Proviamo a fare un esercizio e a immaginare il calciatore perfetto. Sicuramente sarebbe ambidestro, la sua tecnica precisa, asciutta; sarebbe veloce e reattivo, avrebbe visione, intelligenza. Capirebbe il gioco e il suo respiro. Saprebbe accelerare e dare la pausa. Sarebbe a suo agio in ogni zona del campo, nei dribbling sulla fascia, negli inserimenti in area, nel gioco spalle e fronte alla porta. Sarebbe un atleta eccezionale. Salterebbe più alto delle mani dei portieri, tirerebbe così forte da bucargli le mani. Sarebbe un artista. Con la sua creatività saprebbe inventare giocate e gol, in spazi densi o svuotati di corpi; riceverebbe palloni sporchi per renderli puliti. Il suo carisma lo renderebbe il capitano ideale, quello a cui guardare quando le cose si mettono male e c’è bisogno di qualcuno che ti faccia vincere.
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Negli ultimi tre mesi ho recuperato una dozzina delle partite più importanti di Pelé tra Mondiali, Coppa Libertadores e Intercontinentale. L’ho fatto dopo aver letto per caso un libricino scritto da Johan Cruyff a metà anni ‘90 che raccoglie le sue idee sui giocatori che ha allenato o visto giocare: «Sono anche io uno di quelli che pensa che il migliore nel calcio, il più vicino alla perfezione, sia stato Pelé» scrive in Mis futbolistas y yo «Il migliore perché riuniva tutte le qualità che ci aspettiamo da un calciatore ed era il migliore di tutti in ognuna di esse. Dopo di lui siamo venuti tutti noi altri». Per Cruyff, giustamente, non esiste la perfezione nel calcio, ma se vogliamo immaginare un calciatore che si è avvicinato a essa per caratteristiche e stile di gioco, quello è Pelé.
Il prototipo del calciatore moderno
Quando si parla del suo gioco si rischia di rimanere incastrati nei clichè che si appiccicano ai migliori calciatori brasiliani, all’idea del fútbol bailado, della bellezza un po’ fine a sé stessa. Ma guardando giocare Pelè quello che ho scoperto è l’universalità del suo calcio. Forse poteva nascere solo in Brasile un giocatore così, ma non è solo brasiliano il suo modo di giocare, non è Rivelino, Jairzinho o Gérson, che sono nati per giocare nel Brasile del 1970. Pelé avrebbe potuto giocare ovunque e in ogni tempo e sarebbe stato sempre il migliore in campo.
Il calcio di Pelé è qualcosa contro cui lo zeitgeist si è infranto, è come se lo spirito del calcio si fosse personificato, non solo per dare al Brasile il ruolo di guida, ma anche per mostrarsi in tutta la sua pienezza. Ciclicamente sui social gira un video in cui si vedono le migliori giocate di alcuni dei migliori calciatori di oggi alternate alla stessa giocata fatta da Pelé, ma molti anni prima. Il titolo è più o meno sempre una versione di Pelé did it first ed è vero: se vedete una cosa su un campo da calcio, è molto probabile che Pelé l’avesse fatta prima. È come se, in qualche modo, avesse inventato il linguaggio che oggi parlano tutti.
I calciatori moderni probabilmente non hanno mai visto quelle giocate di Pelé, ci sono arrivati a modo loro, con i loro strumenti, la loro storia personale. Hanno tradotto nei propri calchi le espressioni di Pelè. Che cosa era in grado di fare Pelé? Tutto. Anche se il ricordo si è perso col tempo, se ha giocato quasi tutte le sue partite in Brasile, in un’epoca storica in cui la televisione iniziava appena a immortalare le gesta dei calciatori. Tutti aspetti usati come argomenti per sminuirne la portata storica, ma si fa prima ad arrendersi all’evidenza: c’è un prima e dopo Pelé. Il brasiliano ha rappresentato l’archetipo del calciatore moderno ideale. Un punto d’arrivo precoce, in un’epoca in cui il calcio era ancora agli albori della sua diffusione globale. Tutti quelli arrivati dopo di lui hanno più o meno consapevolmente seguito la strada da lui tracciata.
Se la tecnica, nel calcio, è la trasposizione pratica di un’idea, nessuno ha pareggiato Pelé nella capacità di essere in contatto con il mondo delle idee. Ogni azione che può essere pensata, Pelé l’ha fatta. Questo non vuol dire che sia stato infallibile, che sia riuscito in tutto, perché a nessuno riesce tutto. Però prendete queste due azioni come esempio, come limite dello spettro delle cose che poteva fare Pelé: il quasi gol leggendario all’Uruguay nella semifinale del Mondiale del 1970, quando salta il portiere senza aver toccato il pallone; il tiro da centrocampo contro la Cecoslovacchia che esce appena poco oltre il palo. Con Pelé tutto è sembrato possibile.
Figlio di un calciatore arrivato nella cittadina di Tres Coracoes, nello stato meridionale del Minas Gerais, durante il suo servizio militare, quando è ancora giovanissimo la famiglia si trasferisce a Bauru, nello stato di San Paolo. Il suo soprannome, Pelé, ha una bella storia. Da piccolo assisteva alle partite del padre dietro la porta difesa dal portiere Bilé di cui, però, non riusciva a pronunciare bene il nome con i suoi incitamenti, finendo per gridare Pelé.
La sua ascesa è rapidissima: in un periodo storico in cui le notizie viaggiano ancora a passo d’uomo, già da adolescente è corteggiato dalle grandi squadre brasiliane. Potrebbe andare a giocare ovunque, ma sceglie il Santos, che all’epoca non è tra i grandi club storici del Paese. Pelé ne cambierà la storia ma, prima di farlo, sarà protagonista del Mondiale 1958, dove è convocato non ancora maggiorenne.
Basterebbe quel mese in Svezia per riempire la carriera intera di un calciatore. A 17 anni segna 6 gol in 4 partite, diventa il più giovane di sempre a segnare un gol al Mondiale (a 17 anni e 239 giorni nella vittoria per 1-0 contro il Galles ai quarti), il più giovane a segnare una tripletta (contro la Francia in semifinale) e il più giovane a segnare in una finale (con la doppietta contro la Svezia, di cui abbiamo scritto qui). E, soprattutto, a 17 anni è lui a regalare al Brasile il primo Mondiale della sua storia.
Dopo quel Mondiale cambia la storia di Pelé, ma anche quella del calcio. È lui che porta il Brasile a essere il punto di riferimento, che arriva mentre la Nazione è ancora alle prese coi fantasmi del Maracanazo e se ne va lasciando tre stelle sopra lo stemma, tre Coppe Rimet in bacheca. Banalmente, è per merito suo se quella coppa è rimasta per sempre in Brasile e oggi abbiamo la Coppa del Mondo. Con Pelé il Brasile diventa il Brasile; con Pelè il Santos diventa la migliore squadra al Mondo.
Scrive Michael Delaney nel suo blog sui 100 migliori giocatori della storia: «Dato che oggi i migliori sudamericani devono recarsi in Europa molto prima di maturare come giocatori, la Copa Libertadores non possiede più i migliori talenti del gioco. Ma questo non era certo il caso negli anni '60. Il Santos rappresentava l'apice del calcio di club. E Pelé era al centro del loro regno. Lui, ovviamente, aveva iniziato tutto. Nel 1962, aveva segnato una doppietta nella finale contro i campioni in carica del Peñarol per aggiudicarsi la prima Copa Libertadores del calcio brasiliano».
Il Santos vincerà la seconda l’anno successivo, contro il Boca Juniors. Le due Libertadores hanno permesso a Pelé di giocare partite ufficiali contro le due migliori squadre europee dell’epoca, vincitrici della Coppa dei Campioni: il Benfica di Eusebio e il Milan di Rivera. Contro il Benfica all’andata in Brasile il Santos vince 3-2 (Pelé segna una doppietta), al ritorno in Portogallo vince addirittura per 5-2 (Pelé segna una tripletta). Contro il Milan invece Pelé gioca solo l’andata in Italia. Il Santos perde 4-2, ma lui segna una doppietta. Al ritorno in Brasile, e allo spareggio decisivo, Pelé sarà assente, ma i compagni riusciranno ad alzare il trofeo.
Questi due risultati spiegano bene la versione distorta che abbiamo in Europa della sua carriera, considerata minore perché svolta quasi tutta in patria, ma la realtà è che, all’epoca, il calcio brasiliano era il riferimento anche a livello di club.
Pelé vs Europa
Oggi è normale che i migliori calciatori al mondo arrivino in Europa per affermarsi e il mancato passaggio di Pelé in Europa è spesso usato per sminuirne la carriera. Ma negli anni ‘60 era davvero così? A Pelé è stata negata la possibilità di lasciare il Brasile (si dice avesse un accordo con l’Inter). Nel 1961 viene dichiarato “tesoro nazionale”, come fosse una foresta o un monumento. La sua presenza in Brasile diventa una questione politica, una necessità storica. Se, magari, a Pelé sarebbe piaciuto giocare in Europa, anche per una questione economica, nel contesto in cui si muove è uno dei migliori al mondo: nel campionato brasiliano giocavano tutti i componenti delle tre diverse rose del Brasile che vincerà tre Mondiali in 12 anni (tra gli altri Garrincha, Didi, Djalma Santos, Nilton Santos). Ma soprattutto il calcio brasiliano è il migliore al mondo a livello di Nazionale e club perché c’è Pelé in campo.
Lo si può notare dal confronto con le nazionali europee: nelle partite giocate col Brasile contro avversarie europee in carriera, tra il 1958 e il 1971, Pelé ha perso solo quattro volte su 44. Di queste quattro, tre sono amichevoli e, di queste amichevoli, in due ha giocato meno di mezz’ora (contro Olanda e Italia nel 1963). L’unica partita persa dal Brasile a un Mondiale con lui in campo è arrivata sì contro una squadra europea, il Portogallo di Eusebio nel 1966, ma è una partita in cui Pelé è costretto a uscire in barella dopo appena mezz’ora di gioco per i troppi falli subiti.
Nel 1966 è così temuto che l’unico modo con cui le Nazionali avversarie credono di poterlo fermare è placcandolo, come nel rugby. Se non lo prendi, devi sperare che intervenga l’aiuto del guardalinee come in quest’azione all’esordio contro la Bulgaria, l’unica partita che Pelé giocherà dal primo all’ultimo minuto e in cui in Brasile vince 2-0.
Tornando al massacro portoghese, così ne scrive un inviato inglese del Liverpool Echo: «Quando Pelé fu portato via dopo mezz'ora con un infortunio invalidante al ginocchio, tutte le possibilità del Brasile di alzare la Coppa del Mondo svanirono con lui. Pelé fu messo fuori gioco senza pietà. Nel giro di dieci minuti è stato falciato due volte». Così ne parla lo stesso Pelé nella sua autobiografia: «Ho trovato la violenza e la mancanza di sportività scoraggianti, così come la debolezza dell'arbitraggio che ha permesso che [i falli su di me] continuassero in modo incontrollato per così tanto tempo».
Dopo il Mondiale del 1966 è talmente arrabbiato che ci vogliono due anni per convincerlo a tornare in Nazionale. Dal suo ritorno nel luglio 1968 al suo definitivo ritiro tre anni dopo, nel luglio del 1971, il Brasile non perderà neanche una partita contro una squadra europea. In mezzo c’è il Mondiale del 1970, la sua opera d’arte.
Messico ‘70, l’opera d’arte di Pelé
«Il Mondiale di Messico 1970 è oggi, nel mito e forse nei fatti, l'apogeo del calcio. Nella coscienza popolare è stato un festival del calcio d'attacco e il Brasile che vinse il torneo è considerato un paradigma ineguagliabile, la squadra più forte che il mondo abbia mai conosciuto e che probabilmente conoscerà mai» dice Jonathan Wilson ne La piramide rovesciata.
Il Brasile dei cinque “10”, la squadra che schierandosi con un 4-2-4 fluido riesce a far convivere i migliori giocatori del calcio brasiliano tutti nello stesso fronte offensivo: Jairzinho (Botafogo) a destra, Rivelino (Corinthians) a sinistra, Gérson (São Paulo) in cabina di regia, Tostão (Cruzeiro) in punta e Pelé (ovviamente Santos) a muovere le fila svariando sulla trequarti. Cinque giocatori nel picco della carriera, stelle indiscusse delle proprie squadre. Nel Brasile sono protetti alle spalle dal centrocampista Clodoaldo e affiancati ai lati dalle salite dei terzini Carlos Alberto e Everaldo. Si vede probabilmente il miglior calcio della storia dei Mondiali.
Sempre Jonathan Wilson: «Era un 4-4-2, era un 4-3-3, era un 4-2-4, era addirittura un 4-5-1? Era tutti questi e nessuno di questi: erano solo giocatori in campo che si completavano alla perfezione». Mentre l’Italia di Valcareggi non riusciva a trovare posto contemporaneamente per Rivera e Mazzola, il Brasile schierava almeno cinque Rivera e Mazzola contemporaneamente.
Pelé ha attraversato il calcio in un momento di sviluppo tumultuoso. Da adolescente era già un fenomeno, e quindi descrivere quale sia la sua forma ideale, nei quindici anni successivi, è un esercizio impossibile. Ma probabilmente il Pelé più iconico è quello del 1970. Forse perché è il primo Mondiale in cui lo vediamo a colori - la prima stella del primo Mondiale a colori. Quel Pelè ha perso la sua onnipotenza atletica, e l’ha trasformata in saggezza. Gioca come un’enciclopedia vivente del calcio. Il suo gioco si basa più sul fare la scelta giusta al momento giusto, sulla tecnica e le letture rispetto alla possibilità di bruciare il marcatore avversario per arrivare in area. Diventa un giocatore che guida i tempi di gioco dell’attacco, sceglie lui dove andare a prendersi il pallone e dove e quanto veloce farlo circolare.
Pelé che partecipa ad un gol contro l’Uruguay facendo semplicemente da terzo uomo.
Pelé non è forse il miglior dribblatore della squadra (Jairzinho) ma se serve salta sempre l’uomo, non è forse il migliore a calciare il pallone (Rivelino) ma i migliori tiri sono i suoi, non è forse il miglior passatore (Gérson) ma i suoi passaggi sono sempre esatti per tempi ed esecuzioni, non è forse il più veloce (Carlos Alberto) ma quando serve uno scatto lascia l’avversario alle spalle. Dà l’idea di poter eccellere in qualunque zona del campo, facendo qualsiasi cosa. Ma è nei pressi dell’area che il suo gioco diventa epifanico.
Quest’azione viene dalla sua partita contro la Cecoslovacchia, la prima del Mondiale e un compendio di quello che sarà il suo torneo. C’è il famoso gol in cui stoppa col petto un lancio di Gérson, padrone del campo, poi si prende una pausa, aspetta l’uscita del portiere e il rimbalzo giusto del pallone per scaricare in porta. Ma ci sono anche azioni che mostrano la sua tecnica in velocità, come quella in cui raccoglie una palla nella propria metà campo con un controllo perfetto d’interno mancino. Non avendo compagni vicini decide di partire in conduzione, accarezza il pallone col destro e vedendo un avversario che sta provando a sbarrargli la strada gli fa un tunnel, toccandola ancora controtempo. Da lì può accentrarsi e gli basta un tocco più forte al pallone per accelerare e cambiare passo. Mentre è al massimo del gas, un difensore prova a uscire, lui cambia ancora direzione al pallone e lo manda a vuoto. Il tocco è calibrato per finire preciso sui piedi del compagno Tostao che può raccoglierla, girarsi e tirare.
Ci sono momenti di grande atletismo. C’è un’azione in cui va a prendersi il pallone in scivolata dai piedi di un avversario nella propria metà campo e da lì si alza e parte in conduzione. Corre fino all’area avversaria resistendo a tutti i tentativi di rallentarlo, tocca il pallone quanto basta per non perdere velocità e quando l’avversario sembra sul punto di aver recuperato, lui fa un cambio di passo fermandosi sul posto e mandandolo a vuoto. Sul raddoppio l’appoggia al compagno che può entrare comodamente in area.
Ai quarti il Perù di Cubillas viene strapazzato 4-2 e in semifinale l’Uruguay, campione della Copa America, battuto 3-1. La finale contro l’Italia campione d’Europa è una di quelle più a senso unico della storia dei Mondiali. Scrive Olivier Guez su “elogio alla finta”: «Il Brasile del 1970 gioca un calcio cinetico. Un combinazione di prodezze individuali e movimenti collettivi, un susseguirsi di folgorazioni, stupori, colpi di scena, è un balletto, un baccanale, il calcio poetico che sogna Pasolini, la grande opera lirica dei malandros. Il futebol samba ha toccato l’apogeo». Dopo la finale Tarcisio Burgnich, il giocatore che ha dovuto marcarlo a uomo, e che è finito sul poster del suo gol mentre prova a fermarlo in aria, dichiara: «Prima della partita mi sono detto: è fatto di pelle e ossa come tutti gli altri. Ma mi sbagliavo».
Per i primi 100 anni di calcio era stato il ricordo, orale o scritto, a conservare la memoria di cos’era successo in campo. I resoconti della stampa, senza testimonianza video, potevano essere riportati in modo mitico, esagerato, oppure parziale. Il talento del cronista poteva indirizzare il giudizio su un calciatore e non c’era altro modo che fidarsi della sua penna o della sua voce. La televisione ha cambiato tutto: non soltanto ha ampliato la platea, ma ha reso le gesta dei calciatori reali, visibili. Tutta la carriera di Pelé si sviluppa su questo assunto: chiunque poteva vedere le sue partite a un Mondiale. Dalle prime immagini sgranate del 1958 fino alla prima finale a colori nel 1970. Pelè è il campione di passaggio tra un’era mitica e una di memoria condivisa, in cui ognuno può formarsi da sé l’idea di un fenomeno sportivo.
Pelé, il campione condiviso
Quando tutto il mondo lo vede dominare il Mondiale di Messico allora si capisce che nessun superlativo è esagerato, era tutto lì in bella vista, a colori per la prima volta nella storia dei Mondiali, simbolo che il calcio era entrato in una nuova era. Certo anche Pelé ha i suoi gol che sfumano nella leggenda, gol che non ha visto nessuno, ma tutto quello che abbiamo visto ci fa credere possano essere veri. Se aveva fatto cose incredibili davanti agli occhi del mondo, quanto poteva essere impossibile quello che aveva fatto lontano dalle telecamere?
Se c’è una generazione che l’ha vissuto, quelle successive hanno potuto comunque almeno ammirare i suoi gol ai Mondiali. Non c’è appassionato di calcio che non sia passato per un VHS dei gol più importanti della storia e lì, con Maradona, Cruyff, Rossi, Baggio, c’è anche Pelé che segna contro la Svezia palleggiando in area o Pelé che segna saltando in cielo contro l’Italia. Il Mondiale ‘70 con i suoi colori sgargianti è anche quello con le foto più iconiche di Pelé, come quella in cui sorridente viene portato sulle spalle della squadra dopo la vittoria. Pelé è la stella di un calcio che sta iniziando ad assaporare la globalizzazione e che ha bisogno di una figura non conflittuale da mettere in copertina. L’immagine sorridente del calcio brasiliano che vuole essere anche quella di un movimento intero che sente di star crescendo e vuole allontanarsi dalla metafora della battaglia tanto abusata in Europa. Il calcio moderno deve essere gioia e il calcio di Pelé è gioia.
Non era interessato alla politica. In un periodo storico in cui l’ideologia sembra avere ancora una rilevanza, Pelé attraversa la dittatura militare in Brasile, il processo di decolonizzazione e la guerra fredda nel mondo, e sceglie sempre di non prendere una posizione. Il calcio sta diventando lo sport più seguito al mondo e da idolo globale Pelé non mette in discussione l’ordine costituito, vuole mostrare un’immagine apolitica di sé, sembra poter accettare qualunque sponsor, sempre in grado di evitare le polemiche. Pur essendone coetaneo, sceglie di non essere un Muhammad Ali e per il calcio sarò quello che sarà Michael Jordan per il basket: icona della crescita mondiale. Il personaggio che si è costruito è legato solo alle sue gesta in campo, da trascinatore, da giocatore che col sorriso affronta le avversità e mantiene la calma. Pelé incarna l’idea di un essere vivente creato e destinato solamente al calcio.
Ogni volta che esce ha un microfono addosso, una macchina fotografica che lo punta, ci sono immagini di lui che minorenne gira per le strade svedesi durante il Mondiale del 1958. Neanche lontano dal Brasile passa inosservato. In campo fin dal Mondiale del 1958 è l’osservato speciale. Quando gli chiedono, per il documentario Netflix a lui dedicato, che emozione ha provato dopo aver vinto il Mondiale del 1970, risponde subito e solo: «Sollievo». Pelé ha 29 anni e quando è alzato al cielo dai compagni di squadra, mentre il terzo Mondiale vinto lo pone proprio lì, sul tetto del calcio, l’emozione che dice di aver provato non è la gioia, ma il sollievo.
Il tempo ha appiattito il ricordo rendendolo tutto un'infinita sequela di gol, record e successi, ma Pelé è diventato veramente Re soltanto dopo il Mondiale del ‘70. Perché dopo la rivelazione del Mondiale ‘58, per infortunio ha partecipato soltanto all’inizio del Mondiale ‘62 (ha la medaglia ma non è il “suo” Mondiale, è quello di Garrincha), da lì ha vinto tutto col Santos e macinato record personali, ma i successi continentali e intercontinentali si sono fermati alla prima metà degli anni ‘60. Passano oltre quattro anni tra la tremenda delusione del Mondiale del ‘66 e la vittoria del ‘70, quattro anni in cui Pelé è alla ricerca di una grande vittoria di squadra che sembra sfuggirgli, sia col Santos che col Brasile. Poi arriva il Mondiale del 1970 e a soli 29 anni Pelé si sente come se avesse completato il calcio. Avrebbe potuto continuare e sicuro arrivare a giocarsi pure il Mondiale del 1974, ma dopo un anno lascia la Nazionale e quando a 34 anni gli viene detto che è finalmente libero di emigrare e ha offerte da tutta Europa, decide di andare negli Stati Uniti.
L’unica sfida che non ha vinto è stata quella di portare il calcio alla ribalta negli USA, nonostante dei compagni illustri dall’Europa. Erano arrivati anche perché potevano finalmente giocare con lui. Per esempio Franz Beckenbauer disse che: «Pelé è sicuramente il giocatore del secolo. Non possiamo dire altro. Sono stato molto felice e orgoglioso di avere la possibilità di giocare con lui nei Cosmos, a New York, per un anno. È stato il motivo principale per cui sono venuto in America». Con lui la crescita dei biglietti è aumentata dell’80%, ma era una crescita relativa. Lo sbarco negli USA ha aumentato però la sua immagine di icona pop; dagli sponsor a Hollywood, è diventato l’ambasciatore vivente del gioco del calcio. L’unico ad aver segnato in rovesciata ai nazisti. Jorge Valdano l’ha definito un fenomeno del calcio e del marketing.
Il soprannome “O Rei” è azzeccata anche perché si sposa con la personalità di Pelé, che da quando si ritira è in bilico tra la figura del sovrano illuminato e quella del monarca rancoroso. Da quarant’anni dispensa elogi e ammonimenti a chiunque sembra potersi avvicinare al suo trono. Ha sempre l’aria di quello che ha fatto e visto tutto e in realtà possiamo dire che è stato così. Quando la FIFA vuole celebrare i suoi 100 anni lo fa chiedendogli di stilare una lista dei migliori giocatori viventi. Anche lì come un sovrano, Pelé nomina quelli che secondo lui devono far parte dell’aristocrazia del calcio.
Nel 2015 France Football propone una classifica rivista del suo Pallone d’Oro, che in passato era attribuito solo ai giocatori europei. Dalla nuova classifica Pelé avrebbe dovuto vincere 7 Palloni d’Oro. Da quello del 1958 al 1961 e poi 1963, 1964 e 1970. Insomma escluso quello del 1962 teoricamente dato a Garrincha, Pelé avrebbe preso quello di Raymond Kopa, Alfredo Di Stéfano, Luis Suárez, Omar Sivori, Lev Yashin, Denis Law, e Gerd Müller.
Pelé è morto a 82 anni, era malato da tempo. Il recente documentario su Netflix somiglia al suo testamento al calcio. La notizia dell’aggravarsi della malattia e il suo ingresso in ospedale ha colto però ovviamente di sorpresa gli appassionati, che ognuno a modo suo gli ha reso omaggio per giorni, anche solo fermandosi a guardare una delle sue tante foto iconiche. Arriveranno anche più grandi omaggi ma quello che forse è sembrato il più azzeccato è la scelta del Santos di inserire una corona in suo onore sopra lo stemma, sulla maglia che lui ha portato sul tetto del mondo.
Ogni generazione ha il suo Pelé. Di quelli arrivati dopo alcuni sono riusciti ad arrivargli vicino, altri no. Gesta in campo, trofei, impatto culturale: questi tre aspetti definiscono il più grande. Questo è lo standard, e lo ha fissato Pelé. Lo ha posto più in alto, e se pure chi è venuto dopo può essersi avvicinato, Pelé rimarrà sempre il primo ad averlo fatto. La prima vera icona globale dello sport più globale. Il calciatore che è diventato sinonimo di calcio. Chiunque abbia provato, col calcio, a toccare il cielo del mondo si è trovato sempre davanti la sua ombra. L’unico modo per superarla è scansarsi. Come detto da Diego Armando Maradona al Mondiale del 1986, quello in cui lui era asceso al cielo: «Non voglio essere Pelé. Ce n’è stato uno solo, di Pelé, e noialtri veniamo dopo».