Anche se il suo atteso debutto in WNBA con la maglia delle Indiana Fever non è andato come sperava (sconfitta per 92-71 contro le Connecticut Sun), stiamo vivendo le settimane del “Caitlin Clark-effect”. Lo so che se n’è già scritto qui su Ultimo Uomo ma vorrei tornarci perché non parliamo di un fenomeno sportivo normale. I segni vissuti tra la primavera 2023 e quella 2024 sono quelli dell’avvento di un’icona trasformativa, qualcosa di paragonabile alle fasi iniziali della carriera di Michael Jordan, giusto per rendere l’idea. Diventa quindi interessante chiederci perché sia scoppiata una passione collettiva così intensa nei suoi confronti, oltre ovviamente a un talento fuori scala. Perché insomma una giocatrice universitaria di basket, sport completamente ignorato fino a pochissimi anni fa, sia diventata il personaggio sportivo del momento negli Stati Uniti, e chiederci anche cosa ci fa intravedere il suo successo.
A mio parere ci sono tre grandi motivi che spiegano la sua affermazione, di cui due di natura prettamente culturale. Partiamo dal primo, che è strettamente interconnesso alla cultura americana - quindi, in sostanza, a ciò che piace al pubblico statunitense. Caitlin Clark, da questo punto di vista, è l’everywoman - da queste parti diremmo “la donna qualunque” - non nel senso che sia mediocre, tutt’altro, ma in quello tutto americano e whitmaniano della fiducia cosmica nelle capacità di affermazione individuale, da intendersi in un senso democratico, di opportunità concessa potenzialmente a tutti.
Clark non è una “predestinata", se così possiamo dire. La sua storia cestistica non ha il segno dell’appartenenza aristocratica che avrebbe avuto ad esempio l’affermazione potenziale di Gianna Bryant, seguita dal padre Kobe in maniera costante, se la tragedia aerea non avesse spezzato il filo ancora così giovane della sua vita e della sua carriera sportiva. Clark è una ragazza comune, figlia di una famiglia cattolica (con radici italiane) della classe media, ed è cresciuta in uno stato, l’Iowa, che prima di lei finiva sulla mappa solo perché è il primo a ospitare ogni quattro anni il caucus elettorale delle primarie repubblicane e democratiche (o, per i più cinefili, per la fotografia di qualche grande film come Una storia vera di David Lynch).
Oltre al già citato Whitman, la mania americana per Caitlin Clark ha le sue radici anche nel pensiero di Ralph Waldo Emerson, e nelle sue riflessioni sulla self-reliance come vero fondamento del carattere americano, che nello sport ha attecchito in misura particolare. Se vuoi, puoi. Se hai fiducia in te stesso, ottieni. Se sei veramente convinto, emergi. Se ci credi, vinci. Impossibile comprendere la centralità della dimensione dello sport giovanile negli Stati Uniti, con milioni di persone che si entusiasmano per categorie che in Europa sono totalmente fuori dai radar del mercato dell’attenzione, senza questo fortissimo bisogno di vedere all’opera dei percorsi “emersoniani” - che partono dal basso, diciamo - tanto più se uniti all’esaltazione dell’orgoglio locale.
Clark è l’ennesima incarnazione sportiva del volontarismo americano, il sudore che batte il talento o, meglio, che gli consente di svilupparsi e fruttificare, e non a caso in queste settimane la cestista di West Des Moines ha ricordato a più riprese la sua precoce formazione competitiva nello sport, attraverso il confronto emulativo con i fratelli maggiori, e il duro lavoro fatto in questi anni al college per strutturarsi dal punto di vista fisico, con la massa muscolare aumentata di quattro chili in poco tempo. Sui social ha preso a circolare il video di uno dei suoi allenamenti estivi, in una sorta di palestra-garage, l’ambientazione perfetta per incarnare quanto detto fin qui. Proprio il già citato film di Lynch ambientato nei campi di grano dell’Iowa serve per comprendere una componente altrettanto essenziale del carattere americano, anche questa fortemente presente nella storia di Clark: la relazione tra la smisurata fiducia nelle capacità individuali e una dimensione spaziale profondamente differente da quella europea, fatta di grandi spazi anch’essi smisurati, da percorrere ed esplorare in un rapporto di unione vitalistica con la natura.
Questo senso legato ai percorsi ascensionali dell’individuo motivato, convinto e fiducioso si trasferisce anche alle squadre. Nell’aristocrazia continuamente sfidata dalle singole volontà degli uomini e delle donne comuni, in perfetta mimesi con la storia di fondazione degli Stati Uniti, risiede un altro motivo profondo dell’interesse americano per le competizioni NCAA, quasi del tutto incomprensibile dall’esterno. Iowa State prima dell’arrivo di Clark non compariva nemmeno tra le prime 25 del ranking NCAA redatto ogni anno a inizio stagione dall’Associated Press, ed era al 25 esimo posto di quello stilato dagli allenatori, mentre all’inizio della stagione appena conclusa figurava al secondo posto di entrambe. Così come risulta quasi del tutto incomprensibile il profondo significato antropologico dello sport giovanile americano, con i suoi riti di passaggio che evocano quelli studiati ne Il ramo d’oro di Frazer, in particolare quello del draft, il cui significato va oltre a quello contrattuale di allocazione del talento.
Ovviamente c’è anche il rovescio oscuro, lo sport trasformato in industria delle aspettative deluse e degli annessi fallimenti esistenziali, di cui David Foster Wallace in Infinite Jest, con geniale e tremenda ironia, ci ha consegnato un ritratto durevole.
Il secondo motivo riguarda un’altra peculiarità della cultura sportiva americana. Clark nel suo percorso NCAA ha battuto caterve di record (qui trovate l’elenco interminabile). Per gli americani battere i record è tutto, lo sport è potere di battere i record, il pubblico impazzisce quasi più per questo che per le vittorie, anche perché i successi sono quasi sempre conseguenza di atleti capaci di battere i record, quindi un derivato, non il motore primo. Negli anni Settanta del secolo scorso, quando in Europa gli intellettuali snobbavano in massa lo sport ritenendolo un prodotto non degno di attenzioni culturali, negli Stati Uniti uno storico di origine ebraica, Allen Guttmann, diede alle stampe un libro divenuto un classico degli studi sportivi, intitolato proprio Dal rituale al record, sottolineando la possibilità del record di far competere tra loro atleti di epoche diverse.
Veniamo al terzo motivo, per certi versi il più semplice e insieme anche il più affascinante. Le cose fin qui analizzate sono infatti regolarità riferibili a tantissimi altri atleti del mondo sportivo americano, e non hanno una specifica declinazione di genere. Il caso di Caitlin Clark è però straordinario proprio perché è stata una donna ad aver generato questi effetti, per giunta in uno sport in cui la dimensione femminile aveva finora sempre rappresentato un’appendice di quella maschile. Nell’estate del 2021 la NCAA si trovò addirittura a dover affrontare uno scandalo mediatico per la radicale disparità di trattamento accordata alle squadre partecipanti alla Final Four femminile, considerate alla stregua di un prodotto di scarto, mentre la WNBA nell’ultimo decennio ha fatto notizia quasi solo per vicende che avevano a che fare con lo sport solo lateralmente, come la detenzione di Britney Griner in Russia o il matrimonio tra Maya Moore e Jonathan Irons, o ancora la particolare storia familiare di Elena Delle Donne, che ha sempre rinunciato alla carriera invernale in Europa per assistere la sorella affetta da una paralisi cerebrale. Una mancanza di eco mediatica che per anni si è riflessa in prospettive economiche striminzite, con contratti televisivi esigui e un torneo di durata molto breve. Fattori che fino a poco tempo fa hanno costretto la maggior parte delle grandi campionesse americane a svernare in Siberia, o in piccole cittadine spagnole o nella provincia vicentina pur di sbarcare il lunario.
Perché dunque questo interesse improvviso? Innanzitutto per un cambiamento tecnico del basket maschile, che, attraverso Clark, sta impattando in maniera inattesa su quello femminile. Mi spiego. Non è la prima volta che emerge una generazione di campionesse dotata di un talento sopra la media. Trent’anni fa però sarebbe stato fisicamente difficile provare, per una donna, emulare Michael Jordan o qualcun altro dei grandi campioni della NBA. In un basket che era ancora dominato tecnicamente ed esteticamente dalla schiacciata, il canestro posizionato a 3,05 metri di altezza impediva alle giocatrici, tranne rarissime eccezioni, di effettuare questa giocata. Lo impediva per l’altezza media delle atlete ma anche per ragioni culturali, perché per il femminismo americano (e non solo) abbassarlo non sarebbe stato nemmeno concepibile, così come non è concepibile la discussione sulle porte da rimpicciolire. Non poter schiacciare sistematicamente, non poter essere puro spirito aereo come Jordan, che di quell’identificazione ha fatto un segno duraturo anche da un punto di vista commerciale, non è una mancanza di poco conto. Se il basket è lo sport che sfida la legge di gravità, a cosa poteva ambire il basket femminile? Da qui la percezione di uno spettacolo mutilato, nonostante una padronanza dei fondamentali e delle letture di gioco notevole e in certi aspetti superiore al livello medio della NBA, anche a causa di percorsi di carriera differenti (più tempo trascorso al college, mescolanza costante con la scuola europea), fatto acutamente notato a ogni torneo olimpico da Sergio Tavčar.
Oggi la situazione è profondamente mutata. In un basket americano sempre più lontano nei suoi sviluppi tecnici dal canestro e sempre più attratto dalle parabole da tre à la Curry, Clark si è imposta all’attenzione nazionale proprio per il suo eccezionale tiro da tre. Il suo bagaglio tecnico non si limita al tiro “from the logo”, però. Clark è una grande passatrice, è abilissima in penetrazione ed ha un’intelligenza cestistica non comune, ma senza la sua assoluta straordinarietà al tiro il “Caitlin Clark-effect” sarebbe stato molto minore, o probabilmente non ci sarebbe stato affatto. Il momento più iconico, in questo senso, è il canestro del record all-time di punti nella Divisione I della NCAA femminile segnato lo scorso 15 febbraio contro Michigan. Guardate con attenzione l’attesa spasmodica ed eccitata del record da parte del pubblico e come viene brillantemente soddisfatta da Clark con una tripla da quasi 9 metri, segnata con naturalezza irrisoria in faccia all’avversaria.
La storia globale dello sport femminile è soprattutto la storia di atlete americane che hanno agito da game-changer, creando attenzione dove non c’era, lottando contro discriminazioni e mancanza di opportunità e producendo delle ondate che dagli Stati Uniti sono fuoriuscite fuori dai suoi confini, provocando impatti su scala globale. Un aspetto che lo differenzia dagli sport maschili, che raccontano l’anima isolazionista degli Stati Uniti, forse con la sola eccezione proprio del basket.
Pensiamo a Kathrine Switzer e alla sua storica maratona bostoniana del 1967, portata a termine nonostante il tentativo di estromissione forzosa operato dal direttore di gara Jock Semple, scena immortalata nel celebre scatto di un grande fotografo come Harry Trask. Un episodio che la stessa Switzer trasformò in attivismo negli anni successivi, per l’apertura della partecipazione femminile alle corse di lunga distanza. O pensiamo ancora a Billie Jean King e alla nascita nel 1973 della WTA, particolarissimo caso di sindacalismo sportivo che, attraverso lotte costanti, ha posto le basi della prima forma di professionismo al femminile. O ancora a Brandi Chastain, mitologico spartiacque nella storia del calcio femminile con il suo rigore decisivo segnato nella finale della Coppa del Mondo del 1999 e l’esultanza in reggiseno sparata in mondovisione. Una vittoria importante anche a livello simbolico, per il successo della prima generazione di atlete figlie del Title IX del 1972, la legge federale per la parità di genere nel sistema formativo pubblico che obbligò high school e college ad aprire i propri program sportivi anche alla partecipazione femminile. Pensiamo al percorso delle sorelle Williams, raccontato da Giorgia Mecca qualche anno fa nel suo libro. O infine, per venire ad anni più recenti, ad Alex Morgan e Megan Rapinoe e alle battaglie per l’equal pay.
Sono esempi che nascono tutti nel solco del femminismo democratico-borghese americano, con la sua idea regolativa di portare le donne a occupare tutti i ruoli della società, compresi quelli sportivi. Donne forti e combattive, pronte a prendersi spazi in maniera conflittuale, in ossequio all’empowerment - concetto che condensa il tragitto storico fin qui abbozzato, e che ha finito per influenzare anche le cosiddette “filosofie aziendali” di moltissime grandi multinazionali, attraverso i criteri ESG.
Non si tratta di una rivoluzione sportiva pacificata, ma anzi nel suo riflesso ci possiamo vedere la polarizzazione che ha coinvolto tutta la politica e la società statunitense negli ultimi anni. Le grandi atlete citate sono icone della parte del Paese che vota il partito democratico, radicata nelle grandi metropoli costiere, lontane da tutti i punti di vista dalle aree rurali interne a vocazione repubblicana e oggi trumpiana. Icone contrapposte all’altro polo della geopolitica sportiva femminile, quello del volley, disciplina di creazione americana ma che ha attecchito principalmente in Paesi “nemici”. Lo dimostrano i casi di Cina, Russia e più recentemente Turchia, dove i valori comunitari della famiglia e della nazione hanno la meglio sull’attivismo rivendicativo dei diritti - non solo contrattuali ma anche privati (ad esempio sessuali) - un attivismo vissuto come figlio dell’individualismo occidentale e quindi americano (e quando questi temi fanno capolino, come nel caso recente della pallavolista turca Ebrar Karakurt, vengono vissuti come un pericolo).
Caitlin Clark, insomma, in futuro potrebbe essere messa sullo stesso piano di queste grandi icone, o forse addirittura più in alto, se pensiamo che il suo successo ha le potenzialità di cambiare i gusti del pubblico sportivo occidentale. In altre parole: la definitiva consacrazione degli sport femminili nel mercato dell’attenzione, in maniera permanente e duratura, non episodica o attraverso l’occupazione degli interstizi dei palinsesti televisivi come accade oggi. La prova che Clark potrebbe riuscirci davvero è il fatto che le Indiana Fever, la franchigia che l’ha scelta lo scorso 16 aprile al draft WNBA, abbiano subito trovato posto sulle reti nazionali per tutte le partite della stagione che sta per iniziare, di contro all’unica partita dei colleghi maschi dei Pacers trasmessa durante la regular season di quest’anno.
Ma c’è una frontiera ulteriore. Dovesse continuare quanto sta accadendo da un anno a questa parte, Clark potrebbe essere la prima atleta a rovesciare il versante di genere dell’emulazione sportiva, aprendo una nuova era. Gli sport femminili, soprattutto quelli più seguiti nella versione maschile, hanno conosciuto tante grandi campionesse, ma mai nessuna così grande da invertire l’ordine della comparazione. Pep Guardiola, per celebrare la classe di Aitana Bonmatí, l’ha paragonata ad Andrés Iniesta, e lo stesso successo di Caitlin Clark deriva in parte dal paragone con Steph Curry. Ecco, il “Caitlin Clark-effect” potrebbe essere così potente da produrre tra qualche anno un atleta che, per essere definito in grandezza, verrà accostato a lei. Il basket, sport tra i più popolari al mondo, potrebbe quindi avere al vertice della sua capacità di generare attenzione una donna. Parafrasando Hegel, si tratterebbe di un evento cosmico-storico, qualcosa che cambia in profondità la scena del mondo. Non è solo un augurio, questo, ma anche una possibilità, se si pensa che il talento sembra latitare nelle nuove generazioni del basket maschile, come dimostra il dato delle ultime finals NCAA maschili - per la prima volta nella storia superate nell’audience da quelle femminili. Anche il record di punti all-time nelle competizioni NCAA strappato da Clark a una leggenda come “Pistol Pete” Maravich non ha sollevato dubbi di lesa maestà e di improponibilità del confronto tra generi, altro segno da non sottovalutare.
Ovviamente stiamo parlando ancora al condizionale, perché il futuro è tutto da scrivere. Resta ancora l’incertezza se la guardia delle Indiana Fever riuscirà a tenere alta l’attenzione su di sé anche nel nuovo contesto della WNBA, lega che non possiede ancora quella forza attrattiva e culturale che invece appartiene alle competizioni scolastiche. C’è infatti chi ha implorato Clark, invano, di restare ancora un ultimo anno al college, per non far disperdere la mania collettiva. Tra diventare un riferimento come Jordan o una versione femminile della "Linsanity" - la follia collettiva per il cestista di origini cinesi Jeremy Lin, che nel febbraio del 2012 catturò gli Stati Uniti per poi evaporare fugacemente - ci sono molte sfumature.
Le previsioni più ottimistiche sono quelle di una lega che si trova oggi sul crinale in cui si trovava la NBA a inizio anni ’80, una possibile rampa di lancio verso il decollo. Lo sport femminile è uno strano futuro anteriore, qualcosa che è già stato, nelle tappe evolutive di quello maschile che fungono da rispecchiamento e pietra di paragone, e che però deve ancora compiersi e realizzare le proprie possibilità, in maniera quindi non totalmente prevedibile.
Tra qui e il futuro ci sono diverse variabili che potrebbero andare in direzioni che ancora non conosciamo. C’è per esempio l’eterno tema razziale. Clark è una stella bianca (e di provenienza non costiera) nello sport afroamericano per eccellenza, e gliel’hanno ricordato tante sue colleghe. Già un anno fa scoppiò una forte polemica scatenata da Angel Reese, la sua grande avversaria in questi anni di college e anche lei pronta a debuttare nella WNBA con la maglia delle Chicago Sky. Reese si scagliò contro il possibile invito alla Casa Bianca delle rivali sconfitte in finale fatto trapelare da Jill Biden, dicendo che se avesse perso lei non sarebbe stata invitata, poiché nera. Il “Caitlin Clark-effect” anche in queste settimane è stato accusato di essere così forte proprio perché è bianca e le sue gesta vengono vissute come contraccolpo identitario rispetto alle rivendicazioni conflittuali del Black Lives Matter (nei cui confronti, e non è un elemento marginale, la WNBA è stata la lega sportiva americana più apertamente schierata).
Le polemiche extra-campo nello sport a volte aiutano a far crescere la caratura mediatica dei personaggi, ma Clark da questo punto di vista sembra avere una postura antistorica, se così possiamo dire. Se c’è un’altra cosa che potrebbe unirla a Jordan, infatti, è l’apparente disinteresse per il conflitto politico e le guerre culturali, concentrandosi in maniera ossessiva sul raggiungimento della perfezione. Un atteggiamento che aiuta, quando si vuole raggiungere un pubblico trasversale. Nelle ultime settimane Clark ha ottenuto le attenzioni e i complimenti di Biden, che ha recentemente dichiarato che gli stipendi delle atlete andranno parificati a quelli dei colleghi, e non è una grossa notizia dato che, rilevazioni alla mano, l’attenzione verso gli sport femminili è molto maggiore nell’elettorato democratico. Allo stesso tempo, però, Clark ha ricevuto i complimenti anche di Nikki Haley, della governatrice repubblicana dell’Iowa, Kim Reynolds, e del governatore sempre repubblicano dell’Indiana, Eric Holcomb.
Tornando sull’impatto di Caitlin Clark, va notato come questo si ponga in un momento di crescita economica senza precedenti degli sport femminili, o forse sarebbe meglio dire delle leghe sportive femminili degli Stati Uniti. Da questo punto di vista va sottolineata una frattura culturale che divide lo sport americano da quello europeo, e che ad est dell’Oceano Atlantico non sempre viene capita. Non esiste nella mentalità americana, e nel carattere pragmatista che la definisce - e questa è la frattura - un valore culturale dello sport separato dai suoi interessi economici e commerciali. Non esiste una capacità dello sport di muovere in profondità passioni ed emozioni umane contrapposta alla sua capacità di creare ricavi e ricchezza, e negli sport femminili questo aspetto diventa ancora più evidente. D’altra parte, la lotta per il loro sviluppo e la loro affermazione è sempre stata fin dalla sua origine una lotta per la loro affermazione commerciale. Lottare per vendersi meglio, per trovare un proprio spazio nel mercato dell’attenzione, dove è gratis solo ciò che non vale niente.
È il mercato che dice chi sei, e se nessuno paga niente per te è perché non hai dignità di esistere, quindi la lotta per il riconoscimento passa da questo. La monumentale biografia di Billie Jean King uscita qualche anno fa delude gli appassionati di tennis disposti a cercarvi segreti tecnici e agonistici, ma è piena zeppa di riferimenti manageriali e commerciali proprio per questo motivo. In pochi ricordano, in questo senso, che la lotta per il riconoscimento e per l’eguaglianza delle tenniste si appoggiò inizialmente alla volontà dell’impero globale delle sigarette di vendere alla metà della nazione a cui abitualmente non si rivolgeva nelle proprie strategie commerciali. Lo stesso varrà, anni più tardi, per l’impero globale dell’abbigliamento sportivo, in una strategia simboleggiata dall’intitolazione dell’edificio più grande del proprio headquarter a una calciatrice, Mia Hamm.
Tutto nello sport femminile dell’anglosfera è oggi lotta per firmare nuovi contratti televisivi finalmente remunerativi, per rafforzare la propria presenza nei palinsesti (addirittura lo scorso autunno il principale sponsor della NWSL ha pagato la CBS per assicurarsi la prima serata della finale playoff e aumentare in questo modo i dati di ascolto), per far crescere i dati del pubblico dal vivo, per fare programmi che aumentino le praticanti in quanto potenziali future tifose e appassionate delle leghe femminili, target appetito dai grandi gruppi di servizi finanziari e assicurativi. Il “Caitlin Clark-effect”, da questo punto di vista, è combustibile pregiato.
Per le atlete americane esibire i guadagni generati è un modo per far vedere che si è usciti dal "ghetto" con le proprie forze, in una mentalità non troppo dissimile dall’esibizionismo dei rapper. Nei giorni delle Finals NCAA femminili, Sue Bird e Megan Rapinoe nel loro format videoA touch more, commentando i dati televisivi da record generati da Caitlin Clark, mostravano proprio questa mentalità: basket e calcio fusi in unità familiare e spettacolare, in cui il successo di uno sport diventa anche il successo dell’altro. Deloitte, altro caposaldo del potere finanziario dell’anglosfera, ha stimato in un miliardo il valore attuale degli sport femminili, specificando in misura prevalente calcio e basket.
Si possono citare altri grandi successi finanziari, da questo punto di vista. La NSWL ha appena siglato con quattro emittenti un accordo televisivo record dal valore complessivo di 60 milioni di dollari all’anno per le prossime quattro stagioni (il precedente era di 1,5!). La WNBA rinnoverà i suoi accordi televisivi nell’estate 2025, potendo beneficiare del “Caitlin Clark-effect” e potendo già preventivare una cifra addirittura superiore a quella strappata dalle calciatrici, in linea con l’accordo record chiuso qualche settimana fa dalla NCAA per le proprie competizioni femminili di basket. Nel frattempo, ha anche siglato un importante accordo per i diritti di trasmissione delle partite in Inghilterra.
Rob Burkle, che nel 2019 acquistò le San Diego Wave per 2 milioni di dollari, lo scorso febbraio ha ceduto la franchigia per una cifra, anch’essa record, di 120 milioni di dollari. Nel 2019 James Dolan, proprietario dei New York Knicks e delle NY Liberty, regalò la franchigia femminile alla famiglia Tsai, poi divenuta azionista di maggioranza dei Brooklyn Nets, per liberarsi del debito prodotto dalla squadra, in assenza di ricavi. I nuovi proprietari hanno investito e hanno aperto le porte del Barclay’s Center alla squadra femminile, ottenendo nella scorsa stagione un approdo in finale con dati record di spettatori dal vivo.
Certo, non sta a me prevedere la storia. Ma se questi sono i segnali, viene da chiedersi come ricorderemo Clark tra qualche anno, se le cose andranno come sembra che debbano andare. Se Jordan, con la sua incredibile storia, ha aperto l’era dei grandi atleti dominatori nello sport, Clark potrebbe finalmente aprire quella di una nuova parità (o comunque vicinanza) tra lo sport maschile e quello femminile. Oggi può sembrarci fantascienza ma, calcolando che una carriera dura circa una ventina d’anni, forse agli inizi degli anni 2000 ci sarebbe sembrata fantascienza anche una storia come quella di Caitlin Clark.