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Perché gli attaccanti segnano così poco con l'Italia?
01 dic 2018
Roberto ci ha chiesto perché gli attaccanti sembrano non riuscire a segnare con la maglia azzurra. Risponde Francesco Lisanti.
(articolo)
7 min
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Caro l'Ultimo Uomo,

Immobile in Serie A ha una media gol spaventosa mentre in nazionale non segna mai, sbaglia tutti i gol e sotto porta sembra semplicemente non essere lui. Ha segnato 7 gol in 40 presenze. La mia domanda nasce dal fatto che non è certo l'unico numero 9 che ha avuto un rendimento deludente con l'Italia.

Se guardiamo la classifica marcatori all-time dietro Meazza e Riva c'è praticamente il vuoto in termini di gol. Giocatori molto prolifici come Vieri, Toni o Inzaghi - o anche 9 e mezzo come Totti e Del Piero - hanno segnato pochissimo rispetto a quanto riuscivano a fare nel loro club. Come mai? È un problema generale delle Nazionali? Eppure negli altri paesi giocatori anche più modesti, con nazionali che negli ultimi vent'anni sono state meno attrezzate, hanno segnato di più. Il "Chicharito" Hernandez, per dire, ha segnato 50 gol con il Messico. Crouch 22 con l'Inghilterra, che non sono una grande cifra ma è in linea con quella dei migliori 9 della nostra storia.

Voi avete una risposta, o almeno una teoria, su questo?

Roberto

Risponde Francesco Lisanti

Gentile Roberto,

probabilmente mi scrivi avendo negli occhi i due errori di Immobile contro il Portogallo, e più in generale gli ultimi dodici mesi di una Nazionale che a Svezia, Polonia e Portogallo, in sei partite ufficiali, è riuscita a segnare soltanto due gol: uno su rigore e uno in mischia nei minuti di recupero. Anche adesso che le cose sembrano migliorare, che Mancini ha individuato un’ossatura tattica interessante, che il pallone circola velocemente, la questione dei gol appare un rompicapo irrisolvibile. Le tue perplessità sono legittime, condivise da tutti i tifosi della Nazionale, e seguono più o meno questo ragionamento: posto che il trio di centrocampo è intoccabile, e che difensori all’altezza ne troveremo sempre, sarà sufficiente trovare l’incastro giusto dentro la maglia numero nove per riportare la Nazionale dentro i confini della sua tradizione secolare?

Ragionare sulla scorta delle recenti emozioni è un esercizio che riconosco tipicamente italiano («Se quel palo fosse entrato», del resto, è il titolo perfetto per il libro sulla storia della Federcalcio che nessuno ha ancora scritto). Però è un esercizio rischioso, che come spesso accade finisce per spingere in profondità le radici della questione, lasciandoci in mano un pugno di mosche e indignazione. Per il momento ti suggerisco di adottare l’ottimismo di Immobile, che mentre l’opinione pubblica si interrogava su quale pezzo di puzzle potesse combaciare perfettamente tra Insigne e Chiesa (Belotti? Balotelli? Bernardeschi falso nove?), ha provato a trovare forza e conferme nella sua esperienza di centravanti: «Ero più preoccupato prima, quando le occasioni non capitavano».

È ovviamente condivisibile l’impressione che Immobile si trovi a disagio a giocare davanti a una batteria di palleggiatori, che ferma per molto tempo il pallone sulla trequarti e lo costringe a muoversi in spazi ridotti e a vincere i duelli in area di rigore, anziché sfruttarne le doti in allungo, l’attacco della profondità, i movimenti centrifughi per disordinare la linea di difesa. Però ci riconduce al punto principale, emerso anche dalla riflessione che ha fatto Immobile: le fortune di un attaccante ruotano intorno ai giochi offensivi, alle modalità di creazione occasioni, e per esteso intorno all’identità tattica di una squadra. Vale anche per la Nazionale, e non soltanto a queste latitudini. Spagna e Germania hanno vinto senza centravanti, poi quando hanno dovuto integrarne uno (persino il Diego Costa del 2014, al picco del suo strapotere fisico), sono apparse snaturate; al contrario, leggende locali come il Chicharito Hernández in Messico o Edu Vargas in Cile hanno rappresentato i terminali perfetti per trasformare in gol le idee dei rispettivi allenatori.

Non è da escludere che prima o poi accada lo stesso in Italia, magari proprio con Immobile, dal momento che questa Nazionale vive i suoi momenti di maggiore brillantezza sulla scia del pressing alto e della riaggressione ostinata. Fasi di gioco che Immobile interpreta probabilmente meglio di qualunque suo connazionale, e sulle quali conviene insistere, perché trovi quell’intesa di reparto che al momento manca. Insomma non riesco proprio a convincermi che ci sia un problema storico, praticamente endemico come suggerisce la tua domanda, e del resto neanche i numeri puntano in quella direzione.

Nella pratica tabella che trovi qui sotto, ho raccolto i 15 migliori marcatori della storia della Nazionale nel Dopoguerra, tra quelli che hanno raccolto almeno 10 presenze (altrimenti il migliore sarebbe Sergio Pellissier, che ha segnato un gol negli unici 28 minuti in cui ha vestito la maglia della Nazionale). La loro costanza realizzativa è espressa in gol ogni novanta minuti, l’indice più adatto a confrontare volumi di partite e minuti giocati molto differenti.

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La prima cosa che salta all’occhio è che sono tutti nomi noti, con una buona, ottima o eccellente carriera alle spalle, sia con le squadre di club che con la Nazionale. Con entrambe le maglie, tutti sono arrivati vicino, o hanno abbondantemente superato, il confine degli 0.4 gol p90 in carriera, che separa i realizzatori affidabili dai mediocri. Questo per dirti che abbiamo visto tanti attaccanti forti indossare la maglia azzurra, anche se i grigi zero a zero degli ultimi mesi rendono difficile crederlo. La seconda cosa è che 13 di questi 15 nomi hanno segnato con maggiore frequenza con la maglia della Nazionale che con le maglie dei rispettivi club, e adesso starai giustamente pensando: ma il campione è assai ridotto, e tiene conto delle amichevoli inutili, e trascura l’impatto degli ingressi dalla panchina (è più facile che un attaccante forte cominci da titolare con le squadre di club che in Nazionale).

È tutto vero, ma questo confronto serve innanzitutto a confutare l’assunto iniziale, cioè che tutti i grandi attaccanti abbiano reso mediamente peggio con l’azzurro sulle spalle. E avrai notato che le uniche due eccezioni lo sono in senso letterale: le medie realizzative di Vieri e Toni in campionato sono straordinarie, tanto più perché registrate nell’arco di un’intera carriera. Inzaghi, che in Serie A ha segnato con più frequenza di tutti gli altri nomi menzionati (escluso Vieri), ha comunque segnato di più in Nazionale. Completano l’elenco una serie di nomi legati a un preciso momento storico o a una particolare guida tecnica, come Schillaci, eroe delle Notti Magiche, Chiesa durante il secondo crepuscolare Sacchi, Quagliarella durante il secondo crepuscolare Lippi, o Pellè sotto la guida di Conte, perfettamente integrato nei meccanismi del 3-5-2.

Tutte le strade, in qualche modo, riconducono alla riflessione centrale di questo ragionamento: non esiste nessuna maledizione che grava sulle culle dei futuri numeri nove della Nazionale, e non è neanche vero che la nostra tradizione calcistica è allergica ai centravanti, o incapace di coltivarne. Esistono però dei presupposti necessari perché un attaccante sia messo in condizione di spingere la palla in porta, primo su tutti l’intesa con il commissario tecnico e l’affinità al suo stile di gioco. A questo proposito, non posso fare a meno di notare come quasi tutti i nomi contenuti nella tua domanda (Totti, Del Piero, Inzaghi, Vieri) siano in realtà riferibili allo stesso periodo della storia della Nazionale, quei cinque-sei anni a cavallo tra gli anni Novanta e gli anni Duemila che rappresentano l’apogeo di delusioni e rimpianti per ogni tifoso italiano.

In quegli anni abbiamo alternato diversi allenatori, Cesare Maldini, poi Zoff e soprattutto Trapattoni, e con il senno di poi è doloroso ma doveroso riconoscere che nessuno di questi sia stato in grado di trasmettere alla squadra una spiccata impronta offensiva, o anche solo una parvenza di gioco divertente, a dispetto dei talenti epocali di cui potevano disporre. Erano anni di 5-3-2 e reparti scollati, di fenomeni che non riuscivano a comprendersi, mentre l’opinione pubblica si preoccupava soprattutto di difendere una tradizione catenacciara a cui sentiva di appartenere per eredità genetica. Sono lezioni di cui fare tesoro, perché può darsi che Immobile sia inadeguato al ruolo che ricopre, ma in ogni caso non dipende da lui il rompicapo della siccità realizzativa. Per caso o per fortuna, l’unica persona in grado di risolverlo è un altro grande attaccante che non è mai riuscito a esprimersi con la maglia della Nazionale.

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