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Heloisa de Souza

Perché le campagne contro il razzismo non funzionano

Una riflessione su un tema più complicato di quello che sembra.

Questo articolo è una traduzione di una pubblicazione uscita su “The Good Football”, newsletter di Heloisa de Souza. Se volete, vi potete iscrivere qui

 

Da brasiliana che vive in Spagna, il tema del razzismo mi riguarda da vicino. Non potrebbe essere altrimenti, visto quanto se ne parla attorno a me da più di un anno, e cioè – per semplificare – da quando Vinicius Jr. è diventato uno dei migliori giocatori della Liga. 

 

L’argomento mi ronza spesso attorno e ultimamente ho lasciato che prendesse più spazio nella mia testa. Mi sono chiesta perché mi tocca così tanto e cosa posso fare, come posso occuparmene. Ho concentrato la mia attenzione sulle campagne anti-razzismo nel calcio – a richiamare la mia attenzione è stata la recente amichevole tra Brasile e Spagna, un’amichevole giocata “contro il razzismo” al Santiago Bernabeu lo scorso 26 marzo.

 

La partita è stata annunciata come parte di una serie di iniziative diverse contro il razzismo, organizzate tra le due federazioni. In genere tengo basse le aspettative per questo tipo di di cose, quindi non posso certo definirmi delusa, ma stavolta sono rimasta appesa a chiedermi se forse non ci sia un problema più profondo: forse, semplicemente, nel calcio non sappiamo creare campagne contro il razzismo che siano efficaci.

 

I risultati di un sondaggio sul tema tra i lettori della newsletter.

 

Ancor prima di toccare il tema della campagna, parliamo di quello che abbiamo visto prima della partita.

 

Abbiamo guardato Vinicius Jr., profondamente emozionato, tenere una conferenza stampa. Da solo. Nonostante sia stato elogiato per il suo coraggio, la sua resilienza e le sue parole, c’era qualcosa di strano e stonato in quello spettacolo. Stavamo guardando un giovane uomo nero piangere, mentre diceva di essere stanco di dover combattere il razzismo invece di potersi preoccupare solo di giocare a calcio. Nel frattempo veniva applaudito da un pubblico fatto principalmente da giornalisti bianchi. Non ho niente contro questi giornalisti, sia chiaro; è solo un altro spazio del calcio che avrebbe bisogno di più diversità.

 

Quello stesso giorno, durante la conferenza stampa della Spagna, ha parlato il capitano del Real Madrid, Dani Carvajal. Poteva dire molte cose, ma alla fine ha dichiarato di non credere che la Spagna sia un paese razzista. C’è qualcosa che non va. Allora perché non includere tra le iniziative della campagna queste conferenze stampa, e magari delle discussioni e dei workshop tra giocatori?

 

Ma torniamo al tema della campagna. Il Santiago Bernabéu era coperto di manifesti e banner e scritte che diffondevano il motto della campagna, “One Skin”, e la federazione brasiliana ha creato una speciale giacchetta pre-gara con la (bellissima) identità visiva del progetto – indossata solo dai giocatori brasiliani. “Ma pensavo che avevamo tutti la stessa pelle!”. È quello che mi è venuto in mente all’istante, guardando che solo una delle due squadre indossava la giacchetta. So bene che ci sono limitazioni infinite e una serie di piccole regole dietro le quinte per far succedere qualcosa nel calcio, specialmente quando si ha a che fare con due squadre giganti con dietro due sponsor tecnici rivali altrettanto giganti. Eppure sarete d’accordo: il messaggio poteva essere molto più forte e d’impatto di così.

 

Mi sono chiesta se avessi mai visto una campagna ben fatta e riuscita contro il razzismo nel calcio. Una campagna solida, d’impatto, efficace. Non me ne è venuta in mente nessuna. Le iniziative che ricordo di più sono quelle create dai tifosi, principalmente nel mio contesto locale e nazionale, ma non saprei dire se hanno avuto qualche impatto reale. Una sensazione di intangibilità che è intrinseca a qualsiasi operazione di comunicazione, mi rendo conto.

 

*Qui è dove vi chiederei di far finta che la follia “siamo tutte scimmie” non sia mai successa*. Al contrario, mi chiedo se lo sconforto che proviamo quando ripensiamo a queste campagne non racconti l’evoluzione della sensibilità comune riguardo il tema della razza e dei suoi risvolti. Se così fosse, evidenzierebbe anche l’incapacità della maggior parte dei club, delle leghe, delle federazioni di adattarsi a questa nuova sensibilità, e di reagire ai sempre meno ammissibili episodi di razzismo. Di conseguenza, il potenziale di qualsiasi campagna e del talento creativo che viene usato finisce confinato allo slogan “Stop Racism” proiettato sugli schermi, a questo punto ridotto a mero rumore di fondo.

 

Visto che non mi veniva in mente niente, ho fatto ricerca. Dopo aver speso un po’ di tempo a cercare online, mi sono imbattuta in diverse iniziative di leghe e federazioni, una premiata campagna dell’Inter, e in alcune associazioni consolidate, come Kick it Out e Far, che combattono il razzismo nel calcio in modi diversi.

 

Di recente, la Juventus si è fatta notare per alcune iniziative antirazziste. Il podcast “Sulla Razza”, che prova ad analizzare il problema a un livello più profondo, e Never Again, uno strumento creato per monitorare e combattere gli episodi di razzismo nel proprio stadio e sui propri social. Purtroppo, nonostante questi sforzi freschi e innovativi, il club è uno dei tanti in Italia recentemente coinvolti in casi di razzismo – a causa di alcuni dei suoi tifosi.

 

La complessità del problema del razzismo nel calcio suggerisce che nessuna soluzione semplice è ormai sufficiente, e lo scenario attuale indica l’urgenza di nuove strade, di una nuova direzione.

 

Prendo spunto da uno dei miei autori preferiti, Tomáš Halík, che mi ha insegnato ad apprezzare le domande più delle risposte, e, consapevole che pensare di avere la chiave per risolvere il puzzle indebolirebbe quello che sto cercando di fare qui, propongo una serie di domande su cui riflettere.

 

La verità appare nel corso del dialogo. C’è sempre la tentazione di permettere alle risposte di terminare il processo di ricerca, come se la questione fosse ormai risolta. Ma quando emerge una domanda nuova, l’inesauribile profondità del mistero riemerge ancora una volta.

Tomáš Halík

 

La priorità dovrebbe essere di ammettere gli errori e mettersi in ascolto?

Voglio credere che le persone nere siano state coinvolte nella maggior parte di queste campagne e iniziative. Eppure, qualcosa mi dice che potrebbe non essere così. Spero davvero di sbagliarmi. Tuttavia, potenzialmente, potremmo rintracciare l’inefficacia di questo tipo di campagne nel fatto che sono create da persone che non conoscono davvero a fondo il problema. C’è una scena di American Fiction che mostra questo problema molto bene, in cui una giuria di autori è riunita per decidere quale libro premiare. Uno dice: “Penso sia essenziale ascoltare voci nere in questo momento”. Lo dice subito dopo aver totalmente ignorato l’opinione di due autori neri presenti in sala.

 

Oltre a non ascoltare, mi sembra che ci sia sempre una grande difficoltà ad ammettere il razzismo quando c’è. Le accuse sono recepite come attacchi personali, e nelle risposte si sta sempre sulla difensiva – personale e di un’identità. (Ricordate la conferenza stampa della Spagna?). Nessun club, lega, confederazione, giocatore, gruppo di tifosi o nazione tollera di essere etichettata come razzista, e la prima reazione è spesso di proteggersi, mettersi sulla difensiva.

 

Potrebbe essere utile abbracciare la natura competitiva dello sport?

Correggetemi se sbaglio, ma 9.9 volte su 10, gli abusi razzisti hanno come bersaglio un giocatore o dei tifosi avversari. Le campagne contro il razzismo mancano il punto proprio quando girano attorno all’idea che siamo tutti uguali? Prima di gridarmi contro, pensateci. O ancora meglio, pensate ai vostri più grandi rivali. All’immagine della vostra peggiore o della vostra ultima sconfitta. Pensate al gruppo di tifosi che non sopportate, ma con cui dovete far finta di andare d’accordo quando arrivano al pranzo della domenica perché, be’, fanno parte della famiglia. Non cerchiamo costantemente di mostrare che NON siamo come loro? Il noi contro loro è l’elemento cruciale del gioco e una delle ragioni per cui ci attrae tanto. Dunque, non sarebbe meglio provare ad adattare il messaggio delle campagne a queste dinamiche, continuando comunque a promuovere il rispetto e la non discriminazione, invece di provare a replicare un messaggio che sembra irrilevante per il pubblico?

 

Dovrebbe esserci più monitoraggio statistico?

Come si possono sviluppare strategie efficaci per combattere un problema così vasto e complesso senza dati, statistiche e analisi sul problema? E come possiamo capire il grado di impatto e di successo di queste campagne? Forse alcune delle campagne che abbiamo citato hanno avuto più successo di quanto pensiamo, e il loro impatto non è stato misurato a dovere.

 

Per fortuna organizzazioni come Fare rispondono proprio a questa necessità, ma ho paura che il lavoro per raggiungere un vero cambiamento sarà molto più duro se più attori non si impegneranno nella raccolta dati.

 

Che ne dite di iniziare a dare l’esempio?

È difficile che tutte le campagne contro il razzismo possono avere successo senza un cambiamento dall’interno, nel senso che le strutture interne, la forza lavoro, le regole, e gli investimenti devono riflettere all’interno ciò che è promosso al di fuori. Forse se i diversi stakeholder riuscissero a promuovere la giustizia razziale dall’interno, i loro sforzi potrebbero apparire più credibili e convincenti all’esterno.

 

Possiamo farcela senza essere coraggiosi?

È possibile mettere fine al razzismo nel calcio, o almeno ad avvicinarci a questo obiettivo, prima che chi ha l’autorità di prendere decisioni diventi finalmente coraggioso, sfidando il modo in cui funzionano oggi le cose? Cosa serve per fare un passo in avanti, per farlo davvero? Possiamo sperare che qualcuno lo stia già facendo?

 

Questo contributo, in conclusione, intende incoraggiare la riflessione, la conversazione e, si spera, l’azione. Non credo sia utile starsene seduti a puntare il dito contro gli errori di chi ci sta provando. Tuttavia, credo che si possa fare buon uso di internet per restare ben informati, fare ricerca, promuovere conversazioni rilevanti sulle piattaforme.

 

Credo davvero che ci siano incredibili professionisti lì fuori, che hanno provato a cambiare questa realtà e che ancora lavorano duro per eliminare il razzismo nel calcio. Eppure mi sembra che siamo ancora lontani dall’obiettivo, e allora penso: perché?

 

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Heloisa de Souza è una Brand and Communication Strategist alla ricerca di un'influenza sullo sport per promuovere un cambiamento positivo. È la creatrice di The Good Football, una newsletter che esplora le intersezioni tra calcio, brand e impatto sociale.