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It's coming home
22 giu 2021
Euro '96 è il torneo che ha veicolato la cultura pop inglese in tutto il mondo.
(articolo)
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C’è un preciso momento di Euro 96 che ricordo distintamente: Andreas Kopke, portiere della Germania, è disteso alla sua sinistra e ha appena bloccato il pallone calciato debolmente dal dischetto da Gianfranco Zola, mentre alle sue spalle, a nemmeno un paio di metri di distanza, il pubblico osserva ansioso e quasi sembra debba riversarsi in campo da un momento all’altro.

È una scena che rivedo con precisione nella mia mente, fino a quando la telecamera inquadra Kopke in primo piano, poi Zola a testa bassa consolato per un momento da (credo) Fuser, e per primo definisce lucidamente quel torneo nella mia memoria. Rappresenta una sorta di immagine di copertina per tutto ciò – sportivo e non - che per me ha significato l’Europeo 1996 ospitato dall’Inghilterra, in quella che sarà l’estate-manifesto (e forse picco massimo) della Cool Britannia agli occhi del continente.

Credo che tutto ciò che la mia generazione (sono nato nel 1983, ma penso possa parlare anche a nome di tutti quelli nati fino ai primissimi anni '90) ama del calcio e della cultura inglese, deriva da Euro 96. O quantomeno, molto fu veicolato da quel torneo, che ancora oggi per la stessa Inghilterra rappresenta un climax di entusiasmo tale da aver poi affrontato un moto revisionista, fino a far pensare che, forse, il suo valore fosse stato più emotivo che sportivo.

L’organizzazione dell’Europeo era stata assegnata all’Inghilterra nel maggio 1992, un po’ a sorpresa e a nemmeno due anni dalla riammissione dei suoi club nelle coppe europee dopo il periodo di ban voluto dalla UEFA (1985-1990) successivo alla tragedia dell’Heysel e al fenomeno incontrollato dell’hooliganismo.

Austria (che ospiterà gli Europei insieme alla Svizzera nel 2008), Grecia, Portogallo (ci arriverà nel 2004) e Olanda (che si rifarà nel 2000, con la candidatura congiunta insieme al Belgio) non erano contendenti dello stesso livello: il torneo del 1996 vedeva l’introduzione di un format allargato a 16 squadre, il doppio rispetto all’edizione ‘92 organizzata in Svezia, e servivano quindi il doppio degli stadi (otto) e una gestione più moderna delle cose. Era anche già chiaro a tutti che si andava verso grandi tornei internazionali di portata mediatica globale (i Mondiali di USA 94 lo avrebbero certificato poco dopo e l’edizione 1998 lo avrebbe confermato definitivamente).

L’Inghilterra stava rinnovando quasi completamente i suoi stadi, in conseguenza agli effetti del Taylor Report, alle restrizioni in materia di posti a sedere e all’ideale percorso verso la gentrificazione del pubblico, un’inversione a U assoluta che doveva contrastare una volta per tutte le intemperanze sulle gradinate.

Se ci ripenso, effettivamente, è stata proprio quella folla ordinatamente assiepata nelle prime file della gradinata est di Old Trafford, appena alle spalle della porta di Andreas Kopke, ad avermi affascinato e sorpreso. La mia giovane esperienza di stadi, a circa 12 anni d’età, era composta da diverse presenze nel catino bucolico del vecchio Delle Alpi di Torino e da qualche rara sortita al terzo anello di San Siro. In entrambi i casi nulla che prevedesse il pensiero di trovarsi così a ridosso dell’azione.

Coltivavo già il sogno di vedere Wembley “prima o poi” e quell’Europeo avrebbe acuito ulteriormente il mito del vecchio stadio nazionale inglese. Sia ai miei occhi, ovviamente, sia nel racconto dell’epica della stessa Nazionale dell’Inghilterra, in bilico fra il trionfo (il 4-1 contro l’Olanda nella fase a gironi) e la tragedia (la sconfitta in semifinale ai rigori contro la Germania), in un’estate che gli inglesi avevano celebrato come il “ritorno del calcio a casa” a trent’anni dal Mondiale vinto nel 1966. Football's coming home, come cantano ancora oggi dopo quasi ogni vittoria. Ma la canzone, che oggi è un coro da stadio, andava avanti: “Trent’anni di delusioni non mi hanno fatto smettere di sognare. Sta tornando a casa, il calcio sta tornando a casa”, cantavano Baddiel, Skinner e i Lightning Seeds in quello che era l’inno ufficiale del torneo.

Cool Britannia

In effetti, ancora oggi il sito web della Football Association inglese definisce Euro 96 come “un indimenticabile mese di calcio” ma, onestamente, non lo ricordo affatto così, almeno sul campo.

Era la prima edizione del torneo continentale a utilizzare i 3 punti per la vittoria (dopo il debutto del format a USA 94 e l’ormai uso comune nei campionati nazionali) ma, soprattutto, era il palcoscenico di debutto del Golden Goal: sdoganamento a livello professionistico del “chi fa questo vince”, grazie al quale proprio la Germania vincerà il torneo (e pure la Francia, quattro anni dopo) ma che aveva reso le gare della fase finale un inno alla paura.

Ciò che era veramente fantastico, invece, e che era limpidamente percepibile anche mentre guardavo servizi al tg e partite in tv, a km di distanza, era l’entusiasmo culturale di una Nazione che stava vivendo una sorta di improvvisa rinascita attraverso due elementi chiave: la musica e il calcio. Proprio nel 1992, mentre l’Inghilterra otteneva l’organizzazione di Euro 96, una serie di nuove band irrompevano sulla scena nazionale (e poi europea e mondiale) portando i teenager britannici allo scoperto, a metà fra il ritrovato orgoglio patriottico e la dichiarazione di una rabbia diffusa, derivante da condizioni di disparità sociale ancora fortissime, retaggio dei governi conservatori del decennio precedente.

Si chiamava Britpop, faceva parte di un sentimento di orgoglio definiti “Cool Britannia”, ma era un percorso partito da lontano, dal punk di fine anni ‘70 ai rave di fine anni ‘80, dalla scena musicale sotterranea di Manchester (MADchester) alla nascita di luoghi di culto come l’Haçienda, fino allo shoegaze e alla rivisitazione della new wave del decennio precedente. Poi l’irruzione della band Suede con il loro primo album (Suede, 1993). Improvvisamente, la cultura pop inglese era cambiata. Al di qua della Manica, però, non arrivavano i risvolti sociali di ribellione del Britpop, ma solo la fascinazione per la musica, per quel sound nuovo e conosciuto al tempo stesso.

Il paradosso dell’entusiasmante 1996 britannico viene riassunto dal monologo con cui si apre il film “Trainspotting”, uscito nella primavera di quell’anno (e tratto dall’omonimo libro di Irvine Welsh). Un messaggio fondamentalmente positivo (“Scegliete un futuro, scegliete la vita"), abbinato a una scena introduttiva travolgente – e trascinato dall’incredibile “Born Slippy” degli Underworld - ma che scaturiva dalla realtà di un disagio sociale sotterraneo che aveva plasmato gli adolescenti inglesi nei 10-15 anni precedenti ("Io ho scelto di non scegliere la vita, ho scelto qualcos’altro”). Quello che a noi appariva come una celebrazione di libertà, era lo sfogo di chi quella libertà la inseguiva disperatamente.

E poi c’era il calcio, che in qualche modo dava un senso a tutto questo. In quel periodo ero già particolarmente affascinato da Dennis Bergkamp, che nell’estate 1995 era passato dall’Inter all’Arsenal (squadra che già seguivo con curiosità e di cui sarei diventato tifoso in seguito), e la mia curiosità era stimolata anche da un personaggio come Paul Gascoigne, che arrivava da tre stagioni alla Lazio e prometteva di essere una delle stelle dell’Inghilterra. All’inizio del 1996, inoltre, lo spot Nike “Good vs Evil” aveva rivoluzionato per sempre l’immagine mediatica del calcio, trasformandolo in una celebrazione dei singoli calciatori e delle maglie da gioco, un altro elemento iconico per un giovane ragazzo. Penso sia superfluo farvi sapere quante volte i miei amici ed io abbiamo calciato un rigore tirandoci su il colletto della maglia, nei mesi successivi (vero Eric?).

Comunque sia, il calcio si intrecciava con i film e con la musica, cavalcava gli anni ‘90 dell’estetica e dell’immagine, e soprattutto mi faceva capire definitivamente quanto queste cose facessero parte di un unico grande universo culturale che poteva rappresentarmi.

L’anno precedente, per esempio, la cosiddetta “Battle of Britpop” aveva messo di fronte Blur e Oasis nella corsa alle vendite dei loro singoli (rispettivamente “Country House” e “Roll With It”), usciti nello stesso giorno nei negozi. Il calcio riusciva a caratterizzare anche questa rivalità, attraverso il tifo di Damon Albarn (frontman dei Blur) per il Chelsea, e quello dei fratelli Gallagher (Oasis) per il Manchester City (chissà cosa vi avrebbero risposto se gli aveste detto che 26 anni dopo la loro sfida sarebbe stata per una finale di Champions League, cosa che allora sembrava impensabile).

Quel periodo storico era perfetto per veicolare ogni aspetto di quella cultura, abbracciando le grafiche delle riviste e portando anche l’immagine della stessa Premier League alla ribalta: a inizio 1997 uscirà sul magazine di calcio “Shoot!” il famoso servizio fotografico con le Spice Girls che indossano ciascuna la divisa del club per cui facevano il tifo. Al cinema, intanto, “Hooligans – ID” (1995) aveva declinato in modo ruvido e onesto la scena delle curve inglesi attraverso le vicende del finto Shadwell Town londinese, mentre “When Saturday Comes” (1996) raccontava lo Sheffield United e le difficoltà sociali di una delle principali città industriali inglesi, cosa che poi avrebbe anche fatto “Full Monty” l’anno successivo.

I sogni svaniscono mentre viviamo

Euro 96 ebbe un impatto sul mondo fuori dall'Inghilterra paragonabile a quello che credo Italia 90 aveva avuto proprio sui tifosi inglesi. Il nostro Mondiale aveva acceso fra i tifosi britannici un clamoroso interesse per la Serie A e per tutto l’ambiente del nostro calcio (cultura del tifo e delle curve, squadre, stadi – sì, soprattutto se a pianta ovale), diventato poi nel tempo un fenomeno di culto che perdura ancora oggi.

Allo stesso modo, Euro 96 era stato quasi come una grande Expo della cultura inglese. Non ricordo assolutamente nulla dell’edizione 1992, per esempio, il che è molto curioso dato che la mia passione per il calcio si era accesa alla fine degli anni ‘80 ed era stata assecondata dai Mondiali italiani, prima, e da quelli americani, poi. Ma erano stati due eventi agli antipodi, uno casalingo e l’altro troppo esotico per poterlo fare “mio” in qualche modo. Euro 96, invece, era il primo evento che mi sembrava tanto internazionale quanto vicino a me, in qualche modo, e a cui potevo prendere parte. Calcio, estetica, musica, tutto racchiuso in un trionfo di toppe dell’Union Jack, in una Londra immaginata come una cartolina, nelle pose arroganti alla Liam Gallagher e nelle esultanze alla Alan Shearer.

Gli stadi inglesi mi sembravano incredibili, così a ridosso del campo, così perfetti, capaci di amplificare il rumore del pubblico e di creare un rapporto diretto con i giocatori. Calcio e musica, in continuazione. Il concerto degli Oasis allo stadio Maine Road, nelle due serate dell’aprile 1996, era uno di quegli eventi che avrebbero contribuito a definire in modo assoluto l’eccezionalità dell’Inghilterra ai miei occhi, e credo non solo ai miei.

Ma come ogni cosa, anche l’entusiasmo di quell’estate non era destinato a durare e anzi, si sarebbe lentamente annacquato nel naturale evolversi della società e dello sport, con l’arrivo degli anni 2000. Come dicono gli Oasis in Fade Away: "Otteniamo solo ciò per cui ci adeguiamo. Mentre viviamo, i sogni che avevamo da bambini svaniscono”.

La Premier League diventò gradualmente sempre più grande di sé stessa, un fenomeno globale che nel decennio successivo travolse il fragile equilibrio fra “old style” e modernità che aveva raggiunto in quella parte finale degli anni ‘90. L’Inghilterra politica riuscì a proseguire sulle ali della rinascita con l’elezione di Tony Blair come Primo Ministro nel 1997, ma allo stesso tempo non riuscì a coinvolgere la scena musicale Britpop, che non volle farsi sfruttare come strumento pubblicitario e che, anzi, arrivò a un lento esaurimento della sua epopea con la fine del decennio.

Un po’ com’era successo con la Swinging London degli anni ‘60, o con il fenomeno dell’americanizzazione del Secondo Dopoguerra, la nuova cultura pop britannica era entrata a far parte dell’immaginario continentale del decennio, conoscendo il punto più alto proprio grazie al megafono mediatico di Euro 96 e all’incredibile forza comunicativa del calcio.

La chiusura, e la successiva demolizione, dello stadio di Wembley, nel 2001, segnarono probabilmente l’ideale conclusione di questa curva di (auto)celebrazione culturale, dopodiché il percorso della cultura inglese si allineerà in parte a quello europeo e globalizzato. Mi viene da pensare, in effetti, che il senso della globalizzazione contemporanea si percepisca anche da questo tipo di epiloghi, dove tutto finisce per essere di tutti ed è sempre un po’ più difficile che un qualcosa rimanga a segno distintivo di un posto, o di una cultura, mentre viene esperita dal resto del mondo.

Ma mi rendo conto che questi ragionamenti vanno oltre a quella che, lo ammetto, non è nulla di più di semplice nostalgia. Per quanto non pensi che il mondo fosse migliore allora, ripensare a quel momento ha un effetto balsamico, soprattutto durante questo Europeo difficile per mille ragioni diverse. La vita è anche l’insieme delle esperienze e dei momenti che ci hanno coinvolto e appassionato di più, e questo è molto confortante, se ci pensate. E dato che penso che lo stesso valga per molte altre persone della mia stessa generazione, eccovi una piccola playlist con cui affrontare i momenti morti di questi giorni, tra una partita e l'altra. Vi assicuro che le compilation dei gol di Shearer possono fare miracoli, se accompagnate con la musica giusta.

6 canzoni per Euro 96

The Day We Caught The Train, Ocean Colour Scene (1996)

Supersonic, Oasis (1994)

A Design For Life, Manic Street Preachers (1996)

Charmless Man, Blur (1995)

Trash, Suede (1996)

Happy Endings, Pulp (1994)

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