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Pensare per sei
10 mar 2016
Intervista a Bruno, il palleggiatore più forte del mondo.
(articolo)
10 min
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“Gli schiacciatori non parlano dell'alzata, la risolvono”, sostiene Julio Velasco, profeta argentino che per primo ha portato l'Italia della pallavolo in cima al mondo. Ma quando l'alzata arriva dalle dita da pianista di Bruno Mossa de Rezende, solitamente anche gli schiacciatori più esigenti hanno poco da risolvere.

Bruno è la mente della DHL Modena, la Juventus della pallavolo italiana, ma anche il leader della nazionale brasiliana che prepara i Giochi di Rio 2016. Figlio d'arte con la pallavolo inevitabilmente nel destino: il padre è Bernardo de Rezende, noto al grande pubblico come Bernardinho, palleggiatore medaglia d'argento a Los Angeles '84 e dal 2001 CT della nazionale brasiliana, mentre la madre è Vera Mossa, vista in Italia a Perugia e Sumirago, tre Olimpiadi giocate con la nazionale brasiliana.

Giochiamo a carte scoperte. Da appassionato di sport, ma soprattutto di calcio, ti confesso che del volley ho sempre amato il suo essere sublimazione del collettivo. Nessuno può toccare la palla due volte di fila, il compagno di squadra è una condizione necessaria.

È uno degli aspetti principali per cui anche io ho scelto di giocare a pallavolo. Al di là dei miei genitori, che ovviamente hanno inciso sulle scelte, ho amato da subito la pallavolo proprio per questa idea. Avevo provato anche sport individuali come tennis o badminton, ho giocato a calcio, ma alla fine ho preferito il volley. Per giocarlo bene devi essere una persona generosa, pronta a collaborare, attenta a esigenze e caratteristiche dei compagni di squadra.

Qualità fondamentali soprattutto per un palleggiatore. Negli altri sport non vedo un ruolo così centrale e catalizzante: forse l'unico parallelo possibile è coi quarterback del football americano.

È vero. Qualche tempo fa si sarebbe potuto assimilare anche il playmaker del basket, ma il gioco ha avuto un'evoluzione per cui il regista tradizionale è sempre meno diffuso. Sono un grande appassionato di NBA e ormai qualunque giocatore può ricoprire due o tre ruoli. Il palleggiatore invece mantiene una centralità simile a quella del quarterback: ha l'intera strategia della squadra nella propria testa e nelle proprie mani. È una grande responsabilità.

Una responsabilità che ti costringe a conoscere bene i compagni di squadra non solo dal punto di vista tecnico, ma anche umano.

Assolutamente. Devi sapere a chi affidarti in determinati momenti della partita: chi ha il killer instinct per i punti decisivi, chi invece può soffrire sotto pressione, chi dopo un errore ha subito bisogno di essere coinvolto oppure chi va in difficoltà se sollecitato di nuovo. In ogni azione devo pensare per sei: per me e per i miei cinque compagni. È il motivo per cui i palleggiatori sono spesso anche i capitani delle loro squadre: hanno sensibilità umana ed empatia.

Sì, anche la pallavolo ha le compilation con le musiche tamarre

Anche tu sei capitano della DHL e quest'anno hai già sollevato la Coppa Italia. È stata un'emozione diversa rispetto alla vittoria di un anno fa, non da capitano.

Sì, perché nel fine settimana del Forum, dove si è giocata la Final Four, è stato organizzato qualcosa di speciale. Volleyland, tanti bambini e ragazzi, quasi 10.000 persone sulle tribune: questo mi ha emozionato, non il fatto di essere il capitano e ricevere la coppa durante la premiazione.

Modena è l'unica tappa della tua carriera fuori dal Brasile. Perché?

Sono venuto la prima volta nel 2011, per 40 giorni durante i playoff, per sostituire Mikko Esko, palleggiatore finlandese infortunato a una mano. La stagione in Brasile era già finita e ho accettato la chiamata: volevo misurarmi con un campionato competitivo e in una società così blasonata. Ho parlato con diversi giocatori brasiliani che erano stati qui e tutti mi hanno consigliato di venire, perché Modena è la capitale del volley. Avevano ragione: in poco più di un mese sono stato travolto dall'affetto dei tifosi e mi sono completamente innamorato della città. Sapevo già che se fossi tornato in Europa, l'unica destinazione, o quantomeno la prima, sarebbe stata Modena. E così è stato a gennaio 2014.

Ma esiste ancora per gli atleti brasiliani all'estero il concetto di saudade?

Ci siamo evoluti, ma le radici non si cancellano. Proveniamo da una cultura in cui stare assieme in comunità è fondamentale: nelle mie squadre in Brasile non c'era settimana senza un paio di barbecue tutti insieme, per fare gruppo. Mi mancano la famiglia e gli amici, ma a Modena siamo riusciti a ricreare un gruppo forte, che mi fa sentire a casa.

Casa per te è Rio de Janeiro, dove sei nato, ma anche Campinas, dove sei cresciuto e dove hai giocato.

Campinas è la città della famiglia di mia madre, lì ho ancora tanti amici e lì ho cominciato davvero a giocare a pallavolo.

L’eredità calcistica, comunque, è sempre ben presente

È anche la città di sportivi importanti per la storia del Brasile: nel calcio, è la città di Careca ma anche di Moacir Barbosa. Sai chi è?

B: No...

Era il portiere del Brasile nel giorno del Maracanazo, la sconfitta con l'Uruguay costata il Mondiale del 1950. Considerando come è andato anche il Mondiale 2014 la domanda è inevitabile: giocare le Olimpiadi a Rio sarà un vantaggio oppure fonte di pressione?

Di certo sentiremo addosso una pressione forte, ma tutto dipende da come prendi psicologicamente questa situazione: se la vivi come un vantaggio, ne coglierai solo gli aspetti positivi, se invece ti fai contagiare dall'emotività e dall'attesa sarà più probabile sentirne il peso. La pallavolo in Brasile da anni è costantemente ai massimi livelli, avremo già pressione sufficiente e non ha senso aggiungerne: dobbiamo solo pensare che l'Olimpiade è il momento più alto della carriera di un atleta e noi avremo la fortuna di viverlo a casa. Dovremo godercelo.

Vero, però io ho ancora negli occhi i volti dei giocatori del Brasile durante l'inno nazionale nella gara inaugurale del Mondiale 2014 contro la Croazia. Il primo pensiero è stato: “Non possono vincere”.

Mi viene la pelle d'oca, ricordo bene quel momento e il volto di Thiago Silva quasi in lacrime. Conosco diversi ragazzi di quella squadra e non mi permetto di giudicare: noi brasiliani siamo fatti così, siamo più emozionali che razionali. Ma si dovrebbe sempre mantenere l'equilibrio per capire che quello è il nostro lavoro: fatto di passione ed emozioni, certo, ma comunque lavoro. L'emozione durante l'inno può anche starci, ma deve finire appena inizia la partita.

Probabilmente però il calcio mette addosso una pressione diversa rispetto alla pallavolo.

Sicuro. In Brasile diciamo sempre che il volley è il primo sport nazionale. Perché il calcio è religione e non c'entra nulla con lo sport.

A proposito, la tua amicizia con Neymar è nota. Come è nata?

È nata per caso: abbiamo un amico in comune, un cantante brasiliano a cui ho fatto da testimone di nozze. Ci ha fatto incontrare nel 2010, quando Neymar era ancora al Santos, e c'è stata subito sintonia. Gli auguro davvero di raggiungere i traguardi che sogna, perché se li merita. Come giocatore ma anche come uomo.

Come arriva il Brasile, inteso come nazione, all'appuntamento olimpico?

Poteva arrivarci meglio, soprattutto dal punto di vista economico. La crescita ha rallentato nettamente e le contraddizioni restano. Peccato perché per due settimane saremo al centro del mondo e l'immagine che verrà proiettata probabilmente non sarà quella che si sperava.

Ci saranno le stesse manifestazioni di protesta già viste durante il Mondiale di calcio?

Non credo. Intanto l'Olimpiade si concentra prevalentemente a Rio e non coinvolge tutta la nazione, inoltre è stata finanziata con molti fondi privati. Il problema del Mondiale è che sono stati costruiti stadi in città come Manaus o Cuiabà senza tradizione e senza squadre: adesso sono cattedrali nel deserto inutilizzate. Ecco perché la gente protesta: avrebbe preferito scuole e ospedali al posto di certi impianti senza prospettiva.

A Rio sarà diverso?

Me lo auguro. Spero che la città rifiorisca come accaduto per esempio a Barcellona o anche a Torino dopo le Olimpiadi invernali del 2006.

L'estremo opposto è il caso di Atene.

È un rischio, ma mi auguro davvero che non succeda. In Brasile gli analisti dicono che ci aspettano un paio di anni complicati, ma mi auguro che l'Olimpiade lasci un'eredità positiva, sia in termini di strutture che a livello economico. In realtà avremmo bisogno di un cambio di passo nella politica: dopo 13 anni tra Lula e Dilma i problemi restano irrisolti e probabilmente servirebbe un rinnovamento profondo.

Lo stesso che ha vissuto la vostra nazionale dopo aver vinto il Mondiale 2010 a Roma. Un cambio generazionale che mantiene come trait d'union il CT, tuo padre Bernardinho. Com'è essere allenati da un proprio genitore?

All'inizio è stata molto dura: sono arrivato in Nazionale dopo aver vinto il primo campionato in Brasile, sono entrato come terzo palleggiatore, ma in tanti dicevano che ero lì non per il mio talento ma solo perché ero figlio del coach. Per questo mio padre mi costringeva ad allenarmi più degli altri, a fare di più per dimostrare che meritavo di stare in quel gruppo. Quando sei figlio dell'allenatore, devi sempre essere un po' più bravo degli altri per giustificarne le scelte. Adesso però, dopo dieci anni di Nazionale, vedo che tratta i giovani come trattava me: se vede del potenziale in qualcuno, cerca di stimolarlo al massimo.

E la vostra relazione personale com'è?

Adesso è molto professionale: quando lavoriamo insieme per me è il coach e non papà. Certo, visto il legame a volte c'è il rischio di avere reazioni più istintive, ma non posso permettermele per rispetto innanzitutto alla figura dell'allenatore. Discuto con lui come discuto con Angelo (Lorenzetti, coach della DHL Modena, ndr), ma tutto finisce in palestra. Ci sono state volte in cui l'avrei mandato a quel paese, ma mi sono tenuto tutto dentro.

Ti ha aiutato avere due genitori entrambi atleti di alto livello?

È stato un vantaggio soprattutto quando ho dovuto fare delle scelte: ho sfruttato la loro esperienza per farmi indicare la strada migliore.

In campo hai il numero 1. C'è un motivo?

Era il numero di mio padre. Quando sono arrivato in Italia per la prima volta ho scelto il 14, mettendo assieme l'1 del papà e il 4 che era il numero di mia madre. Poi quando sono entrato in nazionale l'1 era libero e l'ho preso. Da allora me lo sono tenuto sempre.

Nello spazio di qualche secondo: recupero miracoloso e muro a uno sullo schiacciatore

Al di là dei tuoi genitori, hai qualche modello nello sport?

Lo sport è la mia vita e mi piace leggere le storie di grandi sportivi: Michael Jordan, Phil Jackson, Rafa Nadal, da tutti ho cercato di trarre ispirazione. Ma per noi sportivi brasiliani su tutti c'è Ayrton Senna, per le sue vittorie e il suo talento: è un idolo e ho provato a rubargli qualche segreto. Un altro modello è Guga Kuerten: ho avuto il piacere di conoscerlo quando giocavo a Florianopolis, la sua città. Guga e Senna sono gli esempi più importanti che ho cercato di seguire nella mia carriera.

Tutti sportivi vincenti. Allora non è un caso se in campo ti trasformi: da ragazzo sensibile ed educato fuori a uomo competitivo e determinato durante le partite.

È normale. Come diceva Sergio (nazionale brasiliano, il libero più vincente della storia del volley, ndr) la pallavolo è il nostro pane, con lo sport mangiamo e facciamo mangiare le nostre famiglie. Quindi in campo voglio vincere, sempre. La sconfitta ti fa crescere ma non è semplice da accettare: per questo in campo do sempre tutto e dormo tranquillo solo quando ho lasciato in partita ogni goccia di energia.

E per quanto tempo avrai ancora questa fame?

Spero ancora per una decina d'anni. Vorrei giocare fino ai 40.

E poi seguire le orme di papà anche in panchina?

Di sicuro lavorerò nello sport anche dopo aver chiuso la carriera, ma in che ruolo ancora non lo so. Quello dell'allenatore è un ruolo difficile.

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