prima globalizzazione della pallacanestro non era tale solo per blasone, ma anche per capacità organizzative lungimiranti: le migliori squadre del nostro paese attraevano i migliori talenti continentali, sia in campo che in panchina, e riuscivano a farlo per contratti anche pluriennali e garantiti, che non si basavano sull’improvvisazione o sull’io speriamo che me la cavo.
Sicuramente per potere attirare in Italia il meglio del basket continentale ci devono essere risorse economiche certe, e probabilmente l’adozione di un sistema duro come quello spagnolo porterebbe, sul medio-lungo periodo, benefici tangibili. La situazione del basket italiano, però, legittima a pensare che il replicare pedissequamente sistemi restrittivi possa generare situazioni ben peggiori di quelle del Bug.
La ripartenza della nostra pallacanestro dovrebbe quindi partire da una serie di piccole cose. Fondamentale deve essere l’appeal e la riconoscibilità a livello internazionale: pensare che i posti nelle coppe europee ci siano dovuti perché ci chiamiamo Italia è un peccato di hybris. Nella seconda metà dello scorso decennio, incuranti del calo tecnico del movimento cestistico italiano, non abbiamo accolto ricettivamente le progressive direttive dell’Eurolega, e come risultato di ciò le nostre squadre sono diminuite progressivamente, con la sola Milano oggi a rappresentarci e la speranza di una possibile futura wild card per aumentare il contingente italiano nella seconda lega cestistica al mondo.
Occasioni però ne abbiamo avute negli ultimi anni: la stessa Eurolega ha accolto a braccia aperte il progetto vincente, sul territorio nazionale, di Sassari, che ha disputato però due deludenti stagioni in Eurolega tra il 2014 e il 2016 (una sola vittoria, al primo anno contro lo Zalgiris, e ben 19 sconfitte); Euroleague Basketball aveva coinvolto tre nostre squadre - la stessa Sassari, oltre a Reggio Emilia e Trento - nel progetto, poi modificato, dell’Eurocup con licenze triennali, con le tre poi costrette a rescindere unilateralmente dai contratti sotto pressione della FIP e di CONI e FIBA.
L’allinearsi della Federazione Italiana Pallacanestro alla FIBA nel contenzioso tra la stessa organizzazione con sede in Svizzera e l’Euroleague ha fatto perdere un anno importante di confronto a livello continentale a due delle realtà più virtuose della nostra pallacanestro, Trento e Reggio Emilia (Sassari fu poi ripescata nella debuttante Champions League della FIBA, di cui ha scelto di continuare a far parte anche in questa stagione) - e nelle situazioni in cui versa il movimento nazionale, perdere l’anno è certamente qualcosa di evitabile esattamente come a scuola.
La soluzione adottata nella scorsa primavera da FIP e Legabasket, una sorta di liberi tutti che consente, alle squadre aventi diritto - tendenzialmente le qualificate ai playoff, visti i quattro (di cui uno via preliminari) posti a disposizione in Champions League e i due posti liberati dall’ECA per l’Italia in Eurocup - di scegliere la competizione europea che preferiscono disputare, seguendo l’ordine d’arrivo in classifica.
L’interesse poi manifestato dalla stessa ECA verso due realtà importanti anche per il loro bacino d’utenza come Torino - invitata a disputare l’Eurocup con una wild card, finora onorata al meglio - e la rediviva Virtus Bologna è il segnale di una apertura che viene concessa sulla base di un merito non solo sportivo, secondo la direzione intrapresa, in generale, dall’organizzazione del basket europeo negli ultimi anni.
Il confronto continuo con il resto del continente è fondamentale soprattutto per quella parte spesso paradossalmente trascurata all’interno della nostra pallacanestro, come dimostrato anche nel corso della presentazione di Serie A citata in origine all’articolo.
Storicamente i giocatori italiani non hanno mai popolato in grande quantità le leghe di paesi stranieri, e negli ultimi decenni questa possibilità è resa più difficile dai limiti protezionistici che obbligano il tesseramento a referto di un elevato minimo di giocatori italiani di formazione. Sono tante le correnti di pensiero che sostengono come questi limiti abbiano finito per appagare gli stessi giocatori italiani, che di fronte alla prospettiva del posto garantito si stabilizzano su un livello tecnico stazionario sin dal debutto in prima squadra.
I risultati delle nazionali giovanili mostrano come l’Italia continui ad essere, nonostante tutto, tra le prime nazioni d’Europa in quasi tutte le annate, con una regolarità di risultati che potrebbe indurre all’ottimismo: il fatto che però i tre giocatori italiani maggiormente migliorati, dal punto di vista tecnico e tattico, negli ultimi anni siano Nicolò Melli, Gigi Datome e Daniel Hackett, i tre emigranti alla volta di altre squadre di Eurolega, rinforza le argomentazioni di chi vede nell’eccessivo protezionismo, a livello di tesseramenti, dei giocatori italiani uno dei limiti più grandi al miglioramento del basket italiano.
Forse non torneremo mai più grandi come nei favolosi anni ‘90. Forse anche solo un quarto di finale a livello di Eurolega - come quello del 2014 di Milano - sarà sempre più un’eccezione e non un’abitudine. Ma di certo il movimento del basket italiano è destinato solo a peggiorare se dovesse continuare a crogiolarsi nei ricordi di un glorioso e blasonato passato, circoscrivendo il presente a stantie lotte di potere. Un prodotto che vuole essere appetibile, quando celebra la sua ripartenza, presentando la sua nuova stagione, deve scegliere a chi dare più spazio, fosse anche solo di facciata. L’esempio di NBA, Eurolega e della stessa ACB è lampante e non è un caso se pensa a porre sul piedistallo come importanza, fosse anche solo di facciata, prima di tutto i giocatori: il volto effettivo, scendendo in campo ogni weekend sui parquet di tutta Italia, di uno sport bellissimo deve essere de-burocraticizzato e rilanciato sulla base della valorizzazione del prodotto stesso e di quegli esempi virtuosi che contribuiscono a renderlo ancora appetibile al mondo esterno.