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Perché continuiamo a prendercela con le statistiche?
23 mag 2023
Tutti gli allenatori analizzano i dati, eppure facciamo fatica ad accettarlo.
(articolo)
11 min
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IMAGO / Kirchner-Media
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La Roma è in finale di Europa League. Dopo l’1-0 della semifinale d’andata, giovedì scorso è uscita indenne dalla BayArena di Leverkusen grazie a un'incredibile prestazione difensiva. Una volta avremmo detto: giocando all’italiana. È significativo che la parola “catenaccio” sia rimasta in italiano anche fuori dal nostro paese, intraducibile sia per gli inglesi che per i tedeschi. Difenderci è ciò che nel calcio sappiamo fare meglio: smantellare i punti di forza di un avversario, costringerlo a giocare una partita sporca spargendo trappole per il campo. Uscire vincitori con l’astuzia. Una partita di calcio si può vincere in mille modi, ma diciamolo apertamente: questo è il nostro preferito. È il calcio che è arrivato a noi, modellato nei racconti dei papà e dei nonni fino a diventare una tradizione, una parte della nostra memoria collettiva, ciò che descrive meglio come siamo fatti noi italiani che seguiamo il calcio.

Fateci caso: nelle storie di calcio più avvincenti, dai Mondiali del 1970, del 1982 e del 2006, ci sono sempre i tedeschi che attaccano e noi chiusi nella nostra personale Fortezza Bastiani; noi che dalle torrette erette nella nostra area di rigore fissiamo i settanta metri di campo alle spalle dei nostri avversari. Solo nel ‘82 con la Germania ci si giocava la vittoria finale; nelle altre due edizioni, tra noi e la coppa, c’era ancora un avversario. Sono partite conficcate così profondamente nella nostra memoria perché le abbiamo giocate e vinte a modo nostro. In fondo il gioco di posizione, con la sua costruzione dal basso, o il gioco alla tedesca, con la sua intensità esasperata, non sono poi così male, solo non ci appartengono. Hanno il difetto di non essere all’italiana.

Sui nostri smartphone è installata almeno una app che ci aggiorna dei risultati delle partite che si giocano in giro per il mondo. Da un po’, per i match dei tornei principali, queste app offrono, oltre ai risultati, anche un certo numero di dati statistici. Tiri, passaggi, dribbling, contrasti: chi ha fatto cosa e in che quantità. I numeri ci attirano da sempre, agli anglosassoni più che a noi latini. I dati ci servono per avere conferma delle nostre sensazioni. Nella concitazione del gioco, degli eventi che si susseguono senza sosta uno dopo l’altro, il nostro cervello, mentre osserva, sta già elaborando una sintesi. I numeri sono un salvagente tirato a chi si chiede: ho visto giusto o mi sono sbagliato? Al fischio finale di Bayer Leverkusen-Roma è successo qualcosa di strano, almeno per me. Sui social c’è stato un proliferare di screenshot da queste app. I numeri della partita sono serviti non tanto per supportare la bontà della prestazione difensiva della squadra allenata da Josè Mourinho, quanto per sfottere i dati stessi. La Roma è passata nonostante gli 0,1 Expected Goals. Gli Expected Goals non servono a niente.

È un cortocircuito tra il dato e la sua interpretazione. Gli Expected Goals sono una statistica offensiva. La Roma ha effettuato un solo tiro verso la porta del Bayer, da fuori area, un tiro con una bassa pericolosità. C’erano nove possibilità su dieci di non fare gol, è ciò che sostiene il modello degli xG ed è esattamente quel che è accaduto. Insomma la Roma ha passato il turno non per merito dello zero nella propria casella dei gol, ma per lo zero nella casella degli altri. Perché prendersela con gli xG?

Il revanscismo contro i dati somiglia un po’ a quello sviluppato sui social dai tifosi, ma anche da tantissimi commentatori in tv, contro la costruzione dal basso. È una moda dannosa, perché insistono a giocare così? È una diffidenza che abbiamo sviluppato verso strumenti e situazioni di gioco che abbiamo importato da un altro calcio. Non ci appartengono, quindi non ci piacciono.

Dimentichiamo troppo spesso quanto gli allenatori vogliono vincere le partite. Hanno anche bisogno di vincerle a modo loro, giocando secondo le proprie idee, ma è un bisogno per così dire secondario. Senza risultati un allenatore perde la panchina e, oltre a ricevere un duro colpo nelle loro ambizioni professionali, ci va di mezzo la solidità economica che offrono alle proprie famiglie con il loro lavoro, e questo è un bisogno primario. Come ci ha spiegato Davide Nicola nella nostra intervista, gli allenatori prendono in prestito tutto ciò che ritengono adatto allo scopo, che è sempre vincere, segnare un gol più dell’avversario. Si studia, si prova in allenamento e se funziona si porta in partita. Un allenatore è sempre aperto al cambiamento. Non si limita a copiare le idee migliori: le contamina con le proprie, ne tira fuori una nuova versione, ne fa una sintesi tutta personale e, almeno per me, questo è il bello dell’esperienza umana, non solo nel calcio, ma in ogni ambito della vita. Lo scrittore Jorge Luis Borges diceva che esistono solo quattro archetipi di storie. Dagli antichi greci a oggi, i racconti che sono stati scritti rientrano sempre in una delle quattro categorie. E allora perché continuiamo a leggere libri, ad andare al cinema, a consumare serie tv se le storie raccontate sono in fondo sempre le stesse? Perché ogni autore ci mostra la propria versione dei fatti, il mondo visto da un’altra angolazione. E basta questo spostamento di punto di vista per farci dire: ok, questa storia è nuova.

Gli allenatori pensano che con la costruzione dal basso si vincono le partite, per questo la provano in allenamento e la inseriscono nel loro libro degli schemi. Pensano anche che i dati siano utili a vincere le partite, e infatti li usano. Mi direte che non è il caso di Mourinho. C’è uno spezzone di una celebre conferenza stampa post-partita del novembre 2018. Mourinho è l’allenatore del Manchester United che ha appena preso una sveglia dal City di Guardiola. Dice: «Le persone che non capiscono il calcio usano le statistiche per analizzarlo». È una delle frasi iconiche di Josè, destinata a diventare un mantra o un meme, a seconda che siate o no fan del portoghese. Aggiunge: «Io non uso le statistiche, ho le mie sensazioni durante la partita e so cosa ho visto». La Roma ha sei analisti, che si avvalgono delle migliori tecnologie a loro disposizione perché i giocatori possano allenarsi meglio e i coach prendere decisioni migliori. Alcuni di questi analisti sono arrivati alla Roma con Mourinho, prelevati dall’Inter, la squadra che con il portoghese ha vinto tutto. I recenti successi europei della Roma sono anche merito di questi uomini. Non fidatevi di quello che dicono gli allenatori davanti alle telecamere, ciò che fanno a microfoni spenti è spesso molto diverso. Mauricio Pochettino è considerato un uomo estremamente razionale, un mister che ha introdotto l’utilizzo dei dati in ogni ambito del suo lavoro. Ma è anche la stessa persona che nel suo ufficio deve sempre avere un cesto di limoni per «succhiare le energie negative» presenti nell’aria.

Ammetto che i dati sono ingannevoli. Lo stesso numero può significare molte cose diverse. Prendiamo ancora come esempio la semifinale di Europa League di giovedì scorso. La Roma ha fatto un tiro, mentre il Bayer ha messo insieme 1,8 xG da un totale di ventitré tentativi. Mourinho ha scelto la strategia per affrontare il Bayer alla fine di un processo di analisi avvenuto nei giorni precedenti. Ha giocato la partita nella sua testa e nessun’altra alternativa tattica sembrava offrirgli le stesse garanzie. Però, a esser tanto rinunciataria, la Roma qualcosa ha rischiato. La probabilità di portare a casa un pareggio o una vittoria da una partita così è solo dello 0,5%. Non lo dicono gli xG, lo dicono tutte le partite giocate in Europa negli ultimi anni, dalle quali gli xG hanno imparato a calcolare le probabilità.

Significa che la Roma avrebbe dovuto perdere? No, ma avrebbe potuto. Mourinho ha scelto uno dei mille possibili modi con cui si può giocare una partita di calcio e l’esito gli ha dato ragione, il risultato del match è caduto nel suo piccolo contenitore con l’etichetta davanti “0,5%”, e non in quello enormemente più grande, da 99,5%, nelle mani di Xabi Alonso. È ovvio che Mourinho non scelga di giocare sempre lo stesso calcio, non sarebbe l’allenatore vincente che è se non rivalutasse di continuo le proprie strategie. Ma ammettiamo per lo spirito della discussione che sia così. Ammettiamo che da marzo, nel mini torneo costituito dalle otto partite europee a eliminazione diretta, la Roma abbia sempre fatto un solo tiro da 0,1 xG, e contemporaneamente abbia concesso agli avversari tanti tiri quanti ne ha lasciati al Bayer. La probabilità di vincere otto partite di fila in questo modo è un numero talmente minuscolo che non riesco nemmeno a scriverlo. Però, per quanto piccolo, è comunque un numero. Non è zero. Esiste sempre la possibilità di arrivare in fondo a un torneo breve anche giocando così. È quasi impossibile, ma non del tutto impossibile.

Dall’esempio di fantasia si evince comunque un fatto: i dati acquisiscono significato maggiore all’aumentare delle partite. È possibile vincere una partita tirando poco? Certo. Si può pensare di arrivare in fondo a un torneo da otto partite, lungo quanto un Mondiale o un’eliminatoria di Europa League? Ancora sì, ma è molto più difficile. Posso spingermi a dire che si può finire un campionato in testa, dopo trentotto partite giocate in un modo così remissivo? Qui le cose si fanno davvero complicate. La storia dei campionati ci ha dimostrato che il calcio offensivo, se non nella singola partita, almeno nel lungo periodo qualche chance di vittoria in più la garantisce. Trentotto partite da giocare sott’acqua sono troppe per chiunque. A proposito: gli americani hanno più fiducia di noi circa l’utilizzo dei dati nello sport. È un fatto culturale, ma è anche dovuto a come sono strutturati i loro campionati. American football a parte, le stagioni regolari dei loro sport hanno ottanta e passa partite. Per forza da loro i dati significano qualcosa, ne generano così tanti che alla fine i valori vengono fuori. È la vecchia storia della moneta lanciata in aria un milione di volte. Alla fine avrete cinquecentomila teste e altrettante croci. Sempre che qualcuno non vi abbia rifilato una moneta truccata.

A gennaio mi chiedevo come facesse la Juventus a subire così pochi gol. Cercavo nei dati una spiegazione ai fatti che il campo mostrava e che ai miei occhi sembravano incredibili. La Juve difendeva male, attaccava peggio, ciò nonostante vinceva le partite. Era seconda in classifica, con dodici partite a reti inviolate su diciassette. Nei dati una spiegazione plausibile non l’ho trovata e ho cominciato a pensare che la buona sorte della Juventus non fosse sostenibile per molto tempo. Tre giorni dopo quel pezzo è arrivato l’1-5 di Napoli. Nelle prime diciassette giornate la Juve aveva subito sette gol, nelle successive diciassette ne ha concessi ventuno. Un allenatore deve vincere le partite, ma il posto lo salva solo se a giugno arriva agli obiettivi stagionali fissati dalla dirigenza un anno prima. Non può limitarsi a considerare un match alla volta, deve avere la visibilità di dove sta andando con la sua squadra. Man mano che si mettono partite sotto la cintura in una stagione, i dati si accumulano e iniziano a indicare delle tendenze che non possono essere ignorate. Un allenatore che vuole sopravvivere nel calcio di oggi non può più fare a meno dei dati.

Questa statistica condivisa da Flavio Fusi mostra l’andamento degli Expected Goals prodotti e concessi dal Napoli lungo l’arco di sette stagioni. Le linee rette tratteggiate mostrano un trend in ribasso per la produzione offensiva e un andamento preoccupante della tenuta difensiva. Significa forse che il Napoli non ha meritato di vincere lo scudetto quest’anno? Assolutamente no. Per un allenatore l’orizzonte temporale del suo interesse non può essere così ampio. Una rappresentazione dei dati di questo tipo può certamente interessare di più una dirigenza. Un presidente o un direttore sportivo dovrebbero chiedersi dove sarà la propria squadra tra uno, due o cinque stagioni. Analisi del genere possono aiutare a formulare una risposta, a ridurre il rischio di avere brutte sorprese. Nel calcio, come nella vita, si cade. I dati non ti tengono in piedi, ma almeno ti insegnano a mettere le mani avanti.

Ho cercato di mostrare molti utilizzi differenti dello stesso tipo di dato. Si può raccontare una storia diversa, basta cambiare punto di vista. Dev’essere chiaro però che i dati, per quanto raffinati, descrivono la realtà che analizzano solo in parte, mai completamente. Il calcio è un gioco complesso, fatto per lo più di cose intangibili. Si ciba delle emozioni di ciascun giocatore, si sostiene sulle relazioni reciproche costruite in settimane di allenamenti. I dati registrano più spesso ciò che avviene intorno alla palla, ciò che accade nel resto del campo è per lo più ignoto. È la materia oscura del calcio. C’è ancora tanto da capire sul gioco, ma le squadre credono nella forza dell’analisi attraverso i numeri. Le società di calcio possedute dai grandi conglomerati finanziari hanno enormi disponibilità economiche, potrebbero pensare di limitarsi ad acquistare di volta in volta i calciatori più forti per restare al top. Ci sono società come il Manchester City che, pur avendo quei capitali, investono centinaia di migliaia di euro ogni anno anche sul rafforzamento dei loro reparti di analisi, semplicemente perché hanno capito che i numeri fanno la differenza.

I dati miglioreranno, racconteranno una parte sempre più grande della storia. Ma sarà ciò che resterà di indeterminato a custodire la bellezza del gioco del calcio.

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