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Perché l’All-Star Game non piace più a nessuno
20 feb 2024
Anche a Indianapolis la NBA non è riuscita a invertire il trend, nonostante i proclami della vigilia.
(articolo)
9 min
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IMAGO / Xinhua
(copertina) IMAGO / Xinhua
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Alla fine neanche Adam Silver è riuscito a nascondere il suo disgusto. Il commissioner della NBA, al momento della premiazione della Eastern Conference per la vittoria dell’All-Star Game di Indianapolis, ha usato il tono più neutro possibile per consegnare il trofeo ai (pochi) giocatori lì presenti, senza neanche provare a commentare il fatto che avevano appena battuto qualsiasi record realizzando 211 punti in 48 minuti.

«Avete segnato il maggior numero di punti… Beh, congratulazioni». Non esattamente il modo in cui solitamente viene celebrato un record.

La delusione di Adam Silver è comprensibile. Il commissioner — che ha recentemente rinnovato il suo accordo per continuare a guidare la lega fino al 2030 — aveva speso gli ultimi mesi cercando di trovare un modo per iniettare un po’ di adrenalina nel petto della partita delle stelle come John Travolta nel petto di Uma Thurman in Pulp Fiction. Basta con le fanfare, con i roster scelti dai capitani con il Draft, con l’Elam Ending, con le presentazioni infinite e con gli halftime show che durano mezz’ora. Un bel ritorno alla tradizione: Est contro Ovest, 48 minuti canonici, un riscaldamento bello lungo come se fosse una partita di regular season, forse persino di più per permettere ai giocatori di trovare il loro ritmo-partita. «Torniamo a concentrarci sul gioco della pallacanestro, torniamo alla nostra solita routine», aveva detto nella conferenza stampa della vigilia, ammettendo implicitamente che la situazione quindi era un po’ sfuggita di mano negli ultimi anni. Altrimenti non sarebbe stato necessario un “ritorno”, no?

Ma esattamente come la scena leggendaria del film di Quentin Tarantino è stata girata al contrario, l’effetto è stato opposto a quello voluto da Silver. Nonostante i proclami della vigilia — «Considerando le discussioni che Joe Dumars [nuovo capo delle operazioni cestistiche, Hall of Famer sia in campo che dietro la scrivania, ndr] ha avuto con i rappresentanti dei giocatori e la sua credibilità presso gli uffici della lega, penso che vedremo una bella partita domani sera» — il prodotto visto in campo è stato esattamente quello dello scorso anno, se non persino peggiore. E già la partita di Salt Lake City aveva fatto scattare campanelli d’allarme negli uffici della Olympic Tower, sia per i rating televisivi (i più bassi degli ultimi anni) che per il rinnovo del contratto televisivo ormai alle porte.

È per questo motivo che la mancata competizione nell’evento clou del weekend delle stelle è in primo luogo una sconfitta politica per Adam Silver. La NBA aveva bisogno di metter in mostra il suo prodotto migliore in vista delle trattative con ABC, TNT e gli eventuali partner OTT di cui si vocifera ormai da tempo (da Netflix ad Amazon), specialmente a una settimana di distanza dal Super Bowl della NFL. E ha passato gli ultimi mesi a ribadire che un maggiore impegno da parte dei giocatori — non solo nell’All-Star Game, ma anche durante la regular season con la Player Participation Policy — era necessario per tutto l’ecosistema NBA, perché comunque proprietari e associazioni sono partner al 50% della torta da 10 miliardi di dollari che si spartiscono.

«Ci sono state delle discussioni per rendere la partita più competitiva», ha ammesso Jaylen Brown, che ha un ruolo attivo nella NBPA e non a caso è uno dei pochi che ha provato a metterci un po’ di impegno. «Non sono sicuro però di quanto abbiano avuto successo. Immagino che si debbano cercare altre soluzioni per trovare il modo di rendere la partita divertente e allo stesso tempo sicura in termini di infortuni».

Che cosa rimane del basket senza competitività?

Di questa dicotomia tra la competizione e il rischio di infortuni ha parlato lungamente anche Anthony Davis, il quale senza mezzi termini ha indicato nell’esibizioni di schiacciate coi trampolini durante l’intervallo l’aspetto più memorabile della partita — per dire del livello che si è visto in campo. «Ovviamente i tifosi, la lega e tutti quanti vorrebbero vedere una partita competitiva, ma noi da giocatori cerchiamo di non farci male. Gli infortuni fanno parte del gioco, ma nessuno vuole farsi male in un All-Star Game con la seconda metà di stagione da giocare con le nostre squadre. Se siamo qui, significa che abbiamo grande valore per le nostre franchigie».

Davis ha anche sottolineato quanto quello della competitività non sia un bottone che si può premere a piacimento. «C’è un solo modo di competere, ed è andando all-in. Non esiste "Ok, competiamo un po’ ma non troppo". E penso che molti giocatori non siano disponibili a competere a quel livello. Cosa succede se uno va a contestare una schiacciata e si fa male durante l’All-Star Game quando si poteva evitare?». Altri giocatori come Anthony Edwards hanno ammesso candidamente che non vedranno mai la partita delle stelle come «super competitiva», sottolineando come per loro sia una pausa (peraltro l’unica) all’interno di un calendario che li vede giocare una volta ogni due giorni; altri lo hanno fatto chiaramente intendere con i loro comportamenti, in particolare con Nikola Jokic e Luka Doncic la cui noncuranza nei confronti di tutto quello che accade nel weekend delle stelle è tale da fare il giro e diventare a suo modo intrattenente (o almeno la NBA disperatamente prova a renderla tale).

LeBron James stesso, alla sua ventesima partecipazione ad un weekend delle stelle (nuovo record all-time) e alle prese con una caviglia malconcia, ha ridotto al minimo il suo dispendio di energie, presentandosi solo alla domenica facendo il minimo indispensabile: una conferenza stampa in cui ha parlato più che altro dei Lakers, 14 minuti in campo, due battute con gli altri All-Star su quanto fosse vecchio e via.

Il fatto è che il basket senza competizione non è divertente, e anche le grandi giocate che possono esserci quando si mettono sullo stesso campo i 24 migliori giocatori del mondo perdono di significato in un contesto non competitivo — rendendolo un prodotto che non piace a nessuno, tantomeno ai “casual fan” che la NBA tanto cerca di attrarre. Intendiamoci: l’All-Star Game non è mai stata una partita dura per 48 minuti, e a vedere bene non è che le altre grandi leghe statunitensi mettano in campo chissà quale prodotto, ma la regola non scritta è stata che con il punteggio in bilico nel quarto periodo il livello di intensità si sarebbe alzato. E magari sarebbe successo anche l’altra sera se l’Est non avesse cominciato a non sbagliare mai dalla lunga distanza allungando nel terzo quarto, rendendosi imprendibile e — senza neanche più il target score dell’Elam Ending — sfondando la soglia psicologica dei 200 punti che rende automaticamente priva di senso qualsiasi analisi.

Sembrano passati 20 anni, ma solamente nel 2020 il finale dell’All-Star Game di Chicago — quello dell’introduzione del target score con 24 punti da realizzare nel quarto periodo, in onore del numero di maglia di Kobe Bryant — era stato più che accettabile e ben accolto. Questo per dire che ciclicamente dei buoni finali all’ASG ci sono state, anche in tempi recenti.

E non bisogna neanche tornare così tanto nel passato a un mondo pre-Covid per trovare l’esempio di cosa può funzionare in un contesto del genere. Il Rising Stars del venerdì, pur sicuramente a scartamento ridotto, è stato quantomeno tenuto in piedi dalla voglia di competere e di mettersi in mostra dei giocatori della G-League, che hanno approfittato del palcoscenico per impegnarsi e far rimediare una brutta figura alla squadra guidata da Victor Wembanyama. E nessuno si è fatto male. Si può discutere del fatto che ai giocatori del venerdì non venga richiesto lo stesso tipo di impegno rispetto a quelli della domenica, che sostanzialmente dal giorno in cui arrivano in città sono sommersi di incontri, apparizioni, interviste, feste ed eventi sociali a cui devono presenziare anche per motivi di marketing.

Questo thread di Nate Jones, che segue Damian Lillard dall’inizio della carriera, spiega bene che tipo di impegno sia richiesto agli All-Star e perché impegnarsi la domenica sera sia l’ultimo dei loro interessi, nonostante sia al primo posto per noi.

Il punto di equilibrio da trovare nella NBA uber-analitica

Però trovare un punto di incontro tra le necessità della lega di vendere uno dei momenti clou del proprio calendario e quella dei giocatori di preservare i loro principali strumenti di lavoro (cioè la loro salute, anche dal punto di vista delle energie mentali) è importante per la NBA a lungo termine. Chiariamoci: la lega non è in crisi, il livello di skills dei giocatori è ai massimi livelli, le valutazioni delle franchigie non sono mai state così alte e un’espansione a 32 squadre è ormai prossima.

Prendere l’All-Star Game e la sua mancanza di difesa come simbolo ed epitome della NBA di oggi è un argomento in malafede, almeno se non si sottolinea quanto sia diventato difficile difendere (l’anno scorso trovai 10 motivi, valgono benissimo anche quest’anno) e quanto siano migliorati i giocatori dal punto di vista individuale e di conseguenza collettivo. Due dati su tutti: la percentuale da tre punti (36.7%) e ai liberi (78.4%) non è mai stata così alta nella storia della NBA. E se i tiri più efficienti vengono realizzati con quelle percentuali, è automatico che i punteggi salgano — perché nella NBA di oggi non si prendono più brutti tiri dal punto di vista analitico, a differenza di quanto accadeva negli incensati anni ’80 e ‘90.

Questo significa che il prodotto sia perfetto così? Ovviamente no, e anche Adam Silver ci ha tenuto a specificare che «l’idea che la lega preferisca partite ad alto punteggio in astratto è sbagliata. Quello che noi vogliamo sono partite competitive, è quello che vogliono anche i nostri tifosi. Non sono d’accordo con chi dice che le squadre non difendono, perché l’intensità c’è. Ma ci sono molti motivi per quello che sta accadendo, e ne ho parlato a lungo sia con gli allenatori che con i giocatori». Questo ci dice che anche all’Olympic Tower si sta osservando con attenzione l’andamento del gioco e la sua evoluzione, e con ogni probabilità qualche accorgimento per favorire le difese (specialmente sui contatti iniziati dagli attaccanti, che ancora troppo spesso vanno contro i difensori) è in programma per riequilibrare il gioco.

Ma prendere l’All-Star Game come esempio di ciò che non ci piace della pallacanestro di oggi, o del fatto che ormai “la NBA è sovrasatura di punti” come ha scritto The Athletic, è sbagliato o quantomeno pretestuoso. Detto questo, che si possa fare meglio è sicuro — e il fatto che la lega ci abbia provato esponendosi così pubblicamente e abbia fallito altrettanto platealmente è un campanello d’allarme per la dissonanza che c’è tra l’Olympic Tower e i giocatori che scendono effettivamente in campo. Può bastare un premio in denaro per convincere gli All-Stars a impegnarsi, un po’ come accaduto per l’In-Season Tournament? Vale quantomeno fare un tentativo, giusto per togliersi il dubbio che almeno quello possa funzionare. Ma la NBA sta finendo le opzioni per rendere l’All-Star Game un evento degno di essere visto, e nonostante qualche eccezione — a partire dalla splendida sfida tra Sabrina Ionescu e Steph Curry — anche l’edizione di Indianapolis sa tanto di occasione mancata.

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